mercoledì 30 luglio 2008

Garage Bolzaneto - 2


Ho l’impressione che della sentenza choc sulla macelleria genovese del 21 luglio 2001, anno 1 del secondo governo fascista in salsa P2, orchestrato dall'ometto con la tessera n° 1816, non sia rimasto poi molto nella pubblica opinione. “Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire”. I notiziari televisivi assomigliano molto al Conte zio di manzoniana memoria. E così l’impressione diventa ogni giorno di più certezza che si vada radicando quel regime (“morbido”, per carità, altrimenti c’è da passare per eversivi), sempre più evocato e giustamente temuto. Peraltro il ventre molle della maggioranza silenziosa di questo Paese è pronto ad accoglierlo. In diretta e in prima serata, of course.

Adriano Sofri ha scritto questo intenso pezzo per “EMME”, il settimanale del lunedì allegato a l’Unità. Mi pare opportuno postarlo per proseguire il discorso su Garage Bolzaneto. La prima delle tante porcate con i fascisti in cabina di regia. Qui una domanda sorge spontanea: non sarà che ci siamo dimenticati di quel comune sentire che era (e per me è) l’antifascismo?



“Non c’è belva tanto feroce

che non abbia qualche senso di pietà!

Ma io non ne ho alcuno,

                                                                       sicché non sono una belva.”

                                                               dal Riccardo III di William Shakespeare



Sotto la pelle


di Adriano Sofri


Lo Stato di diritto è quello in cui gli abusi dell’autorità pubblica sono considerati con una speciale severità. E lo Stato dispotico è quello in cui gli abusi dell’autorità pubblica sono trattati con una speciale indulgenza.

Bolzaneto succede prima di Guantanamo, prima di Abu Ghraib, prima dell'11 settembre e che l'avvocato Dershowitz avanzi le sue malaugurate cavillose distinzioni. Basterebbe la sequenza fra la caserma Raniero di Napoli (manifestazione no global del 17 marzo 2001, governo di centrosinistra) e la caserma di Bolzaneto (20-22 luglio 2001) a impedire di far passare Genova per una malaugurata eccezione. Condizione primaria
è l'extraterritorialità dei luoghi in cui si compie. Le caserme adibite all'identificazione e allo smistamento dei fermati escludono, come non dovrebbe mai essere possibile, l'ingresso di avvocati, giornalisti, parlamentari e, di fatto, degli stessi magistrati, e in genere di qualunque testimone. I fermati sono in totale balia dei loro custodi, come in un qualunque garage Olimpo. E i custodi si divertono a dirglielo: Siete qui, nelle nostre mani, nessuno lo sa, nessuno vi vede, possiamo fare di voi quello che vogliamo. Denudata inermità da un lato, onnipotenza dall'altro. L'onnipotenza può infatti accontentarsi di spogliare, tagliare capelli, sferrare manganellate sui genitali, slabbrare ferite suturate, ordinare flessioni e piegamenti. L'onnipotenza comincia molto vicino all'impotenza e alla frustrazione ordinaria. Quanto al suo traguardo possibile, è solo questione di occasioni.

L'Italia, pur impegnata dall'adesione antica a una Convenzione internazionale, non ha mai tradotto in un titolo di reato del proprio codice penale la tortura. Nella legislatura appena liquidata, l'apposita legge, votata alla Camera, si ferm
ò al Senato per morirvi di consunzione, oltre che di provocazione. Al suo cammino fu imposta la condizione della ripetizione: si è torturatori solo se recidivi. ("Padre, ho torturato". "Quante volte, figlio mio?"). La requisitoria dei Pubblici Ministeri al processo per Bolzaneto s'impegnava appassionatamente nell'auspicio che alla falla del codice venisse messo presto riparo, né dimenticava di avvertire che siamo ancora, dopotutto, la patria di Verri e di Beccaria. Essi hanno sperimentato come la mancanza di quella fattispecie di reato bruciasse nelle loro mani l'intenzione di giustizia, e hanno chiesto che quella esperienza valesse almeno a colmarla. In realtà, la vicenda genovese, e di Bolzaneto in particolare, nella sua enormità, è una delle spiegazioni per il mancato riconoscimento del delitto di tortura. Siamo infatti il paese di Verri e Beccaria, ma anche dell'Azzeccagarbugli.

La tortura ha un suo fondo intimo che ha a che fare con la sessualit
à, con la sopraffazione sessuale. Non importa che l'azione stessa della tortura e il luogo in cui si compie coinvolgano direttamente attori vittime o spettatori di sesso diverso: è ovvio del resto che il tormento inflitto a un corpo non ha bisogno di essere eterosessuale. Si vuole espropriare l'altro del corpo, e spadroneggiare su esso fino alla sua struttura più profonda, che è la personalità sessuale. La tortura predilige la mortificazione fino all'annichilimento del corpo sottomesso nelle due forme, strettamente legate, del tormento sessuale e del tormento delle funzioni corporali escretorie - urinare, defecare. Si tratta, in proporzione, dello stesso odioso materiale degli scherzi e delle persecuzioni nonniste di caserma e di goliardia. Materiale eminentemente maschile, anche quando (come ad Abu Ghraib, come a Guantanamo, come a Bolzaneto) non manchino donne a prendervi variamente parte.

A Bolzaneto
tutto ciò si è mostrato con un'evidenza insieme rozzissima e nitida, superiore a quella di qualunque manuale e qualunque esperimento psicologico. Tra i fermati e gli arrestati, il numero complessivo sicuramente accertato - dunque inferiore a quello effettivo - delle persone private della libertà transitate nella struttura di Bolzaneto ammonta a 252 persone. Le persone sono state trattenute a Bolzaneto per periodi che vanno da poche ore fino a 31 ore e mezza.

Dal testo dei P.M. “I detenuti
al loro arrivo subivano una serie di condotte vessatorie ed umilianti: percosse, minacce, sputi, risate di scherno, urla canzonatorie insulti anche a sfondo politico e, in casi più limitati e soprattutto per le donne, anche a sfondo sessuale./.../ Per le persone arrestate in esito alla perquisizione presso la scuola Diaz nella notte tra il sabato e la domenica si aggiungeva una sorta di "etichettatura" costituita da un segno che veniva apposto con un pennarello sul volto o sulla mano, come una sorta di "marchio" per le bestie.

