mercoledì 31 maggio 2006

In attesa del verde


Mi allontanerò per qualche giorno. E, mentre ci avviamo alla terza, importante consultazione elettorale, sul referendum conservativo della Costituzione, l’occasione mi è propizia – come si usa dire con ampollosità – per fare 60 volte auguri alla Repubblica Italiana e, molti di più, alle care lettrici e ai cari lettori di questo blog.


Ciao J

martedì 30 maggio 2006

L'assenza


Il papa ha visitato ieri Auschwitz, luogo simbolo per eccellenza della barbarie nazista. E durante il suo discorso si è chiesto: “Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?”. Domande che da anni l’umanità si pone, senza poter trovare una risposta adeguata. E se invece quel Signore, interrogato da Benedetto XVI, non esistesse? Mai un dubbio su questo, mai una perplessità, un’incertezza, uno sbandamento? Un’entità indefinita, vaga, solo un atto di fede. Non viene in mente che il silenzio c’è stato, perché dio non esiste?


Certo il papa è alieno da simili conclusioni, ma altri uomini non lo sono e la loro risposta, che è poi anche la mia, mi pare proprio la più convincente. E terribile.



 

lunedì 29 maggio 2006

Del delitto e della pena


“Oh l'hai vista quella che ha ucciso la madre e il fratello? Oh è una f...!”. L’osservazione “acuta” mi colpisce mentre giro le spalle ad un collega, ma l’approvazione non è richiesta a me che sto uscendo. Anch’io l’ho vista, certo, “quella” (Erika De Nardo) nel filmato proposto dal Tg1, mentre gioca a pallavolo. Anch’io ho notato quella ragazza longilinea, con i lunghi capelli legati dietro le spalle, gli occhiali da sole alzati sulla fronte, accaldata e la sigaretta tra le dita, discutere allegramente con le sue compagne di gioco, interessata a quanto accade in campo, coinvolta a pieno titolo nel micro evento agonistico.


Ma non ho pensato che fosse scopabile (traducendo il pensiero del collega), piuttosto mi sono chiesto dove fosse finita l’espiazione della pena, se l’eventuale senso di colpa avesse lasciato qualche traccia, certo fastidiosa, ma in certi casi inevitabile. L’ho guardata, questa giovane donna che massacrò, ancora adolescente, metà della famiglia, con compassione e un senso di fastidio. Poi, qualche giorno più tardi, la decisione della Corte di Cassazione, ha provveduto quasi ad assecondare i miei pensieri, respingendo il ricorso della ragazza che aveva chiesto la libertà condizionata per essere inserita in una struttura terapeutica. Non si è ravveduta, ha sentenziato la Suprema Corte per il “vissuto criminale” di “gravissima entità”, con ciò condividendo il giudizio del tribunale di sorveglianza dei minori di Milano che aveva già osservato, un anno fa, come “la condotta altalenante del soggetto era ben lungi dall’aver acquisito un senso di colpa reale”.


Erika deve scontare 16 anni di carcere, dovrebbe essere un tempo sufficiente affinché possa riprendersi la vita, che ha tolto un po’ anche a se stessa in quel 12 febbraio di cinque anni fa.


 

martedì 23 maggio 2006

"Gli uomini passano, le idee restano". Giovanni Falcone


Ci sono date che si conficcano nella testa e lì restano, a vita. Incancellabili. Esistono luoghi della memoria che ci accompagnano, dopo averci preso per mano violentemente, attraverso le vicende del quotidiano. Luoghi che, magari non abbiamo mai visitato, ma che appartengono ormai al vissuto personale. E si accoppiano alle date.
Capaci, 23 maggio 1992.


