domenica 31 dicembre 2006

La pietra e la fionda


Un uomo col cappio alla gola, giustiziato all’alba. Come nei film western. Immagini crude che da ieri mattina si sono riversate sulle nostre coscienze, ancora incredule di fronte a quella che pareva essere finzione e invece non lo era.


L’anno che se ne va, lascia un’impronta profonda nel cammino al contrario che noi uomini globalizzati stiamo compiendo. Basterà a bloccare questo imbarbarimento di costumi, di comportamenti, di mentalità quell’immagine del boia mascherato che infilano il nodo scorsoio al collo di un carnefice a suo tempo e ormai uomo solo davanti alla morte esibita in tv?


Il titolo migliore della rassegna stampa di stamattina mi pare quello del  manifesto: "Il mondo nuovo".


“L'esecuzione di Saddam Hussein è avvenuta alle 4 (ora italiana). Giudici e boia avevano fretta, dopo un processo che il diritto internazionale considera una farsa. L'Iraq sciita è in festa, quello sunnita sprofonda nel dolore e nella protesta. Bush esulta: «È un atto di giustizia», ma ammette che la violenza non si fermerà. E ieri è stata una «normale» giornata di guerra civile con 75 vittime. L'Italia condanna, il Vaticano: «È una tragedia».


Con l’ottimo commento di Giuliana Sgrena, intitolato "Risveglio nell’ inferno".


Ecco le immagini dell’esecuzione di Saddam diffuse dai media. L’ex rais iracheno con il cappio al collo e poi avvolto in un sudano. La prova della sua morte. È stato mostrato come un trofeo, ma non fino in fondo. Per timore o per pudore? E come avrebbe potuto? Di fronte all’orrore del mondo, l’unico leader mondiale fautore e favorevole all’impiccagione dormiva. Difficile immaginare sonni tranquilli. Possibile che Bush abbia potuto scacciare gli incubi con i suoi sogni di gloria? Che finora si sono mostrati vacui? Il risveglio riporterà il presidente dentro la tragedia dell’Iraq.


Bush ha definito l’esecuzione di Saddam una pietra miliare nella costituzione della democrazia. Quale democrazia? Quella dell’occupazione, di Abu Ghraib, dei massacri quotidiani, dell’illegalità, dei rapimenti, degli stupri, dei delitti d’onore? O quella del processo a Saddam Hussein? Che ha violato qualsiasi standard minimo del diritto internazionale. Perché non si è voluto un tribunale internazionale come per Milosevic?


Gli Stati uniti hanno voluto decidere la sorte del «nemico» prima ancora di poter proclamare la propria vittoria sugli iracheni e soprattutto sopprimerlo prima che potesse rivelare le complicità dei vecchi amici e sostenitori, in primo luogo gli americani. Con l’esecuzione si è impedito che Saddam fosse processato per tutti i suoi crimini. La pena non è stato un atto di giustizia ma solo una vendetta che sta scatenando i peggiori sentimenti.


Paradossalmente l’unico atto di sobrietà di fronte alla morte è stato quello dell’ex dittatore che ha invitato gli iracheni a mantenere l’unità, che aveva imposto con la violenza e che ora altri stanno distruggendo con altrettanta violenza. Le vittime sono sempre iracheni. Per mandare sulla forca Saddam - per la morte di 143 sciiti

- sono stati uccisi circa 600.000 iracheni. In nome di quale giustizia?


Il premier iracheno Maliki ha firmato la condanna a morte soddisfatto di avere una parte in commedia che libera gli sciiti di un feroce repressore e gli alleati iraniani di un temibile nemico, ma soprattutto offre una parvenza di vittoria ai fautori della guerra, al presidente Bush la cui uscita di scena si avvicina e che vuole rendere meno ignobile. Ma ormai negli Usa sono sempre meno a credere nella giusta scelta della guerra. L’effetto peggiore tuttavia si avrà in Iraq. Se gli sciiti hanno festeggiato, i kurdi sono rimasti con la bocca amara per non avere avuto giustizia e i sunniti, amici o meno di Saddam, aumenteranno la loro guerra all’occupazione. I terroristi, ancor più legittimali da tanto orrore, faranno il resto.


L’impiccagione di Saddam può fare di un dittatore un martire. Per quella resistenza che non ha ancora trovato un leader, Saddam può diventare un simbolo indelebile. Adesso che è morto e non può più commettere orrori chi potrà infrangere un mito? Non solo. L’esecuzione avvenuta il primo giorno dell’Aid al Adha, la festa del sacrificio, una delle più sacre dell’islam, in cui tutte le armi vengono deposte, darà alla morte dell’ex rais un forte valore simbolico. La morte di Saddam - che per gli iracheni rappresentava ormai il passato - invece di cancellarlo dalla memoria lo riporterà sulla scena politica dando nuovo impulso alla resistenza e alla violenza. E Bush sarà sempre più solo.


Molto efficace il titolo de l’Unità. “Saddam, il trionfo della barbarie”. E la striscia rossa, è come sempre, interessante. «Il mio percorso con questa politica finisce qui, adesso. Mi chiedete di sostenere una guerra in cui la stessa pattuglia di soldati Usa percorre ogni giorno una strada che non conosce, fra gente che non ha alcuna ragione per amarci e ogni giorno qualcuno di loro salta in aria. Non posso più dire di sì a questa politica. Dico che è assurda. Anzi criminale»


Gordon Smith, senatore repubblicano


New York Times, 29 dicembre 2006


L’eccellente editoriale di Furio Colombo, scritto il 30 dicembre, l’ho postato qui.