Tutti questi comportamenti
costituivano una sorta di "comitato di accoglienza", un comitato interforze composto il più delle volte da appartenenti a diversi reparti delle Forze di Polizia. /.../. Chiunque si spostasse dalla posizione obbligata veniva percosso dagli agenti in modi diversi, con schiaffi pugni o calci, con guanti o con manganelli, talvolta anche sui genitali; molte volte colpi alla nuca dei fermati, per far così sbattere loro la testa contro il muro./.../ Sono stati testimoniati continui insulti e frequenti minacce: frasi volgari, minacce e offese a sfondo sessuale soprattutto per le donne./.../. Alcuni hanno testimoniato di essere stati costretti a fare il saluto fascista, altri addirittura a fare il "passo dell'oca", altri ancora a gridare "Viva il duce", "Viva Mussolini", "Heil Hitler". Molti hanno ricordato riferimenti ad Auschwitz, ai lager e all'antisemitismo. Frequenti erano le battute offensive rivolte ai detenuti mentre erano nudi per la perquisizione e quindi in situazione di evidente disagio.

Molte donne dovevano spogliarsi e rimanere nude anche in presenza di agenti uomini; e alcune fra queste hanno testimoniato di essere state anche costrette a questa situazione per un tempo lungo... Anche l'infermeria, che avrebbe dovuto essere un luogo di assistenza e di aiuto per le persone detenute, una sorta di "zona franca" da maltrattamenti, diventò un'altra tappa del percorso di umiliazione. Allo stesso modo persino una delle più elementari esigenze dell'uomo, quale l'espletamento dei bisogni fisiologici, divenne pretesto e occasione per nuove ed ulteriori vessazioni. La riservatezza che dovrebbe naturalmente accompagnare questi atti era regolarmente violata. I detenuti, dopo essere stati accompagnati in bagno con le modalità descritte, erano costretti ad espletare i loro bisogni con la porta aperta, spesso percossi anche nelle parti intime ed esposti a commenti umilianti degli agenti. Per le detenute poi costituì ulteriore umiliazione la mancata disponibilità di assorbenti igienici per il ciclo mestruale; molte donne hanno testimoniato di essere state costrette ad usare brandelli di vestiti o di indumenti e fogli di giornale, e altre ancora hanno dichiarato di essere state ulteriormente derise al momento della richiesta. In alcuni casi persone hanno subito l'umiliazione di doversi urinare addosso, e di rimanere, poi, sporchi e con gli indumenti evidentemente bagnati. Se anche non sono stati segnalati casi di violenza sessuale, tuttavia molti sono stati coloro che hanno ricordato di avere subìto minacce di violenza sessuale, talvolta effettuate anche con modalità ingiuriose e con riferimento ad oggetti evidentemente allusivi (manganelli, bastoni ecc). Più frequenti tali minacce erano ai danni delle donne, spesso erano effettuate, per uomini e donne, nei momenti di maggiore disagio personale quali ad esempio durante la perquisizione in infermeria nudi".

Nel web troverete
37.400.000 voci per "la tortura". In maggioranza sono dedicate alla canzone di Shakira, "La Tortura" (e alla suoneria telefonica derivante): Que te fueras sin decir a dónde Ay amor fue una tortura... Perderte.


EMME #43, periodico di filosofia da ridere e politica da piangere. Allegato a l’Unità del 21 luglio 2008



Immagine tratta dal sito:http://vukicblog.blogspot.com/


 


lunedì 28 luglio 2008

Garage Bolzaneto

Foto tratta dal sito: www.theguardian.uk

GENOVA - Non fu tortura, quella di Bolzaneto. Nessuna crudeltà, sevizia, abiezione. Ieri sera il tribunale di Genova ha cancellato tre giorni e tre notti di soprusi e violenze ai danni di 209 manifestanti fermati durante il G8 del luglio 2001. Dopo undici ore di camera di consiglio è arrivata una sentenza sorprendentemente mite: solo 15 dei 45 imputati sono stati condannati a pene che complessivamente non raggiungono i 24 anni. I giudici hanno riconosciuto un generico abuso di autorità sui detenuti ed alcuni singoli episodi di violenza. (…) la Repubblica (15 luglio 2008)

Quella che segue è la traduzione del reportage di Nick Davies pubblicato sul “The Guardian”. La foto è ripresa dal sito dello stesso giornale. Alla fine della lettura qualcosa in voi sarà cambiato.


July 17, 2008

Era poco prima di mezzanotte quando il primo agente di polizia colpì Mark Covell con una manganellata sul braccio sinistro. Covell fece del suo meglio per gridare, in italiano, di essere un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato da agenti in tenuta antisommossa che lo colpivano con i manganelli. Per qualche secondo, è riuscito a rimanere in piedi, fino a quando un colpo sul ginocchio non lo ha gettato sul pavimento. A faccia in giù nell’oscurità, escoriato e spaventato, si rendeva conto di avere agenti tutt’intorno, che si stavano ammassando per attaccare gli edifici delle scuole Diaz e Pertini, dove 93 manifestanti si erano accampati per passare la notte. La speranza di Covell era che gli agenti passassero attraverso la catena che chiudeva il cancello principale senza più occuparsi di lui. Se fosse andata così, avrebbe potuto alzarsi e correre oltre la strada, per cercare riparo nel centro di Indymedia, dove aveva passato gli ultimi tre giorni a scrivere sul summit del G8 e sulla violenta gestione dell’ordine pubblico.