ESPLOSIONE SULL'AUTOSTRADA PALERMO-TRAPANI


(ANSA) -PALERMO, 23 MAG


Una violenta esplosione è avvenuta sull'autostrada Palermo-Trapani all'altezza dello svincolo di Capaci, un paese a 20 chilometri da Palermo. L'esplosione ha investito alcune automobili in transito e sventrato un tratto dell'autostrada. Sul posto si sono recate numerose auto di polizia e carabinieri, autoambulanze ed elicotteri delle forze dell'ordine per soccorrere i feriti. Gli investigatori stanno accertando se si tratti di un attentato ad una "nota personalità" che percorreva l'autostrada. (SEGUE)


ATTENTATO A GIUDICE FALCONE, MORTI UOMINI DELLA SCORTA


(ANSA) -  ROMA 23 MAG, ORE 18.53


Il giudice Giovanni Falcone, direttore generale del Ministero di Grazia e Giustizia, è rimasto gravemente ferito in seguito ad un attentato mentre percorreva l'autostrada Trapani-Palermo ed è stato ricoverato in ospedale. Alcuni uomini della sua scorta sarebbero rimasti uccisi. (SEGUE)


ATTENTATO A GIUDICE FALCONE, MORTI UOMINI DELLA SCORTA


(ANSA) - PALERMO 23 MAG, ORE 19.09


Secondo quanto si è appreso da fonti investigative, il giudice Falcone sarebbe "clinicamente morto". La moglie è in gravissime condizioni. (SEGUE)


ATTENTATO A GIUDICE FALCONE, MORTI UOMINI DELLA SCORTA


(ANSA) - ROMA 23 MAG, ORE 19.31


Secondo una prima ricostruzione l'attentato al giudice Falcone sarebbe avvenuto intorno alle 18,20 sull'autostrada A 29 all'altezza di Capaci. Un'autobomba sarebbe stata fatta esplodere al passaggio delle 5 macchine della scorta. In tutto sarebbero rimaste coinvolte sette autovetture. Il bilancio delle vittime, oltre al giudice Falcone che sarebbe "clinicamente morto", sarebbe di tre poliziotti della scorta. Numerosi sarebbero anche i feriti e fra questi la moglie Francesca Morvillo, giudice della Corte d'Appello di Palermo. (SEGUE)


MORTO IL GIUDICE FALCONE


(ANSA) - ROMA 23 MAG, ORE 19.44


Il giudice Giovanni Falcone è morto. (SEGUE)


(ANSA) - ROMA 23 MAG


PANORAMICA DELLE ORE 21.30


Il giudice Giovanni Falcone, 52 anni, direttore generale del Ministero di Grazia e Giustizia, magistrato simbolo nella lotta alla mafia, è morto questo pomeriggio poco prima delle 18.00 in un attentato dinamitardo sull'autostrada Palermo-Trapani. Nell'agguato hanno perso la vita anche la moglie, Francesca Morvillo, e tre poliziotti di scorta, Antonio Montinari, Vito Schisano e Rocco Dicillo. Francesca Morvillo, anch'essa magistrato, è morta intorno alle 23.00 mentre veniva sottoposta ad intervento chirurgico. Falcone era sbarcato da poco all'aeroporto palermitano di Punta Raisi, proveniente da Roma. Per uccidere il magistrato è stata utilizzata una tecnica cosiddetta  libanese. Una carica ad altissimo potenziale, circa una tonnellata di tritolo, piazzata in un sottopassaggio dell'autostrada, è stata fatta brillare con un telecomando a distanza. La deflagrazione ha distrutto sei vetture, l'auto di Falcone, tre di scorta e due che provenivano dalla carreggiata opposta. Il manto stradale è stato sventrato e si è aperta una voragine di circa venti metri di diametro. Secondo gli investigatori il telecomando è stato azionato a grande distanza perché i terroristi conoscevano bene gli effetti micidiali della carica. L'attentato è stato rivendicato in serata dal gruppo eversivo Falange Armata.  


giovedì 18 maggio 2006

13, il numero magico


Quelle insegne gialle e verdi delle ricevitorie che segnalavano, in ogni contrada, anche il tradizionale “Bar dello Sport”, appartengono alla memoria collettiva del Paese, soprattutto un Paese che stava rialzandosi dopo la catastrofica guerra e voleva ricostruire, dimenticare e divertirsi, prendendo confidenza con il piccolo azzardo rappresentato dalla sfida settimanale con abilità e fortuna. Più la seconda della prima, in verità.


