martedì 24 marzo 2009

Quel massacro di 65 anni fa - 2



KAPPLER/LA CONFESSIONE


«COSI' AMMAZZAI 335 ITALIANI»


 


«Sapevo quello che dovevo chiedere ai miei uomini». «La lista era tenuta da Priebke». «All'albergo Excelsior, andai la sera». «È ve­ro, offrii ai miei uomini una bottiglia di co­gnac». Pubblichiamo stralci della confessio­ne di Herbert Kappler al processo che lo con­dannò all'ergastolo





Non ricordo l’ora in cui telefonai aWinden. Quella notte fe­ci molte telefonate.


Mi fu detto nel corso dell'istruttoria che Winden non era in ser­vizio, ma posso confermare che parlai proprio con lui.


È vero che il posto di Winden era stato occupato da Köler. Co­noscevo Winden personalmente e per questo mi rivolsi a lui. Credo che fossero quattro le condanne a morte non eseguite. A lui chiesi che mi venissero consegnate le persone che avrei fatto elencare nella notte e quelle da noi assegnate al Tribunale e non ancora processate. Volevo così aumentare il numero dei prigionieri degni di morte. Pregai ancora che mi venissero con­segnate persone condannate non a morte ma a pene tempora­nee per indulgenza. La prima e la seconda richiesta furono da lui accolte mentre la terza non fu accettata per motivi giuridici. Comunque mi disse che ne avrebbe parlato al capo del Tribu­nale Militare.


Nella notte tra il 23 e il 24 mi vennero portati gli elenchi par­ziali delle persone che dovevano essere giustiziate.


Penso che gli uomini dichiarati degni di morte siano stati 170.


A questo punto mi trovai nella necessità di dovere includere gli ebrei.


A mia memoria il numero degli ebrei era di 57. Se non aves­si messo gli ebrei, avrei dovuto aggiungere persone la cui col­pevolezza era mano chiara oppure avrei dovuto aggiungere le 110 persone rastrellate in via Rasella.


Quest’ ultima soluzione sarebbe stata per me più semplice, ma volevo portare la decisione ad un male minore possibile. De­cisi allora di rivolgermi alla polizia italiana e di includere gli ebrei che si trovavano a nostra disposizione i quali, fra qual­che giorno, avrebbero dovuto essere trasferiti in campi di con­centramento in Germania per tutta la vita.


Come gli ebrei aumentarono di numero lo dirò in seguito.


La lista complessiva era di 270 persone; 50 le doveva dare la polizia italiana.


Vidi i fascicoli di quelli che erano a nostra disposizione. Non esaminai quelli dei condannati la cui responsabilità fu assunta da Winden.


Non erano a mia disposizione quelli del 3° braccio di R. Coeli, ma del tribunale militare tedesco. Quelli a mia disposizione erano a via Tasso e solo pochi si trovavano al 3° braccio.


Non so come si svolsero le cose per il ritiro delle vittime. Non era compito mio, ma dell'ufficiale che aveva designato Schutz. So­lo per caso, vidi un trasporto.


Non ero al corrente che tra le vittime c'erano dei minorenni, lo ordinai di segnalarmi uomini e non dissi che dovevano essere maggiorenni. Ammetto che non dissi di non proporre minoren­ni, ma uomini. Tale vocabolo in tedesco esclude la possibilità di minorenni.


Non esaminai nome per nome gli ebrei e non mi venne in men­te che ci potevano essere minorenni. Non avrei potuto esamina­re in una notte 320 fasciscoli. Potei farlo quando, per un gruppo di persone, c'era un solo fascicolo.


I singoli casi che mi venivano presentati erano stati già esami­nati da chi li aveva ritenuti degni di morte. (...)


Ricordo che Don Pappagallo venne incluso nella lista perché socio attivo di un gruppo di comunisti. La sua attività non era di umanità generica. In caso affermativo non avremmo proceduto contro di lui.


II generale Simoni non occupava una posizione insignificante nel movimento Montezemolo.


Il caso del generale Artale non lo ricordo.