La rubrica “Fronte del video” è dedicata all’esecuzione capitale.


La vendetta


Maria Novella Oppo


Non riusciamo a cancellare dai nostri occhi le immagini dell´esecuzione di Saddam. Tutte le reti ne sono state invase. Niente di nuovo, purtroppo, nella globalizzazione della barbarie, ma un uomo incatenato, ucciso da uomini incappucciati è la scena di un delitto mostrata al mondo intero. Tutto registrato e diffuso quasi in tempo reale, perché niente avviene se non avviene in tv, secondo la logica di una comunicazione chiamata a completare l´opera del boia e a uccidere un uomo morto. Perché lo avevano già finito quando lo avevano mostrato a bocca aperta, ispezionato e quasi spulciato, come un animale appena catturato. Da lì era cominciata la distruzione fisica del tiranno, la sua riduzione a prigioniero, vittima e dunque di nuovo uomo. Cosicché, alla fine, ad essere ucciso è stato l´uomo. E questo è l´incredibile risultato della vendetta di Bush. Come se un nuovo delitto potesse cancellare tanti delitti. Come se aggiungere nuova ferocia potesse migliorare il mondo e capovolgere le sorti della guerra.


l’Unità 31 dicembre 2006


Per motivi di tempo, soprattutto, non posso riportare in dettaglio anche le posizioni dei due maggiori quotidiani italiani, vale a dire la Repubblica e il Corriere della Sera, trovo però singolare la scelta de La Stampa di pubblicare, in prima pagina, una foto con la seguente didascalia: In un teatro di Malta un gruppo di ballerine guarda l’esecuzione in tv”. Mah...


Di certo oggi più che mai apprezzo la possibilità di leggere La Gazzetta Sportiva. E augurare buon anno è quanto mai opportuno.



La vignetta di Vauro è tratta da Peace Reporter, quella di Staino da “l’Unità" del 31 dicembre 2006

venerdì 29 dicembre 2006

Il cuore di Napoli


Natale a Napoli costituisce un’esperienza stordente e gratificante: per la mente e per il corpo. L’immersione nella folla, nei suoni, nei colori e calori, nei rumori che precedono le festività, rappresenta un unicum che solo una città contraddittoria e impudica nell’esibire le sue bellezze può offrire.


San Gregorio Armeno è la via universalmente nota per i presepi, un’arte antica che ancora sopravvive nel lavoro e nella passione degli artigiani. Innumerevoli le ricostruzioni, talune ambiziose e ridondanti, molteplici le statuine ortodosse e meno, come la testata di Zidane a Materazzi. Affascinato davanti alle ceramiche di Capodimonte, attratto dal profumo di cacao in un negozio, il fiume di folla che scorreva e a tratti si rigonfiava. E poi, come d’incanto, gioielli architettonici come Piazza del Gesù. con le chiese di Santa Chiara e del Gesù Nuovo, e la guglia dell'Immacolata che svetta al centro della piazza.


Napoli è una città stratiforme che racchiude altre città a sua volta. La presenza di greci e romani, di angioini e aragonesi, fa sì che durante una lunga passeggiata sia   possibile incontrare mura romane, chiese medioevali, castelli normanni, palazzi rinascimentali, edifici in stile liberty e quartieri che si sovrappongono l’uno all’altro. Da Piazza Vanvitelli su verso il Vomero, zone raffinate ed eleganti, viali alberati e suggestivi. E sotto Castel Sant’Elmo un panorama mozzafiato sul centro storico, avversato da un vento nordico che molto poco permette di godere, ma tanto lascia intuire.


Da Posillipo lo sguardo si perde invece al largo, nel mare aperto, su uno scenario magico. E percorrendo il lungomare si viene investiti dalla bellezza, tutta circoscritta in pochi passi. L’imponente Maschio Angioino, l’immenso Palazzo Reale, il Teatro San Carlo, la Galleria Umberto e poi giù verso la meravigliosa Piazza Plebiscito dove gli occhi spaziano all’infinito e scorgono panorami che s’incastonano a meraviglia nel contesto. Sarà forse l’odore e il sapore del mare, ma non potrebbe esserci altro fondale per questa collezione di bellezze.


A Napoli si mangia sempre. S’inizia con il rituale della cena della vigilia che è poi un vero e proprio cenone. Saporito il capitone, ottimo il branzino, deliziose e delicate le insalate di contorno, squisita la cassata siciliana. Come mi è stato spiegato, infatti, da alcuni anni i prodotti dolciari siciliani si sono prepotentemente inseriti nelle abitudini gastronomiche partenopee, perché piacciono e infatti davanti ai cannoli, che però non ho assaggiato, sarebbe impossibile voltarsi dall’altra parte. Ma tra dolci è un derby, tutti assaggi nuovi per me (se non si fosse capito si è trattato della mia prima volta nel capoluogo campano) che finisce in parità, con tanti gol. Perché struffoli, babà e sfogliatelle fanno stare in paradiso.