Il 5 maggio 1946 venne giocata la prima schedina Totocalcio, nata dalla brillante intuizione di un giornalista sportivo, Massimo Della Pergola, ebreo triestino, mentre era graziosamente ospitato in un campo di prigionia. All’alba si chiamava Sisal, poi diventò semplicemente “la schedina” la cui compilazione rappresentava la tappa obbligata del sabato pomeriggio.


Ho ritrovato una di quelle schedine (non è quella della foto), una piccola “chicca”. Risale all’11 novembre 1979, ben lontana dalla profanazione del computer e delle giocate automatizzate. Ogni settimana un colore diverso ai bordi: arancio, verde, rosso e azzurro se la memoria non mi inganna. Perché poi questa ricognizione è condotta sul filo della memoria.


Quel tagliando, con le 13 partite di serie A, B e C, costituiva il passaporto per sognare, ogni settimana. Sogni innocenti, intendiamoci. Il ragazzino che ero allora compilava con accuratezza il tagliando "figlia", quello che - lo raccomandava una scritta verticale - andava conservato in caso di schedina vincente, perché il pagamento sarebbe avvenuto solo presentando quel tagliando. Otto colonne che si ripetevano nella tabella “spoglio” e, infine, in quella “matrice”. Con gli 1 X 2 che si susseguivano. Poi subito in ricevitoria dove il titolare disponeva di una rotella-tampone su cui faceva scivolare delle striscioline adesive di carta, mi pare verde che mutavano colore a seconda del numero delle colonne giocate (il rosso per il massimo di otto colonne) che poi andava ad incollare sulla schedina, la tagliava appoggiando il prezioso foglietto ad un righello e restituiva il tagliando “figlia” che poi avrebbe fatto compagnia la domenica pomeriggio, quando il campionato di serie A si giocava alla luce del sole (in tutti i sensi) e quei segni si alternavano a seconda del racconto che Ameri, Ciotti, Provenzali, Ferretti, Luzzi e Bortoluzzi dallo studio centrale, facevano.


Massimo Della Pergola è morto alcuni mesi fa, la schedina ha compiuto 60 anni all’inizio di maggio, ma mai come in questa circostanza dimostra il doppio degli anni che ha e il suo declino è ormai irreversibile. Come la nostra bella gioventù che non tornerà più.


sabato 13 maggio 2006

Jennifer, 20 anni: sepolta viva


Dall'autopsia sul corpo di Jennifer Zacconi una agghiacciante verità
"E' morta per aver respirato una grande quantità di fango"


Venezia, è stata sepolta viva
la ragazza incinta al nono mese


Il magistrato: "Lucio Niero non sarà accusato di duplice omicidio
ma di omicidio volontario e occultamento di cadavere"



VENEZIA - Sepolti vivi. Jennifer Zacconi e il bambino che portava in grembo e che doveva nascere tra pochi giorni sarebbero morti così. Il cadavere della ventenne incinta al nono mese, è stato trovato in un campo a Maerne. Per l'omicidio è accusato Lucio Niero, ritenuto il padre del piccolo che avrebbe commesso il delitto per nascondere alla moglie la sua relazione con la ragazza.


L'autopsia. L'esame autoptico ha evidenziato che la giovane ha respirato una grande quantità di fango prima di morire. E anche il suo bambino è morto per mancanza di ossigeno. Chi l'ha uccisa non ha atteso o non si è assicurato, che avesse smesso di respirare quando l'ha deposta in una fossa scavata nelle campagne veneziane dopo averla colpita una decina di volte all' addome e al pube e aver tentato di strangolarla.