Non ricordo i fratelli Cibei. Essi furono messi nell'elenco, ma non coscientemente. Furono fucilate cinque persone in più di quelli che erano nell'inten­zione e non sarà mai possibile accertare come queste cinque persone furono avviate alle Fosse Ardeatine. Ho avuto con­ferma, qualche giorno fa, che quando si andarono a preleva­re a Regina Coeli le 50 perso­ne indicate dalla polizia italiana, non tutto si svolse regolarmen­te e che un impiegato, spaven­tato dalla presenza dell'ufficia­le tedesco, aprì una cella dove c'erano delle persone in più. (...)


Non è vero che io diedi ordi­ni espliciti a Caruso. Ciò avven­ne una sola volta in occasione delle azioni contro conventi ed istituti del Vaticano.


Dissi a Caruso che l'elenco doveva essere fatto in ordine di gravita. Più tardi, mi fece sapere che la polizia poteva scegliere 50 persone e che alle 11 mi avrebbe trasmesso l'elenco. Con Cerutti, Alianello e Caruso, non si parlò mai di ottanta persone.


Mi fu rimproverato che erano state messe nell'elenco persone di rango elevato, ma la posizione sociale non era il criterio della nostra scelta. 1270 nomi dimostravano la composizione dei vari gruppi, appartenenti a diverse categorie sociali. Avevo l'intenzio­ne di dare l'importanza di una vera e propria rappresaglia milita­re e di fare un ammonimento alla popolazione per l'avvenire. (...)


Accettai l'ordine perché in caso di rifiuto, l'ordine sarebbe stato eseguito ugualmente. Alle ore 12,30 circa ritornai nel mio uffi­cio. Nonostante la guerra e nonostante che migliaia di persone morissero per la guerra, gravava su di me più l'ordine di dover effettuare l'esecuzione, che nella notte precedente il dover com­pilare la lista.


Sapevo quello che dovevo chiedere ai miei uomini. Non ero un comandante di battaglione per cui avrei potuto dare l'incarico ad un comandante di compagnia.


Non avevo mai presenziato ad un’esecuzione, nonostante la mia professione.


Tra me ed i miei compagni non esisteva alcuna distanza. Con loro dividevo gioie e dolori. (...) Il colpo al cervello fu ordinato da me. Il numero delle vittime, in proporzione ai miei uomini, non am­metteva che su ogni vittima si sparasse più di un colpo. L'unico colpo sicuro era al cervelletto.


Per evitare il deterioramento dei cadaveri e per riguardo al sen­so fisico e psichico della vittima, diedi ordine di non appoggiare l'arma e che, nonostante questo, il colpo venisse sparato dalla più vicina distanza possibile per essere sicuri dell'effetto. Suppongo che sia costretto a parlare di queste cose. La riunione nel mio ufficio durò al massimo un quarto d'ora.


L'idea di fare effettuare l'esecuzione in una grot­ta partì da me.


Il tempo fissato, la vicinanza del fronte ed il bre­ve tempo a mia disposizione non mi avrebbero permesso di costruire un cimitero.


Queste riflessioni mi portarono all'idea di far creare una camera mortuaria.


Non credo che avrei potuto usufruire del For­te Bravetta perché le vittime venivano prima le­gate a una sedia e slegate dopo l'esecuzione.


In tali condizioni non era possibile eseguire l'esecuzione nel tempo stabilito dall'ordine. (...) Alle 13, andai a mensa ma non per mangiare. Andai per trovare gli uomini liberi dal servizio. Rivolsi ai presenti alcune parole.


In quell'occasione venni a sapere da Schutz che era morto il trentaquattresimo soldato. Ri­sposi, allora, che quella questione non finiva più e manifestai la mia preoccupazione per comple­tare la lista. Mi fu risposto che erano stati arre­stati 10 ebrei e che sarebbero stati a disposizione. Poiché non avevo altra possibilità accettai la pro­posta.