Ma Napoli è anche, purtroppo, altro. Ho visto la spazzatura tracimante dai cassonetti invadere le strade, togliere spazio e aria, mentre l’abitudine a questo spettacolo avvilente sembra aver preso il sopravvento. L’emergenza immondizia, come la si definisce sbrigativamente, fa ormai parte della quotidianità, è entrata nel vissuto, spalancando le porte alla rassegnazione. Come il traffico, magicamente sparito il pomeriggio del 25: sembrava un altro mondo. Nel caotico scorrere di auto e moto forse s’identifica la napoletanità, in quella parte almeno che è l’insofferenza alle regole. Perché è normale considerare i semafori un optional o quasi, è normale sorpassare a destra con i motorini. E, altrettanto stupefacente, ma normale pure questo, fermare un auto lungo la strada, mettersi a parlare incuranti degli altri mezzi che devono pur procedere. Quasi esistesse (esiste?) un senso di impunità. Come per gli scontrini fiscali. Si sceglie un prodotto, si paga, si prende eventualmente il resto e poi, con il pacchetto in mano, non rimane che andarsene. Forse i registratori di cassa hanno una mera funzione ornamentale. Curioso tutto ciò.


Una volta sono passato accanto ad una gigantesca costruzione in ferro, sembrava un’astronave planata a terra, si trattava invece dello stadio San Paolo, collocato nel cuore di Fuorigrotta, tra edifici antisismici evidentemente, perché se non sono crollati al tempo di Maratona e di Napoli tricolore non cadranno più.


L’ultima emozione il raggio verde del tramonto a Bacoli, l’orizzonte all’imbrunire disegnava una fascia rossa, laddove si staglia il promontorio di Capo Miseno e la baia illuminata come un immenso presepe. Era freddo attorno, ma il cuore caldo e mi sono sentito in pace.

giovedì 21 dicembre 2006

Scintillanti luci di pace e armonia


Promemoria



Ci sono cose da fare ogni giorno:


lavarsi, studiare, giocare, preparare la tavola, a mezzogiorno.



Ci sono cose da fare di notte:


chiudere gli occhi, dormire, avere sogni da sognare, orecchie per sentire.



Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte né per mare né per terra:


per esempio, LA GUERRA



Gianni Rodari


 


 


Luce, pace, amore



La pace guardò in basso


e vide la guerra,


"Là voglio andare" disse la pace.



L'amore guardò in basso


e vide l'odio,


"Là voglio andare" disse l'amore.



La luce guardò in basso


e vide il buio,


"Là voglio andare" disse la luce.



Così apparve la luce


e risplendette.



Così apparve la pace


e offrì riposo.



Così apparve l'amore


e portò vita.



L. Housman


 


 


 


Natale, un giorno



Perché

dappertutto ci sono cosi tanti recinti?

In fondo tutto il mondo e un grande recinto.



Perché

la gente parla lingue diverse?

In fondo tutti diciamo le stesse cose.



Perché

il colore della pelle non è indifferente?

In fondo siamo tutti diversi.



Perché

gli adulti fanno la guerra?

Dio certamente non lo vuole.



Perché

avvelenano la terra?

Abbiamo solo quella.



A Natale - un giorno - gli uomini andranno d’accordo in tutto il mondo.

Allora ci sarà un enorme albero di Natale con milioni di candele.

Ognuno ne terrà una in mano, e nessuno riuscirà a vedere l’enorme albero fino alla punta.



Allora tutti si diranno "Buon Natale!" a Natale, un giorno.



Hirokazu Ogura









 


 


È attraverso le parole di tre poeti e il loro comune sentire che auguro alle amiche e agli amici di questo blog auguri sinceri di serene feste e, naturalmente, di pace, quella interiore soprattutto. Auspicio che è rivolto a chi scrive in primo luogo.




martedì 19 dicembre 2006

Conflitto irrisolto



Su un autobus, insolitamente pieno, mi ritrovo accanto alcune adolescenti che fanno gruppo stazionando nei pressi della porta di uscita. Tutte regolarmente in divisa da sedicenni rampanti, zainetti onusti di pelouche, pittati con frasi da baci perugina, intercalate da quei misteriosi acronimi, che un attento osservatore decritta agevolmente (tvb, ttvtb) fino agli inevitabili “tre metri sopra il cielo” quando ci si trova con lui.


L’abbigliamento è fintamente trasandato e ciascuna indossa un accessorio che serve a differenziarla. Di una, segnatamente, mi colpisce un dettaglio peraltro assai vistoso. Biondina, capelli lunghi, pelle chiaro di luna, labbra screpolate, evidentemente ci tiene ai particolari e alla combinazione di colori. Infatti il suo pulloverino corallo fa pendant con l’intimo. Non col reggiseno, ma con le mutandine che fuoriescono per una buona metà dai jeans a vita molto bassa, quasi rasoterra. È perfettamente a conoscenza di questa caratteristica, ma non mostra ovviamente di preoccuparsene, né lo sono le sue amiche che vestono con maglioni di due taglie inferiori e che permettono alla pancia di prendere aria.


La loro conversazione è frenetica, gli argomenti sfiorati tantissimi, tempo un minuto e si passa ad altro. Vi è quasi una voracità onnivora nel divorare ogni tema possibile: dalle vicende scolastiche, agli appuntamenti con gli amici, dall’idea di un pigiama party da condire con film horror fino alle serie tv che tutte hanno già visto su Sky, (gettonatissime Dr.House, Lost e Grey’s’ Anatomy. Gusti che sono analoghi ai miei). Noto, pensandolo, come siano scarsissime le capacità di attenzione e concentrazione. Mi accorgo, scrivendolo, di aver adoperato un termine: “gettonatissimo” che sarebbe per loro di misteriosa origine.  


Conversando con un amico, mi capita di citare – per tutt’altri motivi – il breve viaggio fatto e non manco di sottolineare i dettagli di abbigliamento. La descrizione della biondina slavata colpisce la sua attenzione, ma la reazione non è certo quella che potevo aspettarmi da una persona colta, di notevole sensibilità, misurata nelle parole e nelle valutazioni. “Poi dice che uno se le fa”.