Non è duplice omicidio. Chi ha ucciso Jennifer ha spezzato due vite in una, ma gli sarà contestato un unico omicidio volontario e un unico occultamento di cadavere. Non essendo ancora nato, infatti, il piccolo di Jennifer non ha autonomia giuridica. Ma anche sul suo corpicino ha lavorato fino a sera inoltrata l'anatomopatologo Antonello Cirnelli. L'importanza delle risposte dall'autopsia, erano state sottolineate dal procuratore capo Vittorio Borraccetti: tutto servirà alla magistratura per contestare eventuali aggravanti al reato di omicidio volontario e occultamento di cadavere.


8 maggio 2006 www.repubblica.it


 


Folla commossa ai funerali della giovane uccisa dall'amante
Una folla dietro al feretro con dentro i corpi di mamma e figlio


Jennifer, bara bianca per l'addio
Niero minacciato dagli altri detenuti


Su un giornale la foto del piccolo mai nato: "Volontà della nonna"
L'assassino spostato a Verona dopo gli insulti ricevuti in carcere a Venezia



VENEZIA - Una bara bianca per Jennifer Zacconi, la ventenne uccisa, incinta di nove mesi, dal suo amante Lucio Niero. Questa mattina nella chiesa parrocchiale di Olmo di Martellago, in provincia di Venezia, ci sono stati i funerali, seguiti da un paese sconvolto da uno dei fatti di cronaca più drammatici degli ultimi anni. Per l'ultimo saluto, ai parenti della ragazza si è unita una grande folla, e le volontarie del Movimento per la Vita, che avevano assistito Jennifer nella sua difficile gravidanza. La madre di Jennifer, Anna Maria Giannone, continua, come ha raccontato, a mandare sms al telefonino della figlia morta e non si dà pace per non averla fermata la notte in cui uscì per incontrarsi con l'assassino. Il padre, Tullio Zacconi, sostiene la premeditazione del delitto e ripete di voler aspettare Niero quando uscirà dal carcere. Applausi per il feretro - con mamma e piccolo dentro, poiché il feto è stato estratto dall'anatomopatologo - nel quale è stato posto un orsetto di pezza destinato al nascituro.


12 maggio 2006 www.repubblica.it


Foto: la Stampa 



 


Una morte atroce, l’ennesima violenza consumata ai danni di una donna. Ho parzialmente estratto questi due articoli da repubblica.it e propongo integralmente l’intenso commento di Silvia Ballestra (“l’Unità”).


Aggiungo brevi considerazioni.


La brutalità è accaduta in Italia, nel veneziano, profondo Nord est. Sarebbe questa la cosiddetta “civiltà superiore” rispetto agli islamici?


Non ha niente da dire papa Ratzinger sul tipo di amore che legava l’assassino a sua moglie o, anche, al presunto amore nei confronti di Jennifer? Amore debole o forte? E, invece, sarebbero i Pacs la rovina delle famiglie come delira la Chiesa di Roma?


È un periodo in cui mi fanno schifo molte cose e queste giornate sono piene di notizie da vomito. Forse non sarebbe male cercare il silenzio, questo sconosciuto.


 


 


Gli assassini e gli indifferenti




Decapitata per strada con un coltello - non vi sfugga il dettaglio - tipo «Rambo». Sepolta viva col pancione di nove mesi a una settimana dal parto indesiderato (dall´assassino). Rapite, violentate, picchiate come tamburi. Ricattate sessualmente. Insomma, le donne e la violenza, una buona benzina per la cronaca nera, che è poi semplicemente la cronaca: quel che succede. Eppure, a quanto sembra, pochi collegano le immagini splatter dei telegiornali sulla donna-uccisa-del-giorno con le grandi cifre di come va il mondo tutto intero.