In quel momento, un funzionario di polizia si è lanciato su di lui e gli ha dato un calcio al petto talmente forte da comprimere verso l’interno l’intera parte sinistra della sua gabbia toracica e rompendogli una mezza dozzina di costole, i cui detriti hanno perforato la pleura. Covell, un metro e sessanta, è stato letteralmente sollevato dal pavimento e sbalzato in strada dal calcio. Ha sentito il poliziotto ridere mentre un pensiero si formava nella sua testa: «Non me la caverò». La squadra antisommossa stava ancora trafficando al cancello principale, e allora un gruppo di agenti pensò di ingannare il tempo usando Covell come pallone. Questa serie di calci gli ha procurato la frattura di una mano e lesioni alla spina dorsale. Da qualche parte alle sue spalle, Covell ricorda di aver sentito un altro agente gridare «Basta» prima di sentire il suo corpo trascinato sul pavimento. A quel punto, un veicolo corazzato della polizia ruppe i cancelli della scuola e 150 agenti, per la maggior parte con caschi, scudi e manganelli, fece irruzione nell’edificio indifeso. Due agenti si fermarono per occuparsi di Covell: uno gli ha rotto la testa con il manganello; l’altro lo ha preso a calci in bocca, facendogli sputare una dozzina di denti. Covell svenne.

Ci sono molte buone ragioni per non dimenticare quello che è successo a Covell, che allora aveva 33 anni, quella notte a Genova. La prima è che era solo l’inizio. Per la mezzanotte del 21 luglio 2001, quegli agenti di polizia stavano sciamando in tutti i piani della Diaz, e dispensavano il loro particolare tipo di punizione alle persone che stavan lì, fino a ridurre il dormitorio improvvisato in quella che più tardi uno degli agenti avrebbe descritto come «una macelleria messicana». Loro e i loro colleghi avrebbero poi arrestato illegalmente le vittime in un centro di detenzione, diventato un luogo di puro terrore.

La seconda ragione è che, sette anni dopo, Covell e le altre vittime stanno ancora aspettando giustizia. Lunedì, 15 poliziotti, guardie carcerarie e medici penitenziari sono stati finalmente condannati per la parte avuta nelle violenze, sebbene nessuno di loro andrà in prigione. In Italia, gli imputati non vanno in prigione fino a quando non hanno esaurito tutti i gradi di giudizio; e in questo caso, le condanne e le sentenze saranno cancellate dalla prescrizione, l’anno prossimo. Nel frattempo, i politici che erano responsabili per la polizia e per il personale penitenziario, non hanno mai dato alcuna spiegazione.

Le domande fondamentali, su come tutto ciò sia potuto accadere, rimangono inevase e alludono alla terza e più importante ragione per ricordare Genova. Non è semplicemente la storia di un funzionario di polizia che esce dai ranghi, ma qualcosa di peggiore e più preoccupante sotto la superficie. Il fatto che questa storia possa essere raccontata è frutto di sette anni di duro lavoro di un gruppo di coraggiosi pubblici ministeri, guidati da Emilio Zucca. Aiutato da Covell e dal proprio staff, Zucca ha raccolto centinaia di testimonianze e analizzato cinquemila ore di video, oltre che migliaia di fotografie. Messi assieme, raccontano una storia incontrovertibile, che iniziò a svilupparsi mentre Covell sanguinava a terra.

La polizia fa irruzione nella scuola Diaz. Alcuni di loro gridavano «Black bloc! Vi uccideremo!», ma se avessero davvero pensato di avere di fronte gli anarchici del Blocco nero che avevano causato un violento caos in alcune zone della città nei giorni precedenti, avrebbero commesso un errore. La scuola era stata concessa dalla municipalità di Genova come base per i manifestanti che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano anche messo qualcuno di guardia per evitare infiltrazioni. Uno dei primi a vedere la squadra antisommossa fu Michael Geiser, un 35enne economista belga, che poi ha descritto come in quel momento si era appena messo il pigiama e stava facendo la coda per il bagno, con tanto di spazzolino in mano, quando il raid ebbe inizio. Geiser crede nella forza del dialogo e all’inizio andò verso gli agenti dicendo «Dobbiamo parlare». Poi vide i giubbotti imbottiti, i caschi, i manganelli e cambiò idea scappando per le scale. Altri sono stati più lenti. Erano ancora nei sacchi a pelo. Un gruppo di dieci spagnoli si svegliò con i colpi dei manganelli. Alzarono le mani in segno di resa. E sempre più agenti li picchiavano in testa, tagliando e ferendo e rompendo arti, compreso il braccio di una signora di 65 anni. Da un lato della stanza, alcuni giovani sedevano davanti ai computer e mandavano e-mail a casa. Una di loro era Melanie Jonasch, 28 anni, studentessa di archeologia a Berlino, volontaria nella gestione dell’edificio, che non era nemmeno stata alle manifestazioni. Lei ancora non riesce a ricordare cosa è successo. Ma molti altri testimoni hanno raccontato come gli agenti le si sono lanciati addosso, picchiandola in testa così forte da farle perdere subito i sensi. Quando cadde, gli agenti la circondarono, picchiandola ancora e prendendola a calci, sbattendole la testa contro una lavagna e lasciandola in una pozza di sangue.

Katherina Ottoway, che ha visto tutto questo, ricorda: «Tremava tutta. I suoi occhi erano aperti ma girati. Pensavo che sarebbe morta». Nessuno di quelli che erano a terra è riuscito a evitare ferite. Come Zucca ha scritto nel suo atto d’accusa: «Nel giro di pochi minuti, tutti gli occupanti del piano terra erano stati ridotti in uno stato di completa impotenza, i lamenti dei feriti si mischiavano con il suono delle richieste di ambulanze». Poi i tutori della legge sono saliti lungo le scale. Nel corridoio del primo piano trovarono un gruppo di persone, compreso Geiser, ancora con lo spazzolino in mano. «Qualcuno consigliò di sdraiarci, per far vedere che non facevamo resistenza. E così ho fatto. Gli agenti sono arrivati e hanno iniziato a picchiarci, uno per uno. Mi sono protetto la testa con le mani e ho pensato ‘Devo sopravvivere’. La gente attorno gridava, ‘per favore, basta’. Anche io l’ho detto. Pensavo a una macelleria, ci stavano trattando come animali».