Ecco, penso tornando a casa, se anche un ragazzo simile pensa ancora questo, se è rimasto sorprendentemente fermo ad un concetto di così basso livello, molto più dei jeans della ragazzina, ci si può aspettare qualcosa di diverso da coloro che sono sprovvisti di strumenti intellettuali come quelli posseduti dal mio amico?


Il panorama si presenta così desolante, squallidamente illuminato dalle luci del varietà che non riescono a dissipare le gravi ombre calanti sulle coscienze e sulla dignità delle persone. E restano gli interrogativi. Perché io non sono arrivato alle stesse conclusioni? Cosa serve ancora per chiarire il diabolico equivoco? Ed è così difficile da capire un “sì” quando è "sì" e un "no" quando è “no”?

mercoledì 13 dicembre 2006

Delitto di cronaca

http://www.disegnioriginali.net/illustrazbarbati.htm


Orrori di stampa


di Ferdinando Camon


l’Unità 13 dicembre 2006


Il padre della donna sgozzata a Erba parla nel telegiornale delle 13, e le sue parole suonano assurde, perché urtano contro tutto quello che avevamo fin’allora sentito o letto. Quest'uomo dignitoso, davanti alla casa dove qualcuno ha appena ucciso a coltellate sua figlia, sua moglie, e il figlio della figlia, quest’uomo ha un lungo intervallo di lucidità prima di crollare. In quella lucidità fredda e logica dice che no, non è possibile che il marito della figlia, un tunisino di 25 anni, abbia fatto del male a quelle persone, a nessuna di loro, e specialmente al figlio: lui quel figlio lo adorava, stravedeva per lui. E poi quel tunisino è in Tunisia da più giorni, dalla Tunisia gli aveva appena telefonato.


Noi italiani avevamo nella testa una valanga di dati irrimediabilmente contrari: famiglia massacrata a coltellate, il capo-famiglia è un tunisino e non si trova più, ergo il tunisino è il pluriassassino. Il tunisino pluriassassino era appena stato scarcerato con l'indulto, ergo l’indulto e chi l’ha voluto sono responsabili di strage. Questo tunisino è un po' più scuro dei tunisini, somiglia a un marocchino, allora è senz’altro un marocchino, e i marocchini sono più assassini dei tunisini. Il massimo quotidiano nazionale in prima pagina parlava di «immigrato maghrebino», «straniero», «marocchino».


Non era emerso nessun movente a spiegare perché avrebbe dovuto sgozzare la moglie e il figlio e la suocera e un’amica, ma quando un delitto è compiuto da un maghrebino il movente non è strettamente necessario: loro sono così, il movente sta nel come sono.


Intorno alla colpevolezza del maghrebino-marito-padre veniva costruito il contorno necessario a renderla più solida: era scappato subito dopo la strage.

E aveva precedenti per violenza, aveva minacciato più volte la famiglia, la moglie e il figlio, era finito in carcere per aggressioni e rapina. Il caso era chiuso. Lui bisognava ritirarlo dalla circolazione e rimetterlo in galera per sempre, ma soprattutto bisognava ritirare l'indulto, e anzi mettere sotto processo chi l'ha votato, perché votando quella norma votava questa strage.

Certamente chi accoglieva o lanciava questa spiegazione mandava a intervistare il padre della donna assassinata (la compagna del tunisino; tutti gli altri, probabilmente, sono contorno) perché mettesse sulla ricostruzione della strage il sigillo della disperazione, del pianto, del crollo. E l'uomo è crollato infatti, e non si capiva più quel che diceva. Ma dopo. Prima ha detto quanto basta per farci capire non che la polizia sbaglia (può sbagliare, in questi casi si parte sempre sbagliando), non che i giornali sbagliano (sbagliano spesso, le notizie in fieri attraversano sette-otto stadi di menzogna prima di assestarsi nella verità), non che è sbagliato un dato, un'ora, un luogo, un identikit: ma che è sbagliato il sistema che scatta automaticamente in tutti questi casi, il sistema per cui marocchino carcerato-per-rapina scarcerato-per-indulto denunciato-per-violenza forma una linea diretta in fondo alla quale vedi lo sterminio della famiglia e la fuga in patria.

Questo sistema non è figlio della notizia, è la notizia che è figlia di questo sistema. Può darsi naturalmente che questo tunisino in qualcosa c'entri. Può darsi che chi è entrato in casa sua ce l'avesse con lui, e volesse farlo morire nel più crudele dei modi, tagliando le radici della sua vita. Ma il problema è che il nostro sistema di anticipare queste notizie, completarle, aveva bisogno del mostro extra-europeo, extra-cristiano, irredimibile in carcere e fuori. Stavolta il sistema ha fallito. Ma è sempre lì, pronto a ripartire.


Leggo questo commento e l’esigenza di postarlo è automatica. Evidentemente il sistema mostruoso dell’informazione si rivela inaffidabile e ancora inattaccabile. Eppure è storia di qualche anno fa, storia clamorosa intendo, il pluriomicidio di Novi Ligure, immediatamente addebitato ad albanesi o extracomunitari, troppo brutale perché ne venissero investiti italiani, i quali si sa, per l’abusato e sciocco luogo comune, sono tutti brava gente. E invece diventarono protagonisti due ragazzi: Erika, figlia e sorella delle vittime e il suo fidanzatino – come si usa dire nella circostanza. Lei spietata carnefice, lui succube e forse plagiato da quel “carisma” omicida. Eppure il modo di fare informazione non si è ancora discostato dal facile giornalismo urlato, dalla spettacolarizzazione di ogni situazione, dal rivolgersi alla pancia piuttosto che alla testa delle persone. In tal modo come si può pensare che le sacrosante ragioni di una categoria, che attende il rinnovo del contratto da troppo tempo, possano essere fatte proprie dall’opinione pubblica, almeno quella più illuminata, se la deontologia professionale è così degradata? 