Quel che è vicino è tanto grande da impedirci di vedere l'insieme. Una povera donna con la testa mozzata sembra un'altra cosa rispetto alle cifre dell'Onu (1998) che fanno il punto sulla violenza sulle donne. Sembrano distanti e invece sono la stessa cosa. La violenza è la prima causa di morte e invalidità sul pianeta per le donne dai 15 ai 44 anni. Più della guerra o della malaria, più degli incidenti stradali o del cancro, le donne muoiono per le botte di padri, fratelli, mariti e compagni. Una questione di diritti umani che riguarda più o meno metà dell'umanità (l'altra metà, pare, preferisce menare le mani). Verrebbe quasi da dire che il problema è degli uomini, che dovrebbero fare loro una seria riflessione sul loro malessere.


Paradosso della comunicazione: dici violenza sulle donne su scala planetaria e pensi a faccende tribali, a mutilazioni religiose, alle moltitudini la cui vita è considerata quasi naturalmente in bilico. La violenza italiana quotidiana sulle donne pare invece uscire dalle statistiche e diventare «caso limite», buono per il voyeurismo dei media. C'è indignazione ma in pochi notano che le vittime sono quasi sempre donne, che il movente della violenza è quasi sempre molto maschio, che si muore di più, o si viene picchiate, di norma quando ci si sottrae a un «possesso». Secondo Amnesty International (2003) almeno in una coppia su dieci la donna subisce violenza. Niente ci impedisce di pensare che qui vada meglio, anzi, e il 65 per cento delle violenze in famiglia ha per vittima una donna. Ecco un posto dove le quote rosa non servono.


Moltissimi se ne occupano: studi e convegni, prevenzioni varie, accoglienza e soccorso, sociologia, polizia, medici e infermieri, cioè praticamente interi pezzi di società vengono ogni giorno a contatto con donne che hanno subito violenza. Molti dedicano vite e carriere al problema. Ma l'emergenza sembra non fare breccia sull'informazione popolare - che pure maneggia con disinvoltura violenza ogni giorno - né pare di vedere in giro una presa di coscienza collettiva, né sembra che la grande informazione sappia sommare tra loro tanti singoli episodi per intuirne una tendenza: che le donne sono più esposte alla violenza.


Farli smettere (di menare, di ricattare, di sottomettere in ogni modo, e di ammazzare) dev'essere il punto fermo. È l'obiettivo di ogni campagna per i diritti umani: salvare i minacciati. Intanto, e come condizione preliminare, si vorrebbe anche una specie di movimento ideale, stupore e indignazione collettivi, che sollevasse il problema. Che collegasse in modo evidente a tutti la stupefacente distanza tra l'immagine di donna che ci è propagandata e la donna reale, che prende pure qualche sberla. Gli uomini, in genere, ne traggono un certo fastidio. Esitano, persino i più democratici, ad accettare di far parte della parte che opprime, anche loro in qualche modo accettano l'enormità delle statistiche finché se ne stanno lontane, e la vicina picchiata, o l'accoltellata del giorno sembrano un'altra cosa. Forse non è indifferenza, ma lontananza, una specie di neutralità. Spezzare questo atteggiamento, per esempio nei grandi media elettronici, nella stampa popolare, nei linguaggi pubblicitari, nell'opinione pubblica più ampia, potrebbe essere un primo mattoncino. Quante volte troviamo il modello di donna esposto spaventosamente a misura d'uomo (e non di donna)? Sarebbe ora di cominciare a dirlo più spesso.



 


giovedì 11 maggio 2006

Benvenuto, Presidente e buon lavoro


E, come gli ultras in curva, ripetiamo ritmando (anche per far rosicare i destri): Napolitano, uno di noi.

mercoledì 10 maggio 2006

lunedì 8 maggio 2006

La miniera della morte


Partito sabato da Seraing, in Belgio, con un cronoprologo di 6 chilometri, l’89° Giro d’Italia ha fatto tappa ieri a Charleroi (Marcinelle). Una tappa della memoria. 