Gli agenti abbatterono le porte delle stanze che portavano fuori dal corridoio. In una stanza trovarono Dan MacQuillan e Norman Blair, arrivati da Stansted per mostrare il loro appoggio «a una società libera e uguale dove le persone vivono in armonia». I due inglesi e il loro amico neozelandese Sam Buchanan avevano sentito l’attacco ai piani inferiori e stavano cercando di nascondersi sotto alcuni tavoli nell’angolo di una stanza buia. Una decina di agenti fece irruzione e li scovò con una torcia e, per quanto MacQuillan stesse con le mani alzate dicendo ‘Piano, piano’, li picchiarono, causandogli molte ferite e tagli e rompendo il polso di MacQuillan. Norman Blair ricorda: «Potevo sentire il veleno e il loro odio». Geiser era nel corridoio: «La scena attorno a me era coperta di sangue, dappertutto. Un poliziotto gridò ‘Basta’. Una parola che sembrava una speranza. Eppure non si fermavano. Continuavano con piacere. Alla fine si sono fermati, ma come se si togliesse un giocattolo a un bambino, riluttanti». In quel momento c’erano agenti in tutti i quattro piani dell’edificio, che prendevano a calci e picchiavano.

Molte vittime hanno descritto una specie di sistema della violenza, con ogni agente che picchiava ogni persona che si trovasse davanti, prima di passare alla successiva, mentre un collega picchiava quella di prima. Sembrava importante che chiunque fosse ferito. Nicola Doherty, 26 anni, un’assistente di Londra, ha descritto come il suo partner Richard Moth si sia sdraiato per proteggerla: «Potevo sentire ogni colpo sul suo corpo. I poliziotti si spostavano oltre Richard per colpire ogni mia parte esposta». Ha cercato di proteggersi la testa con le mani e le hanno rotto un polso. In uno dei corridoi, gli agenti avevano ordinato a un gruppo di giovani uomini e donne di inginocchiarsi per poterli picchiare meglio sulle spalle e sulla testa. È stato in quel momento che Daniel Albercht, 21 anni, studente di violoncello di Berlino, ha riportato una frattura alla testa talmente profonda da avere bisogno di un’operazione chirurgica per fermare l’emorragia celebrale.

Attorno all’edificio, gli agenti avevano impugnato i manganelli al contrario, per usare l’impugnatura a L come un martello. E in tutta questa violenza, ci sono stati momenti in cui la polizia ha preferito l’umiliazione: l’agente che stava a gambe divaricate di fronte a una donna ferita e inginocchiata, le ha preso la testa per tirarsela verso l’inguine, prima di girarsi e fare la stessa cosa con Daniel Albercht, inginocchiato accanto a lei; l’agente che durante i pestaggi ha usato il coltello per tagliare una ciocca di capelli alle sue vittime, compreso Nicola Doherty; gli insulti continui; l’agente che ha chiesto a un gruppo di persone se stavano bene e ha reagito con una nuova manganellata a chi ha detto ‘No’. Qualcuno è sfuggito, almeno per un po’.

Karl Boro è riuscito a raggiungere il tetto ma poi ha fatto l’errore di rientrare nell’edificio, dove lo hanno ridotto con un braccio ferito, una frattura cranica e sangue nel petto. Jaraslaw Engel, dalla Polonia, era riuscito a usare le impalcature attorno all’edificio per uscire dalla scuola, ma è stato intercettato in strada da alcuni agenti, che gli hanno rotto la testa, prima di mettersi a fumare mentre il suo sangue bagnava l’asfalto.

Due degli ultimi a essere presi sono stati una coppia di studenti tedeschi, Lena Zuhlke, di 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen. Si erano nascosti in un armadietto delle pulizie, al piano superiore. Hanno sentito gli agenti avvicinarsi, sbattendo i manganelli lungo i muri. La porta dell’armadietto si aprì, Martensen è stato trascinato fuori e picchiato da una decina di agenti in semicerchio attorno a lui. Zuhlke è scappata nel corridoio e si è nascosta nei bagni. Gli agenti l’hanno vista, inseguita e trascinata per i dreadlocks. Nel corridoio, hanno giocato con lei come cani con un coniglio. E’ stata picchiata in testa e presa a calci quando era a terra, fino a che non le hanno rotto le costole. E’ stata bloccata al muro, dove un agente le ha dato una ginocchiata all’inguine, mentre gli altri continuavano a pestarla con i manganelli. Quando è scivolata a terra, hanno continuato a picchiarla: «Sembrava che si divertissero e quando gridavo sembrava che si divertissero di più».

Gli agenti trovarono un estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite di Martensen. La sua compagna è stata trascinata per le scale, dai capelli, testa in avanti. Hanno portato Zuhlke fino al piano terra, dove avevano radunato tutti i prigionieri dagli altri piani, in un caos di sangue ed escrementi. L’hanno gettata su altre due persone, immobili, tanto che Zuhlke chiese cautamente se erano ancora vivi. Senza risposta, anche lei si accasciò sul pavimento, incapace di muovere il braccio destro, e di fermare il tremore al braccio sinistro e alle gambe, nonché il sangue. Un gruppo di agenti passava lì vicino, e ciascuno si tolse il fazzoletto per sputarle addosso.

Perché dei tutori della legge possono comportarsi con tanto disprezzo della legge? La semplice risposta può essere quella che veniva gridata dai manifestanti fuori dalla scuola, che scelsero una parola che sapevano i poliziotti avrebbero capito. «Bastardi». Ma c’è qualcos’altro, qui, qualcosa emerso più chiaramente nei giorni successivi. Covell e decine di altre vittime furono portate nell’ospedale San Martino, dove gli agenti camminavano nei corridoi facendo suonare i manganelli nel palmo delle mani, ordinando ai feriti di non guardare fuori dalla finestra o di non muoversi, tenendoli ammanettati e poi, spesso con le ferite ancora non chiuse, portandoli con decine di altri manifestanti nel centro di detenzione di Bolzaneto. I segni di qualcosa di peggiore apparvero all’inizio in modo superficiale. Alcuni agenti avevano canzoni fasciste come suonerie dei loro telefonini e parlavano con entusiasmo di Mussolini e Pinochet. Più volte, è stato ordinato ai prigionieri di gridare «Viva il duce». Alcune volte, i prigionieri sono stati minacciati per costringerli a cantare canzoni fasciste.