Il buco nero


Già, ancora il 12 dicembre, ancora quel 12 dicembre che pesa come un macigno sulla storia della nostra nazione. Ogni anno questa ricorrenza interferisce sgradevolmente con la nostra quotidianità, sempre più assente dal concreto, sempre più presente nella banalità. La voglia (e la moda) di non pensare, di cercare relax, sollievo annichilendo le facoltà intellettive cresce in maniera indisponente. Così chi non accetta, né si arrenderà mai al ritmo circadiano di questo paese del pressappoco, capovolto e senza memoria, provoca, ripropone, non concede tregua. Pier Paolo Pasolini e la celebre orazione civica. Le versione integrale, qui, come sempre.


Cos'è questo golpe? Io so


di Pier Paolo Pasolini


Corriere della Sera 14 novembre 1974


Io so.


Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.


Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).


Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".


Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.


Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.


Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.


Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.

Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile (...)


 

lunedì 11 dicembre 2006

Lager 2006


Sarà anche vero che Francesco Caruso, parlamentare di Rifondazione Comunista, viene fatto passare come il “Pierino” di Montecitorio, però questo racconto in presa diretta, scritto sul suo blog AltroSud, colpisce in modo profondo. Caruso si è rinchiuso nel Centro di prima accoglienza di Crotone, per richiamare l’attenzione della sempre più svagata opinione pubblica, attualmente impegnata nello shopping di prammatica, sulle miserevoli condizioni in cui vivono (?) gli immigrati che sbarcano sulle coste italiane convinti di essere approdati in un mondo nuovo, mentre passano dalla “padella” scafisti alla “brace” Cpt, une delle vergogne che un Governo di centrosinistra dovrebbe abolire al più presto e, più in generale, indegni di un Paese che si ritiene così democratico da contribuire all’esportazione della stessa democrazia.


“Nel modulo b1 del Cpt di Crotone, le luci a mezzanotte si spengono automaticamente.


Ahmed e Ibrahin hanno finito per forza di cose di giocare a scacchi e mi lasciano (tutto per me) quel materasso buttato lì per terra, che viene usato a mo' di divano, per stendermi e cercare di dormire qualche ora.


Chiudo gi occhi a più riprese per la stanchezza, ma non ce la faccio a dormire, sono troppo 'abbuffato', per dirla alla napoletana.  Come nei classici cenoni di Natale di un tempo dalla nonna, arrivi ad un certo punto che non ce la fai più.

Ma qui non sono cibi e bevande che ti riempiono lo stomaco fino all'inverosimile, ma un mare incontenibile di angoscia e disperazione umana che ti bombarda la coscienza, ti riempie di rabbia, ti lascia l'amaro in bocca. E ogni storia è un pugno nello stomaco, così uguale a quella precedente, così diversa da quella successiva.

Dopo otto ore di racconti e di parole, vorresti gridargli di smetterla, di  avere pietà del tuo senso di colpa, ma loro si aggrappano a te, a quel filo di speranza che lo sconosciuto, primo, unico visitatore possa capire e fare qualcosa per farli uscire dal cast di questo assurdo film dell'orrore in cui sono finiti, loro malgrado, nel ruolo di inconsapevoli protagonisti.


La trama è quasi sempre la stessa, seppur con le dovute sfumature: la casa e la famiglia distrutta e dilaniata dai nostrani bombardamenti umanitari o gli scontri etnici trapiantati in terre ricchissime di oro e di petrolio di cui gli abitanti del luogo non hanno mai potuto beneficiare; la fame e la miseria che  falcidiano i sopravvissuti a quelle violenze e la lunga traversata a piedi nel deserto sotto il sole a 50 gradi che falcidia i sopravvissuti dei sopravvissuti, e poi ancora la drammatica traversata sulle carrette del mare che decimano i sopravvissuti dei sopravvissuti dei sopravissuti e lasciano in fondo al mare i corpi di donne, ragazzi e bambini morti imbrigliati nel filo spinato di questo Mediterraneo diventato ormai il nuovo muro di Berlino che non divide più l'est e l'ovest del mondo, ma il nord ricco ed opulento da un sud lacerato, povero e abbandonato.


Ma i vincitori di questa drammatica roulette russa, alla fine di questo calvario, non trovano accoglienza e solidarietà, ma un nuovo capitolo di dramma e crudeltà.

Non lo sanno ancora, e a stento riusciamo a spiegarlo, che è vero, sono arrivati nella democratica e moderna Europa, ma i loro corpi sono rinchiusi in uno dei tanti buchi neri della democrazia e dello stato di diritto: sono

rinchiusi dentro un Cpt. Sono in attesa di essere espulsi, di ritornare indietro di chissà quante caselle in questo perverso gioco dell'oca, la cui posta in gioco è la loro stessa vita.


È questa l'Europa che hanno conosciuto e conosceranno, questo ennesimo girone infernale rinchiuso in queste quattro mura cinte da un'inferriata, strette in un'altra inferriata e poi un muro di cinta e poi ancora una rete di filo spinato.