Il nome della località belga, infatti, è legato indissolubilmente alla devastante tragedia che colpì, principalmente l’Italia, quella della povera gente del Sud costretta ad emigrare per trovare lavoro (e che lavoro) in zone inospitali, dove l’avversione per lo straniero si manifestava negli accoglienti cartelli all’ingresso dei bar che vietavano l’ingresso a cani, bambini e italiani. Accadeva tutto solo 50 anni fa.


 


"Nous sommes une cinquantine. Nous fuyons les fumées vers les quatres paumes..."


Fu scritto con il gesso su di una tavoletta di legno da una delle vittime, mentre cercavano scampo...


 


 [...] L'8 agosto del 1956, nelle miniere belghe di Marcinelle dove a profondità abissali (più di mille metri) lavorano uomini e bestie, le fiamme si impadroniscono di un pozzo e da lì si propagano negli altri. I 240 minatori di cui 138 italiani, la maggior parte dei quali meridionali e calabresi, restano intrappolati. Non si salva nessuno. La notizia semina sgomento.


[...] Il 9 agosto l'affannosa lotta per strappare i minatori sepolti nella miniera in fiamme dichiara la sua impotenza. Le squadre di soccorso non riescono a raggiungere nessuno dei minatori, strozzati dall'ossido di carbonio e inseguiti dalle fiamme. Agghiaccianti le prime righe dell'inviato speciale, che comincia a porre sotto accusa l'amministrazione mineraria e avanza critiche per il modo come sono stati assunti i primi provvedimenti per fare fronte alla tragedia che si svolge nelle viscere della miniera: “Anzitutto, in pochi cenni, le magre novità della giornata. Nessun altro dei minatori sepolti nelle viscere del Casier è stato recuperato, nè vivo nè morto. L'incendio, a giudicare dal pochissimo fumo che esce da quella che si può chiamare davvero la miniera della morte e dalle notizie dei tecnici, si va estinguendo grazie all'opera dei pompieri, alla chiusura delle gallerie invase dalle fiamme mediante opere in muratura e sacchi di sabbia. Ma all'ultimo piano della miniera, a 1035 metri di profondità, dove certo si trovavano 130 minatori, quasi metà degli scomparsi, non c'è arrivato nessuno e neppure si è arrivati alle gallerie superiori, in cui erano dispersi i rimanenti. Corriere della Sera, 9 agosto 1956


[...] la solidarietà fu vasta, la richiesta di accertare le responsabilità civili e penali della catastrofe di Marcinelle fu unanime, generale il cordoglio. Le Peuple, organo del partito socialista belga, uscì listato a nero fin dai primi giorni del tragico evento. Ma nessuna delle cause vere, che determinarono l'inferno nero di Marcinelle, fu eliminata.


La causa del prodursi dell'immensa bara di 255 minatori stava nelle ragioni che spingevano ad emigrare. Ma non si cambiava linea. L'emigrazione era una componente strutturale dell'economia italiana e in quanto tale doveva continuare ed essere incoraggiata. Il che non significava, pur dopo la catastrofe di Marcinelle, che fu meglio assistita, che i contratti bilaterali furono effettivamente rispettati, che i sindacati dei paesi d'immigrazione seppero elevarsi al di sopra della difesa degli interessi ristretti della classe operaia dei paesi indigeni.