Le 222 persone detenute a Bolzaneto sono state sottoposte a condizioni che i pubblici ministeri hanno descritto come tortura. Al loro arrivo, venivano marchiati con una croce di vernice su ogni guancia e molti di loro sono stati costretti a camminare in mezzo a due linee parallele di funzionari che li prendevano a calci e a manganellate. La maggior parte è stata ammassata in celle grandi, con oltre 30 persone. Lì venivano costretti a rimanere in piedi per molto tempo, con la faccia verso il muro, le braccia alzate e le gambe larghe. Chi non ce la faceva, veniva insultato, picchiato umiliato.

Mohammed Tabach, con una gamba artificiale, non poteva farcela e si è beccato due spruzzate di spray urticante in faccia e poi un pestaggio particolarmente brutale. Norman Blair avrebbe poi ricordato che mentre stava in questa posizione, un agente gli chiese: «Chi è il tuo governo»? «La persona prima di me aveva risposto Polizei e io ho fatto la stessa cosa per non essere picchiato». Stefan Bauer ha osato replicare: quando un agente che parlava tedesco gli ha chiesto di dove fosse, lui ha risposto che era dell’Unione europea e aveva il diritto di andare dove voleva. E’ stato preso, picchiato, spruzzato con lo spray urticante, spogliato nudo e gettato sotto una doccia gelata. I suoi vestiti sono stati gettati via ed è stato rimandato nella cella gelata solo con addosso una tuta da ospedale. Tremando sul freddo marmo della cella, i prigionieri non ricevevano né coperte, né cibo e gli veniva negato il diritto di fare una telefonata a un legale, cui avrebbero avuto diritto. Dalle altre celle si sentivano urla e pianti. Agli uomini e alle donne con i dreadlocks sono stati tagliati grossolanamente i capelli fino alla cute.

Marco Bistacchia è stato portato davanti a un agente, spogliato, fatto inginocchiare, abbaiare come un cane e gridare «Viva la polizia italiana». Un agente ha detto al quotidiano italiano “la Repubblica”, in condizioni di anonimato, di aver visto alcuni agenti urinare addosso ai detenuti e picchiarli per essersi rifiutati di cantare Faccetta nera, una canzone dell’era fascista. Ester Percivati, una giovane donna turca, ricorda le guardie che la insultavano mentre andava in bagno, dove un’agente donna l’ha costretta a infilare la testa nella tazza, mentre un maschio commentava: «Bel culo! Ci vuoi un manganello?». Molte donne hanno riferito di minacce di stupro. Perfino l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, coperto di tagli ed escoriazioni, ha avuto suture sulla testa e sulle gambe senza anestesia: «Un’esperienza molto dolorosa. Dovevano tenermi fermo».

Tra i condannati di lunedì c’è anche personale medico della prigione. Tutti sono d’accordo che non si trattava di un modo per far parlare i detenuti, ma solo di un esercizio di paura. Che ha funzionato. Nelle dichiarazioni, i prigionieri hanno descritto le loro sensazioni di impotenza, di isolamento dal resto del mondo, in un mondo senza leggi né regole. La polizia ha perfino fatto firmare delle dichiarazioni di rinuncia a tutte le tutele legali. Un uomo, David Laroquelle, ha testimoniato di essersi rifiutato di firmare, e di aver avuto tre costole rotte. Anche Percivati si è rifiutata, ed è stata sbattuta contro un moro, occhiali rotti e naso sanguinante.

Il mondo esterno ha ricevuto alcuni resoconti molto distorti di tutto questo. Nell’ospedale di San Martino, il giorno dopo il suo pestaggio, Covell si sentì scuotere da una persona che gli sembrò essere dell’ambasciata britannica. Solo quando ha visto il fotografo accanto a lei ha capito che era una reporter del Daily Mail. In prima pagina, il giorno dopo, c’era un resoconto del tutto falso che lo descriveva come il cervello delle rivolte. [Quattro lunghi anni più tardi, il Mail ha chiesto scusa e ha pagato a Covell il risarcimento per l’invasione della privacy].

Mentre i suoi cittadini venivano picchiati e tormentati in uno stato di detenzione illegale, il portavoce del primo ministro Tony Blair, dichiarava: «La polizia italiana ha dovuto svolgere un compito difficile. Il primo ministro crede che lo abbiano fatto». La polizia italiana ha fornito ai media una ricca messe di falsità. Perfino mentre i corpi sanguinanti venivano portati via dalla Diaz, gli agenti dicevano ai giornalisti che le ambulanze che erano sul posto non avevano nulla a che vedere con il blitz e che le ferite, chiaramente freschissime, erano vecchie e che l’edificio era pieno di violenti estremisti che avevano attaccato gli agenti.

Il giorno dopo, alti funzionari hanno tenuto una conferenza stampa per annunciare che tutte le persone trovate nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza e di associazione a delinquere finalizzata al saccheggio. I tribunali italiani hanno fatto cadere ogni capo d’accusa contro ogni persona. Compreso Covell. I tentativi della polizia di accusarlo di una serie di reati molto gravi sono stati descritti dal pm Zucca come «grotteschi». In quella stessa conferenza stampa, la polizia mostrò un bagaglio di quelle che secondo loro erano armi. C’erano sbarre, martelli, chiodi che gli agenti stessi avevano preso da un magazzino di edilizia vicino alla scuola. C’erano strutture di zaini in alluminio, presentate come armi offensive; 17 macchine fotografiche; 13 paia di occhialetti da piscina; 10 coltellini e una bottiglia di lozione solare. Mostrarono anche due bottiglie molotov che, ha concluso Zucca, la polizia aveva trovato prima in un’altra zona della città e portato alla Diaz dopo la fine del raid. Questa disonestà pubblica era parte di un più ampio sforzo per insabbiare quello che era successo.