Dopo ore di paziente ascolto e discussione, ti accorgi che per la stragrande maggioranza di loro non ci sarebbe nemmeno bisogno di organizzare un'evasione, ma un semplice e banale ricorso all'espulsione: gli irakeni, i sudanesi, i palestinesi avrebbero il diritto all'asilo o quantomeno alla protezione umanitaria, ma nessuno si è preoccupato di informarli.


E così dalla protesta politica scivoliamo progressivamente verso l'assistenza legale e umanitaria, a fare domande di asilo e nominare gli avvocati, a tradurre e decodificare le maglie della burocrazia repressiva nelle quali sono rimasti imbrigliati.

Qui l'assurdità non è pura follia, ma quotidiana ordinarietà: è inutile descrivere ogni caso personale e 'umano'. Alla fine, per divincolarci dalla pur onorevole funzione di assistenza sociale e mera solidarietà, cerchiamo di riportare alla politica la nostra 'internità' al Cpt, vorremmo organizzare un'assemblea di campo con tutti i migranti, cerchiamo di discutere delle condizioni di vita, le carenze e le deficienze di questa struttura, ma non ce la fanno e forse nemmeno gli interessa la qualità del cibo, le condizioni igieniche, i servizi e le strutture. No, mi ripetono con straordinaria lucidità politica, non è questo il cuore del problema. Il punto dirimente non è 'how', ma il 'why' della loro detenzione amministrativa.


Non è il come, ma il perchè. Non è il televisore che non funziona, quello si ripara o magari si compra anche a colori. È qualcosa di molto più prezioso e delicato quello che non funziona: qui, in questi lager etnici, si è rotta la democrazia, si è frantumata la libertà”.


Crotone, 10 dicembre 2006


 

venerdì 8 dicembre 2006

Ecce Nanni


ROMA - "Mi avevano raccontato di uno straccivendolo che andava in giro urlando così. Avevo un orribile titolo alternativo: Sono stanco delle uova al tegamino". Ecco perché Ecce Bombo: "Solamente un suono. Ma posso ripartire da prima?".


Insomma come si trova a rivedersi? Non arrossisce per la presunzione o l'ingenuità di quel Moretti? "Io ho verso il film le stesse reazioni che avevo un anno dopo averlo fatto. Quello che mi emozionava mi emoziona oggi. Casomai ci vedo qualcosa in più. L'aver colto cose che mi apparivano ovvie, come l'emergere delle radio e delle tv "libere" (si diceva così, non sapevamo che sarebbero diventate tutt'altra cosa). E mi viene in mente un'altra cosa, che non c'entra col film: 30 anni fa c'era un'opinione pubblica che reagiva e si scandalizzava, oggi non esiste più. Si digerisce tutto e le due frasi più ricorrenti sono: "La coerenza è la virtù degli imbecilli", stupida e prepotente. E l'altra: "Io non voglio dare giudizi". E perché? Te lo ha vietato il dottore?".


Non è tipo da aver fatto un'indagine di mercato: perché far riuscire Ecce Bombo a quasi trent'anni di distanza? Che cosa le fa credere che oggi possa incontrare un pubblico. E quale? "Penso che possa raccontare quel periodo e anche qualcosa di come siamo ancora: i rapporti tra le persone, quelli familiari, il velleitarismo.... Tra parentesi: io i film sugli anni '70 li ho fatti negli anni '70, come sugli anni '80 negli anni '80, e non dopo, quando sarebbe stato più facile. E poi non è che voglio "occupare il mercato", ce ne stiamo tranquilli al Nuovo Sacher e in una ventina di altre sale"


Questi sono i brani dell’intervista pubblicata su repubblica.it il 6 dicembre e, che per comodità, ho postato qui. “Ecce Bombo” è uno dei più noti tra i film di Nanni Moretti, e, come altri, è stato una fucina di tormentoni e dialoghi che sono entrati a far parte di un linguaggio, magari di nicchia, ma esilaranti. Personalmente sono molto legato a “Bianca” e “Palombella rossa”, però visto che nella circostanza si celebra “Ecce Bombo” ecco la riproposizione di alcuni dialoghi "cult".


Michele, al telefono con un amico, è indeciso se andare o meno ad una festa. Decide di andare poi, all'ultimo momento prima di attaccare il telefono, cambia nuovamente idea.


Michele No veramente non...non mi va. Ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare i girotondi ed io sto buttato in un angolo...no. Ah no, se si balla non vengo. No, allora non vengo. Che dici vengo?. Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Voi mi fate "Michele vieni di là con noi, dai" ed io "andate, andate, vi raggiungo dopo". Vengo, ci vediamo là. No, non mi va, non vengo.


- Ora abbiamo una telefonata in diretta. Pronto, come ti chiami?- Mario.-Ciao Mario, come stai?- E' come sto, come sto? Sto male.- Hai una carica molto negativa, oggi è?- E' diciamo che al limite sto così. Però io sentivo che le risate tue, lui che cercava di essere allegro, lo capisco, perché io ho fatto finta fino a un paio d'ore fa. Io sono rientrato da due ore e ho fatto finta. HO FATTO FINTA. Adesso la mattina quando esco faccio finta, vado a prendere un caffé e faccio finta, fumo una sigaretta e faccio finta, dico due parole in una certa maniera e faccio finta...


- Senti che lavoro, me ne ero dimenticato, che lavoro fai? - Beh mi interesso di molte cose. Cinema, teatro, fotografia, musica, leggo... - Concretamente.-Non so cosa vuol dire?- Come non sai, cioé che lavoro fai? - Nulla di preciso. - ...Come campi? - Ma... te l'ho detto giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose. - E l'affito? - Vivo con mio fratello e non lo pago. - I vestiti? - E' un amico per esempio che va a Londra gli dico di portarmi delle cose degli abiti. - Il mangiare? - Mi ospitano molto spesso.- Questa sigaretta qui? - Ho incontrato un amico stamattina e mi ha dato due pacchetti di queste.