L'elenco che portai a Maeltzer era di 270. L'or­dine non diceva che dovevano essere 320, ma che per ogni soldato tedesco dovevano essere uccisi 10 italiani. Non era dunque necessaria alcuna autorizzazione per aumentare la lista. Nel cortile di via Tasso vidi Schutz. C'era Thunnat. (...) I camion dovevano giungere in modo che non dovevano at­tendere fuori.


Ero presente ma non so chi ordinò il fuoco al primo plotone. Ho osservato che quelli che scendevano dal camion, venivano can­cellati da una lista. La lista era tenuta da Priebke. Non posso dire se la lista venne tenuta sempre da lui. Mi venne riferito che fe­ce sempre questo lavoro e che si fece sostituire per poco tem­po.


Le vittime venivano chiamate dal camion a 5 per volta e ve­nivano accompagnate dagli uomini del plotone di esecuzione. (...)


Non mi risulta che le salme si ammucchiavano man mano che venivano fucilate.


Sono sicuro di no. Seppi quando andai per la seconda volta che qualcuno si era rifiutato di fare l'esecuzione. Questi era Wetjen. Seppi pure che i plotoni erano in istato di agitazione ed erano corse delle parole come queste: "Lui impartisce gli or­dini e non li esegue".


Nell'interesse di Wetjen e della disciplina, parlai con lui, non lo rimproverai, non gli comandai nulla. Gli feci solo presente quale effetto avrebbe avuto la sua condotta, nei riguardi dei suoi uomini. Lui mi espose il suo stato d'animo e gli chiesi se era in grado di eseguire gli ordini se fossi rimasto al suo fianco. Mi rispose di sì ed allora superai me stesso e mi posi ancora nel plotone d'esecuzione. (...)


Al termine dell'esecuzione non fu rinnovato il plotone con uf­ficiali. Non avevo detto che si doveva chiudere l'esecuzione con un plotone di ufficiali. (...)


È vero che offrii ai miei uomini una bottiglia di cognac ed ho precisato questo fatto di mia iniziativa. (...)


All'albergo Excelsior, andai la sera. Arrivai prima di Wolff e lo attesi per parecchio tempo. Credo che egli, prima di venire in albergo, si sia recato da Kesserling. Quando arrivai, era in com­pagnia di Dollman e di Widner suo aiutante maggiore. Wolff mi disse che del fatto era stato informato la sera precedente da Harster e che per questo era venuto a Roma. Mi chiese come era successo. Gli parlai degli ordini avuti e come erano stati ese­guiti nonché degli accertamenti fatti, ma egli mi interruppe di­cendomi che voleva parlare delle misure di rappresaglia.


Precisai che i miei avevano dovuto giustiziare 330 uomini, che Dobrick era riuscito a tirarsi indietro. Wolff mi rispose che quanto era stato fatto non bastava; ed io con una certa agitazione risposi: a me basta. (...)


Nel corso della mattinata Schutz e Priebke vennero da me e mi riferirono che, dopo una constatazione, risultavano giusti­ziati 335 e non 330 e mi diedero su per giù la seguente spie­gazione. Man mano che le vittime scendevano dai camion i nomi venivano cancellati dalla lista. I nomi erano indicati nel­le liste a gruppi e singolarmente. Priebke mi spiegò di avere avuto l'elenco della polizia italiana, senza la numerazione del­le vittime e che dopo l'esecuzione, nel fare la somma delle va­rie liste, constatò che la lista italiana comprendeva 55 e non 50 nomi.


I due erano molto addolorati per l'accaduto. Dissi loro che do­vevo fare un rapporto dell'accaduto al generale Harster. Co­nosco la copia della fotografia di una lista. Mi è stata sottopo­sta diverse volte, ma essa non è quella che nella mattinata del 25 marzo mi fece vedere Priebke.


Non avevo nessun motivo per dubitare di Schutz e cioè che la lista italiana comprendeva 55 e non 50 vittime. Più tardi sep­pi che l'attentato aveva provocato la morte a 32 tedeschi.


 


AVVENIMENTI


18   MAGGIO   1994

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