Nella notte del raid, un reparto di 59 poliziotti è entrato nell’edificio di fronte alla Diaz, dove Covell e altri avevano allestito il loro centro media e dove, elemento cruciale, era sistemato un gruppo di avvocati che avevano raccolto le prove della violenza della polizia nelle manifestazioni dei giorni precedenti. Gli agenti sono entrati nella stanza degli avvocati, minacciato gli occupanti, distrutto i computer, sequestrato gli hard-disk e portato via qualsiasi cosa contenesse foto o filmati. Mentre i tribunali rifiutavano di convalidare le accuse contro gli arrestati, la polizia riuscì ad ottenere un ordine di espulsione per tutti gli stranieri, con il divieto di ritorno in Italia per cinque anni. Così, i testimoni venivano tolti di scena.

Come per le accuse, gli ordini di espulsione sono stati poi cancellati, in quanto illegali, dal tribunale. Zucca si è aperto la strada attraverso anni di dinieghi e insabbiamenti. Nel suo resoconto, ha scritto che tutti i funzionari di alto rango hanno negato di aver avuto un ruolo: «Non un solo funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo di comando in qualche aspetto dell’operazione». Un funzionario che era stato ripreso in un video sul posto, ha poi spiegato che era fuori servizio e che era lì sono per assicurarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia sono state mutevoli e contraddittorie e contraddette dalla valanga di prove delle vittime e di molti video: «Non un solo agente dei 150 presenti ha riferito informazioni precise su un episodio individuale».

Senza Zucca, senza l’atteggiamento fermo dei tribunali italiani, senza il lavoro di Covell nell’assemblare i video girati durante il raid alla Diaz, la polizia avrebbe potuto schivare la responsabilità e avrebbe potuto assicurarsi false accuse e perfino sentenze di condanna contro le vittime. Oltre al processo per Bolzaneto, concluso lunedì, 28 altri agenti, alcuni molto in alto nei ranghi, sono sotto processo per il raid alla Diaz. E di nuovo la giustizia è stata compromessa. Nessun politico italiano è stato chiamato a rispondere, nonostante il forte sospetto che la polizia abbia agito come se qualcuno avesse promesso l’impunità.

Un ministro ha visitato Bolzaneto mentre i detenuti venivano maltrattati e apparentemente non ha visto nulla oppure non ha visto nulla che ha pensato di dover fermare. Un altro, Gianfranco Fini, ex segretario nazionale del partito neo-fascista Msi, e allora vice primo ministro, secondo i resoconti dei media di allora era nel quartier generale della polizia. Non gli è mai stato chiesto di spiegare che ordini abbia dato. Molti delle centinaia di tutori della legge coinvolti nella Diaz e a Bolzaneto se la sono cavata senza alcuna punizione o accusa. Nessuno è stato sospeso; alcuni sono stati promossi. Nessuno degli agenti processati per Bolzaneto è stato accusato di tortura:la legge italiana non prevede questo reato. Alcuni alti funzionari che in origine avrebbero dovuto essere accusati per il raid alla Diaz sono stati scagionati semplicemente perché Zucca non è riuscito a provare l’esistenza di una catena di comando.

Anche adesso, il processo a 28 agenti è a rischio perché il primo ministro Silvio Berlusconi sta spingendo un disegno di legge per rinviare tutti i processi che hanno a che fare con fatti accaduti prima del giugno 2002. Nessuno è stato incriminato per la violenza inflitta a Covell. Come dice uno degli avvocati delle vittime, Massimo Pastore: «Nessuno vuole ascoltare ciò che questa storia ha da dire». Si tratta di fascismo. Ci sono molte voci sul fatto che la polizia, i carabinieri e il personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non sono state trovate le prove. Pastore dice che così, comunque, si manca il punto principale: «Non è questione di pochi fascisti ubriachi. Nessuno ha detto ‘no’. Questa è la cultura del fascismo».

Al cuore, tutto ciò coinvolge quello che Zucca nel suo rapporto descrive come «una situazione in cui ogni stato di diritto è stato sospeso». Cinquantadue giorni dopo l’attacco alla scuola Diaz, 19 uomini hanno usato aerei carichi di passeggeri come bombe volanti e hanno modificato il nucleo dei princìpi su cui le democrazie occidentali si erano basate. Da allora, politici che mai accetterebbero di essere chiamati fascisti, hanno accettato intercettazioni telefoniche di massa e controllo delle e-mail, detenzioni senza processo, torture sistematiche, annegamento simulato dei detenuti, arresti domiciliari illimitati e l’uccisione mirata dei sospetti, mentre le procedure dell’estradizione sono state sostituite dalle extraordinary rendition. Non è fascismo con dittatori in stivali e schiuma alla bocca. E’ il pragmatismo di politici rovesciati dal didentro. Ma l’esito sembra molto simile. Genova ci dice che quando lo stato si sente minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso. Ovunque.

Nick Davies

lunedì 21 luglio 2008

In morte di un eroe


Era domenica anche quel 19 luglio 1992. Una domenica calda, con le città semivuote come vuole la consuetudine. La strage di Via D’Amelio squarciò quel quadro, in fondo rassicurante e fu terribile.

Propongo qui
l'intervista rilasciata da Paolo Borsellino il 19 maggio 1992 (sessanta giorni prima dell’uccisione del magistrato e della sua scorta) ai giornalisti Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi. Mancavano quattro giorni all'attentato di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta.  Sul sito scuola d’italiano ho trovato un interessante materiale integrativo e, per me, inedito. Ricordo la polemica che seguì la trasmissione dell’intervista (anche la data non corrisponde all'informazione di cui dispongo).

Nel blog www.vivamarcotravaglio.splinder.com posterò l’intervista che fece al magistrato Lanfranco Sposini e la prima parte della lectio magistralis che Paolo Borsellino tenne in una scuola superiore di Bassano del Grappa. Essendo molto lunga, questa “lezione” proseguirà nel blog www.ritaglidistamap.splinder.com.


Il 21 maggio 1992, due mesi prima di essere assassinato,  Paolo Borsellino ha concesso  al giornalista francese Fabrizio Calvi ed al regista Jean Pierre Moscardo un'intervista che ha suscitato grande clamore e scandalo.