 


 

mercoledì 6 dicembre 2006

Se questi sono uomini


Undici pagine scritte a mano: così l'ex imam di Milano racconta il sequestro, gli interrogatori e le violenze subite in carcere


IL SEQUESTRO Abu Omar è stato sequestrato il 17 febbraio 2003 mentre si recava alla moschea di Milano


35 GLI INDAGATI Sono indagati per sequestro 26 agenti Cia, un carabiniere del Ros e otto funzionari italiani del Sismi


 


Il memoriale di Abu Omar «Rapito e picchiato da italiani»


di Paolo Biondani e Gianni Santucci


Corriere della Sera 9 novembre 2006


Sul furgone ho preso calci e pugni, poi mi hanno legato e fatto salire su un aereo americano. In cella, mentre ero chiamato a rispondere alle domande, mi hanno torturato. Mi dicevano che era stata l' Italia a consegnarmi all' Egitto


 


«Testimonianza dell'islamico sequestrato nella via di Milano. Così mi hanno rapito dall'Italia e così mi hanno torturato nelle carceri egiziane». Con queste due frasi, scritte in alto come un titolo, Abu Omar apre le undici pagine di memoriale in cui racconta personalmente, per la prima volta, le modalità violente del suo sequestro e gli atroci interrogatori subiti in Egitto. È un documento straordinario, perché mai prima d'ora l'ostaggio era riuscito a far filtrare all'esterno la sua testimonianza di vittima del sequestro e delle torture. Il memoriale è ora depositato tra le fonti di prova a carico dei 35 inquisiti (26 agenti statunitensi della Cia, un carabiniere del Ros e 8 italiani del Sismi) per quella «cattura illegale». La versione di Abu Omar contraddice totalmente la tesi del «finto sequestro di un consenziente», proposta invece in Parlamento dal direttore del Sismi, Nicolò Pollari. Al contrario, Abu Omar conferma di essere stato picchiato a sangue fin dal momento del rapimento e aggiunge un fatto del tutto nuovo: almeno due sequestratori erano «italianissimi». Il Corriere ha ottenuto da proprie fonti una copia del memoriale, che è stata tradotta da tre diversi interpreti (con risultati coincidenti) dopo aver accertato che la Procura ne aveva ottenuto l'originale. I «saggi di grafia» già depositati dai pm confermano che è la stessa scrittura di Abu Omar. Ecco i passi salienti del memoriale.


«Botte e vestiti strappati». «Io sottoscritto, Osama Mustafa Hassan Nasr, conosciuto come Abu Omar, islamico sequestrato a Milano il 17 febbraio 2003, tuttora detenuto nel carcere di Tora al Cairo, scrivo la mia testimonianza dall'interno di questa mia tomba: sono dimagrito, la mia malattia si aggravata, sono in condizioni molto critiche. La mia faccia è trasformata a causa della tortura». «Adesso spiego il sequestro. Camminavo a piedi da casa mia, in via Conte Verde 18/A, lunedì 17 febbraio 2003, andando verso la moschea per la preghiera di mezzogiorno. (...) Avevo in tasca 450 euro (400 per pagare l'affitto), il mio passaporto italiano di rifugiato, il permesso di soggiorno, il cellulare, la tessera sanitaria, l'orologio e le chiavi di casa. Tutte queste cose si trovano ora nella sede dei servizi segreti egiziani, nei "giardini del Copa", davanti al Castello del popolo... Uscendo, ho visto un furgone bianco che mi passava davanti... Davanti a un giardino pubblico, ho visto una Fiat rossa. L'autista veniva verso di me di corsa. Ha tirato fuori una tessera: sono della polizia. Gli ho dato il permesso di soggiorno e il mio passaporto italiano. Lui tira fuori il suo cellulare e fa una chiamata. Mi sembrava un americano: capelli biondi, carnagione chiara, alto circa 1.70». In realtà è un carabiniere italiano di madre tedesca, Luciano Ludwig Pironi, che ha confessato questo ruolo nel sequestro. «Poi il furgone bianco si è fermato vicino al marciapiede. Non ho capito niente, ho visto solo che due persone che mi sollevavano di peso: sembravano italianissimi, alti non meno di 1.87 o di più, età circa 30 anni. Il mio sequestro è stato visto anche da una signora egiziana...». È la testimone oculare, già sentita dai pm. «Quando mi hanno buttato dentro il furgone, ho cercato di reagire, ma hanno cominciato a darmi pugni in pancia e su tutto il corpo. Mi hanno buttato sul fondo del furgone e coperto la faccia. Dentro era tutto buio. Mi hanno legato piedi e mani... Tremavo per le botte e dalla mia bocca è uscita schiuma bianca... Allora ho sentito i due italiani discutere, uno dei due urlava: mi hanno strappato tutti i vestiti e mi hanno fatto un massaggio cardiaco...». «Dopo quattro ore circa, sempre con le mani e i piedi legati insieme, mi hanno trasferito in un altro veicolo, non so se nemmeno se fosse un altro furgone o un piccolo aereo...