Tratto da: Pasquino CRUPI - La tonnellata umana, l'emigrazione calabrese 1870-1980 - Nuove Edizioni Barbaro, Bologna 1994


 


[...] L'Italia può esportare dei lavoratori, ma non degli schiavi. Se il contegno dei datori di lavoro stranieri e l'atteggiamento egoistico degli stessi sindacati operai di quei Paesi costringono i nostri uomini a lavorare in condizioni di estremo e continuo pericolo, è doveroso intervenire in loro difesa anche sul piano politico e diplomatico, perchè gli eccellenti rapporti che intercorrono tra l'Italia e il Belgio non finiscano col soffrirne. Sappiamo che la C.E.C.A. è intervenuta nella questione per trovare una formula, che possa conciliare gli interessi delle società belghe con i sacrosanti diritti alla vita dei minatori italiani e con le giuste esigenze delle nostre autorità tutorie.


Editoriale, Corriere della Sera, 9 agosto 1956


[...] Sono tutti morti. Queste tre parole campeggiano sulla prima pagina dei giornali di Charleroi usciti di buona mattina in edizione straordinaria, listati a lutto. Sono tutti morti. Le tre parole che la gente ripete costernata per le strade suonavano come tre funebri rintocchi sull'ultimo atto della tragedia di Marcinelle, all'alba del diciassettesimo giorno del suo inizio.


Massimo CAPUTO, L'ultima giornata d'attesa fu la più straziante, Corriere della Sera, 24 agosto 1956


Fonte: www.emigrati.it


 


 


 

mercoledì 3 maggio 2006

Campione senza valore


Oggetto : Riduzione della prestazione lavorativa con richiesta di intervento della CIGS


La presente per comunicarLe che, in applicazione dell’accordo stipulato con le OO.SS. dei lavoratori in data 26 settembre 2005 presso il Ministero del Lavoro e per le ragioni esposte nell’accordo stesso, a decorrere dal 08/05/06 Lei sarà posto ad orario ridotto di n. 20 ore settimanali, secondo la seguente articolazione:
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 8,30 alle ore 12,30
A Suo favore verrà richiesto l’intervento della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, il cui trattamento Le verrà integralmente anticipato dall’azienda alle normali scadenze mensili, in applicazione del suddetto accordo.
Lei potrà inoltre essere chiamato, durante il periodo di permanenza in CIGS, a frequentare corsi di formazione e/o riqualificazione professionale che si svolgeranno normalmente al di fuori dell’azienda, nelle sedi e con le modalità che Le verranno di volta in volta comunicate.


Distinti saluti



La Direzione


 


 

Guerrafondai ad oltranza


Si trovava sulla prima pagina de “
La Stampa
”, taglio basso, con rinvio a pagina 11,  questo articolo che ha catturato la mia attenzione. Aggiungo un interessante commento apparso su
Indymedia e concludo con Schiller: “Contro la stupidità anche gli dei sono impotenti".



Una nave da guerra con l’acciaio delle Torri
La «New York» sara’ varata nel 2007: sulla fiancata le parole «never forget», non dimenticare

mai
Ventiquattro

tonnellate d’acciaio delle Torri Gemelle - abbattute nel 2001 dai kamikaze islamici - sono state fuse nello scafo di una nave da guerra della marina americana che sarà varata a metà del prossimo anno.
La nave si chiamerà «New York», e secondo i vertici militari avrà il compito di «spingere l’influenza e il potere americano fin negli angoli più remoti del pianeta». Il costo dell’operazione è di circa 700 milioni di dollari. Sulla fiancata della «New York» due parole: «Never forget», non dimenticare mai.
Il giorno dell’inizio dei lavori in cantiere, a fianco della bandiera americana, l’ex sindaco Giuliani ha commentato: «Siamo fieri che un pezzo della nostra città possa viaggiare per il mondo portando democrazia e libertà».