Infatti questa intervista, interamente videoregistrata a casa del magistrato, non è mai stata trasmessa in televisione. Solo nel 1994 (due anni dopo la morte di Borsellino) il settimanale l'Espresso ne ha pubblicato il testo integrale. E solo nel 2000 il canale RaiNews 24 ne ha trasmesso una riduzione di 30 minuti (l'intervista originale durava 50 minuti).


La versione televisiva ha provocato reazioni agguerrite: nell'intervista si parla infatti di Vittorio Mangano, il mafioso che per diverso tempo ha lavorato alle dipendenze di Berlusconi come "stalliere", e si parla anche di altri personaggi molto vicini a Bellusconi come Dell'Utri e Rapisarda. In sostanza nell'intervista si parla di rapporti fra mafia, politica e grande industria.


Le reazioni di Berlusconi sono state naturalmente vivacissime e in conclusione si è parlato di una "manipolazione" dell'intervista televisiva.


Non è probabilmente corretto affermare che quella di RaiNews 24 sia una versione manipolata dell’intervista, ma certamente non è quella la versione integrale della stessa.


Proponiamo qui allora le due versioni: a sinistra il testo integrale (pubblicato dall'Espresso) e a destra quello ridotto (della versione televisiva). Gli studenti di italiano (e pure gli italiani) potranno trarre le loro conclusioni.


Tra queste centinaia di imputati ce n'è uno che ci interessa:

tale Vittorio Mangano, lei l'ha conosciuto?











«Si, Vittorio Mangano l’ho conosciuto anche in  periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il'75 e l’80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L'indagine fu particolarmente fortunata perché - attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un'ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata autrice dell’estorsione.


Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l'esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l'ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d'onore appartenente a Cosa Nostra».


<<Sì, Vittorio Mangano l'ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxi-processo e precisamente negli anni fra il 1975 e il 1980, e ricordo di aver istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane. Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come "uomo d'onore" appartenente a Cosa Nostra>>.










  

Uomo d'onore di che famiglia?












«L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia alla quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accertò che Vittorio Mangano - ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io, e risultava altresì dal cosiddetto "procedimento Spatola" [il boss Rosario Spatola, potente imprenditore edile, NDR] che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxiprocesso - che Mangano risiedeva abitualmente a Milano città da dove, come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale dei traffici di droga che conducevano alle famiglie palermitane». <<L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo della famiglia di Porta Nuova, famiglia della quale originariamente faceva parte lo stesso Buscetta. Si accertò che Vittorio Mangano, ma questo già risultava dal procedimento precedente che avevo istruito io e risultava altresì da un procedimento cosiddetto procedimento Spatola, che Falcone aveva istruito negli anni immediatamente precedenti al maxi-processo, che Vittorio Mangano risiedeva abitualmente a Milano, città da dove come risultò da numerose intercettazioni telefoniche, costituiva un terminale del traffico di droga, di traffici di droga che conducevano le famiglie palermitane>>.










  

E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?












«Il Mangano, di droga (Borsellino comincia a parlare, poi si corregge. NDR), Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l’interlocutore di una telefonata intercorsa tra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta l’arrivo di una partita di eroina chiamata alternativamente, seco do il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, “magliette” o “cavalli”. Il mangano è stato poi sottomesso a processo dibattimentale ed è stato poi condannato per questo traffico di droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa – beh, sì per associazione semplice – riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più 700 milioni di multa…La sentenza di Corte d’Appello confermò questa decisione di primo grado». <<Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti risulta l'interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo, nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio mafioso delle famiglie palermitane, preannuncia o tratta l'arrivo di una partita di eroina chiamata alternativamente secondo il linguaggio convenzionale che si usa nelle intercettazioni telefoniche come magliette o cavalli>>.










 

Quando ha visto per la prima volta Mangano?












«La prima volta che l’ho visto anche fisicamente? Fra il ’70 e il ‘75».

Non c’è né la domanda, né la risposta.












  

Per interrogarlo?












«Si, per interrogarlo».

Non c’è né domanda, né risposta.












  

E dopo è stato arrestato?












«Fu arrestato fra i1 ‘70 e il '75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l'ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po' sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?












«A Palermo la prima volta (è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, NDR».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Quando, in che epoca?












«Fra il '75 e l'80, probabilmente fra il ‘75 e l’80».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Ma lui viveva già a Milano?












«Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

E si sa cosa faceva a Milano?












«A Milano credo che lui dichiarò di gestire un'agenzia, ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità, perché anche nel processo, quello delle estorsioni di cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico di stupefacenti».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?













«Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero...»



Non c’è né domanda, né risposta












 

Ma lui comunque era già uomo d'onore negli anni Settanta?












«...Buscetta lo conobbe già come uomo d'onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa di. quell’estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata... Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d’incontro... ma tutti e due erano detenuti allUcciardone qualche anno prima o dopo il 77».

Non c’è né domanda, né risposta












 

Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato

a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...












«Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d’onore. Contorno, tuttavia – dopo aver affermato, in un primo tempo, di non conoscerlo – precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, un presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade (uno dei capi dei corleonesi. NDR)».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Mangano conosceva Bontade?












«Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone [Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, NDR]...».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c'è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però dì un invitato [Luigi D'Angerio, NDR] che usciva dalla casa di Berlusconi.












«Non sono a conoscenza di questo episodio».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un'avanguardia?












«Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le “teste di ponte” dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n’erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono, [altri mafiosi coinvolti nell'inchiesta di San Valentino, NDR] credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c'è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po’ diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone [nel'76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, NDR] lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all'interno dell'organizzazione mafiosa...». <<Sì, guardi le posso dire che era uno di quei personaggi che ecco erano i ponti, le teste di ponte dell'organizzazione mafiosa nel Nord – Italia>>.











 












 

Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?












«Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Dunque quando Mangano parla di “cavalli” intendeva droga?