La Stampa
- 30 aprile 2006 
*La foto non riproduce la “New York”


Il mondo contemporaneo riesce a volte a parlare in una specie di Morse chiarissimo, talmente trasparente che si confonde con l’aria attraverso cui passa l’informazione. Eccola dunque, rotonda, stilizzata, passata del tutto inosservata, un’altra news da pensiero - una piccola sequenza di eventi che apre un cono e vi rovescia dentro i tratti fondamentali di una civiltà, le linee che marcano la distanza tra quella civiltà e altre, i punti che sembrano unire piani psicologici, geopolitici, simbolici.
Ventiquattro tonnellate dell’acciaio delle Torri Gemelle sono state fuse nello scafo di una nave da guerra. Sulla nave da guerra, bandiera americana. Il giorno del varo, previsto a metà 2007. Il giorno dell’inaugurazione, davanti al magma ribollente, a fianco della bandiera americana, a nave appena iniziata, frasi come questa, pronunciata dall’ex sindaco Rudolph Giuliani: «Siamo fieri che un pezzo della nostra città possa viaggiare per il mondo portando democrazia e libertà».
Il cantiere della «New York», la quinta di una serie di imbarcazioni anfibie all’avanguardia, è stato inaugurato ad Avondale, in Louisiana, nel 2003, sotto gli occhi entusiasti della moglie di Gordon England, che ai tempi dell’11 settembre era «Secretary of the Navy», il responsabile civile di tutte le attività organizzative della marina militare statunitense.


In alcuni dispacci d’agenzia si fa notare che la sede dei cantieri navali della Northrop Grunnam, la società che sta costruendo la «New York» per conto del governo americano, è sita a pochi chilometri dall’area urbana di New Orleans, e perciò si può ben affermare che l’acciaio della New York ha già superato due grandi prove - prima sopravvivere al collasso di fuoco delle Twin Towers, poi a quello d’acqua dell’uragano Katrina, dal quale lo scafo in costruzione è uscito praticamente illeso. I profili smaglianti che svettavano sul distretto finanziario di Manhattan hanno cambiato stato negli impianti di fusione di Amite, in Louisiana. Junior Chavers, il capomastro della fonderia di Amite, ricordando l’arrivo del materiale alla fonderia ha dichiarato ai cronisti della CBS che «quando ho realizzato che era proprio quello del World Trade Center confesso di aver sentito un brivido lungo la schiena». La «New York», secondo i vertici militari, avrà «il compito di spingere l’influenza e il potere americano fin negli angoli più remoti del pianeta». Il costo totale dell’operazione ammonta a circa 700 milioni di dollari. Sulla fiancata della «New York», una frase, due parole: «never forget», non dimenticare mai.


La rivista internazionale di architettura Domus ha dedicato, nel numero in uscita ai primi di maggio, uno spazio rilevante all’analisi di questa piccola vicenda straordinaria. Discutendone con i suoi animatori e redattori, mi è capitato di annotare alcune frasi sconnesse, appunti che forse vale la pena di lasciare così, senza articolarli troppo. Uno aveva a che fare con Moby Dick, con quei capitoli del capolavoro di Melville in cui la portata epica si rifrange in strati di dettagli sulla costruzione della baleniera. Un altro era una reminiscenza biblica confusa e fondante, che poi è il Salmo 18, «O Dio che arridi alle mie vendette / Che fai sputare ai popoli la resa».


E ancora, con un balzo spericolato, una delle canzoni più toccanti degli ultimi decenni, «Shipbuilding», in cui Elvis Costello, all’indomani della decisione thatcheriana di dare inizio al conflitto delle Falkland, racconta dal punto di vista dei lavoratori delle zone depresse dell’Inghilterra il processo di costruzione delle fregate britanniche, invocando il desiderio di tuffarsi a raccogliere perle invece che a recuperare il corpo di qualcuno.


E infine un insolente attacco di frizione utopica, che al solo pensarla riascolti il suono delle domande fatte a sette anni, e prevedi il coraggio un po’ stupido delle risposte che arrivano a ottantacinque. Ma se sulle fiancate delle navi da guerra si cominciasse a scrivere, una volta per tutte, per accordo internazionale, «l’attacco è la peggior difesa»?


*Foto: http://www.capital.it/html/foto/galleria/kabulattacco20.jpg