«Diceva "cavalli” e diceva “magliette”, talvolta». <<Si, tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga, è una tesi che fu avanzata alla nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta al dibattimento, tanto è che Mangano fu condannato al dibattimento del maxi processo per traffico di droga>>










 

Perché se ricordo bene c'è nella San Valentino un'intercettazione tra lui e Marcello Dell'Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: «Mangano parla con tale dott. Dell'Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L'interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche il cavallo" che fa per lui. Dell'Utri risponde che per il cavallo occorrono "piccioli' e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell'Utri risponde che quello lì non "surra", [non c'entra, NDR]) ».












«Si, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare [Borsellino guarda le sue carte, NDR). No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l'altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant'è che Mangano fu condannato». <<Beh, nella conversazione inserita nel maxi-processo, si parla di cavalli da consegnare in albergo, quindi non credo potesse trattarsi effettivamente di cavalli, se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all'ippodromo o comunque al maneggio, non certamente dentro l'albergo>>.










 

E Dell'Utri non c'entra in questa storia?












«Dell’Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano». <<Dell'Utri non è stato imputato del maxi processo per quanto io ne ricordi, so che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano>>.










 

A Palermo?












«Si. Credo che ci sia un’indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari». <<Si, credo che ci sia un'indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari>>.










 

Dell’Utri. Marcello Dell’Utri o Alberto Dell’Utri (Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, oggi tutti e due sono dirigenti Fininvest. NDR)












Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto (Borsellino guarda le carte. NDR), cioè si parla di Dell’Utri Marcello e Alberto, entrambi». <<Non ne conosco i particolari, potrei consultare avendo preso qualche appunto, cioè si parla di Dell'Utri Marcello e Alberto, di entrambi>>.










 

I fratelli?












«». <<>>.










 

Quelli della Publitalia, insomma?












«». <<>>.










 

E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell’Utri?












«Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla»

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Sì, ma in quella conversazione con Dell’Utri poteva trattarsi di cavalli?














«Nella conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo 
(Borsellino sorride. NDR). Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all’ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l’albergo».



Non c’è né domanda, né risposta












 

In un albergo. Dove?












«Oddio, i ricordi! Probabilmente si tratta del Plaza (l’albergo di Antonio Virgilio. NDR) di Milano».

Non c’è né domanda, né risposta.














Ah, oltretutto...












«»

Non c’è né domanda, né risposta.












 

C'è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come

si sono conosciuti Mangano e Dell'Utri?












«Non mi dovete fare queste domande su Dell'Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena… dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Sono di Palermo tutti e due...












«Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d’onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

C'è un socio di Dell'Utri tale Filippo Rapisarda (i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell'Utri e Mangano partiva da un'utenza di via Chiaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda. NDR) che dice che questo Dell'Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade [i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con il boss dei corleonesi, Bontade. NDR]












«Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia dì Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose – almeno 2000 uomini d'onore con famiglie numerosissime - la famiglia di Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un'unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell'esistenza di Rapisarda ma non me ne sono mai occupato personalmente» <<Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano più numerose, si è parlato addirittura in un certo periodo almeno di duemila uomini d'onore con famiglie numerosissime, la famiglia di Stefano Bontade sembra che in un certo periodo ne contasse almeno 2000, si trattava comunque di famiglie appartenenti ad  una unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti, e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera>>.











 

Domanda che non compare sull’Espresso:


Lei di Rapisarda ne ha sentito parlare?












  <<So dell'esistenza di Rapisarda, ma non me ne sono mai occupato personalmente>>.










 

A Palermo c'è un giudice che se n'è occupato?












«Credo che attualmente se ne occupi .... ci sarebbe un'inchiesta aperta anche nei suoi confronti ... »

Non c’è né domanda, né risposta












 

A quanto pare Rapisarda e Dell'Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia [Francesco Paolo Alamia, presidente dell'immobiliare Inirri e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7. NDR]












«Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda DellUtri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente». <<Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Rapisarda e Dell'Utri, non so fornirle particolari indicazioni, trattandosi ripeto sempre di indagini di cui non mi sono occupato personalmente>>.










 

Domanda che non compare sull’Espresso:


Non le sembra strano che certi personaggi, grossi industriali come Berlusconi, Dell'Utri, siano collegati a uomini d'onore tipo Vittorio Mangano?













La strage di via d'Amelio


<<All'inizio degli anni Settanta, Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa, un'impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che ad un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti , Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali, una massa enorme di capitali, dei quali naturalmente cercò lo sbocco, cercò lo sbocco perchè questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora cosìsi spiega la vicinanza tra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali>>.










 

Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi












«Non le saprei dire in proposito.. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi - comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla». <<Non le saprei dire in proposito o anche se le debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo, so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco quale atti sono ormai conosciuti, ostensibili e quali debbono rimanere segreti, questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi, è una vicenda che la ricordi o non la ricordi, comunque è una vicenda che non mi appartiene, non sono io il Magistrato che se ne occupa quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla>>.










 

Ma c'è un'inchiesta ancora aperta?












«So che c'è un'inchiesta ancora aperta». <<So che c'è un'inchiesta ancora aperta>>.










 

Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?












«Su Mangano credo proprio di si, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia concernenti anche Mangano». <<>>.









 

Concernenti cosa?










«Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconì e Dell'Utri e uomini d'onore di Cosa Nostra?

Cioè Cosa Nostra s'interessa all'industria, o com'è?













«A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l'organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All’inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un'impresa anch'essa. Un’impresa nel senso che attraverso l'inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all'estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».



Non c’è né domanda, né risposta












 

Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s'interessi a Berlusconi?












«E' normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l'organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali». <<E’ normale che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerchi gli strumenti per poter impiegare questo denaro, sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro>>










 

E uno come Mangano può essere l'elemento di connessione tra questi mondi?












«Ma, guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un’attività commerciale. E' chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Però lui si occupava anche di traffico tre droga, l'abbiamo visto anche in sequestri di persona..












«Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c'è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

E questa inchiesta quando finirà?












«Entro ottobre di quest'anno ... ».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?












«Certamente…».

Non c’è né domanda, né risposta.












 

Perché ci servono per un'inchiesta che stiamo cominciando

sui rapporti tra la grossa
industria...












«Passerà del tempo prima che ... ». 

Non c’è né domanda, né risposta.