«Legato sul jet americano» «Dopo un' altra ora di viaggio, ho capito che ero arrivato in un aeroporto, dal rumore degli aerei. Ho sentito tanti piedi, sette-otto persone, che camminavano verso di me. Mi hanno strappato i vestiti con dei coltelli e rivestito con una velocità incredibile. Mi hanno anche tolto la benda per pochi secondi, per farmi le foto: c'era tanta gente in divisa da teste di cuoio. Mi hanno bendato tutta la testa e la faccia con dello scotch largo, con buchi su naso e bocca per respirare... L'aereo è decollato, c'era un freddo cane... Ero immobilizzato e mi mancava il respiro. Allora mi hanno messo un respiratore... Quando siamo atterrati, perdevo sangue dalle mani». «Al Cairo un funzionario egiziano mi ha detto: in questa stanza ci sono due pasha, cioè due grandi ufficiali dei servizi segreti. Uno solo ha parlato, in egiziano, dicendo solo: "Vuoi collaborare con noi?". L'altro, che probabilmente era un tenente americano, non parlava, ma poi ho capito che diceva: se Abu Omar è d'accordo, torna con noi in Italia». «La mia cella era di due metri per uno, senza luce. Era in un palazzo dei servizi. Mi hanno legato le mani e un piede, mi facevano camminare, io cadevo e loro ridevano. Poi hanno continuato con le scosse elettriche, pugni, schiaffi. Hanno portato carta e penna chiedendomi di scrivere tutta la mia vita fuori dall'Egitto, mi hanno fatto vedere foto di egiziani, tunisini, algerini e marocchini residenti in Italia... Ho avuto problemi alle ossa e alla respirazione. L'interrogatorio è durato sette mesi, fino al 14 settembre 2003, ma mi sono sembrati sette anni.


«La cella è una tomba» «Dopo un altro viaggio, mi hanno portato in un altro palazzo dove un sacco di mani mi hanno picchiato su tutto il corpo. Mi hanno detto: qui dentro non entra neanche la mosca blu. Quando ho chiesto del bagno, mi hanno detto che era la mia cella... C'era una puzza incredibile... Sono rimasto altri sei mesi e mezzo in questo posto, Amn-El-Dawla... La cella era senza aria, scarafaggi e topi camminavano sul mio corpo... Quando entrava il guardiano, dovevo mettermi in ginocchio, altrimenti mi toccava con un bastone elettrico... «Da mangiare mi davano solo pane andato a male, quello con la sabbia che fa cadere i denti... Non puoi bagnarlo e non puoi rifiutarlo, perché loro devono tenere in vita uno scheletro... «Mi interrogavano nell' ufficio vicino alle celle, così gli altri detenuti sentono le urla e i pianti della tortura... I miei capelli e la mia barba sono diventati tutti bianchi... «All'inizio i guardiani mi spogliano nudo, minacciano di violentarmi, mi danno scosse con un bastone elettrico: uno mi tiene le parti intime e me le schiaccio se non parlo... Poi mi stendono su una porta di ferro che chiamano "la sposa": qui prendo calci, scosse elettriche con i fili e intanto mi gettano acqua fredda». «Non mi hanno mai dato il Corano: c'era sempre buio in cella, ma io lo volevo solo per baciarlo e tenerlo stretto fra le braccia. «Per le botte ho perso completamente l'udito da un orecchio: non sento più niente. Ho subito anche una tortura chiamata il materasso. Nella stanza delle torture mettono sul pavimento un materasso bagnato e attaccato alla corrente elettrica. Poi mi legano mani e piedi dietro la schiena. Una persona si siede sulle mie spalle su una sedia di legno e l'altro attacca la corrente. Ero sempre spaventato e spesso svenivo. Ora non ce la faccio più a continuare a scrivere di queste torture che ho subito...» «Dimenticavo: le prime volte che mi hanno torturato, bestemmiavano contro di me e contro l'Italia, perché mi ha dato asilo politico. Mi dicevano: è l'Italia che ti ha consegnato all'Egitto. E dall'Italia nessuno è venuto a liberarti da queste torture...».


 


La procura di Milano insieme all'ex capo del Sismi vuole processare anche sei agenti. Gli altri provvedimenti riguardano 007 della Cia e il giornalista Renato Farina.


Abu Omar, chiesto rinvio a giudizio per Pollari e altre 34 persone


Per trentadue indagati l'accusa è di concorso in sequestro di persona

Solidarietà da Berlusconi: "Il generale merita la riconoscenza di tutti"


 


MILANO - La procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex direttore del Sismi, Nicolò Pollari, e di altre 34 persone per la vicenda del sequestro dell'ex imam di Milano, Abu Omar. I pubblici ministeri hanno invece proposto l'archiviazione per altri quattro indagati, un giornalista e tre funzionari del Sismi.

Solidarietà a Pollari, "un autentico servitore dello Stato che merita la riconoscenza di tutti quelli che hanno a cuore la sicurezza del Paese", è stata espressa dall'ex presidente del Consiglio. "Il generale Pollari - ha affermato il leader di Forza Italia - ha combattuto il terrorismo come pochi e in prima linea, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti gli italiani. Chiediamo al governo cosa intenda fare per proteggere coloro che come Pollari si sono battuti contro i terroristi, a tutela del buon nome della nostra intelligence e del prestigio internazionale dell'Italia".


repubblica.it

5 dicembre 2006


 


Alla fine della lettura si resta senza parole. E l’indignazione non basta. Un’altra delle tante storiacce che pendono su italiani, brava gente, cosiddetti servitori dello Stato. Quale?


Nella foto, Nicolò Pollari ha accanto Rosa Calipari, la vedova dell’eroico (lui sì) funzionario del Sismi assassinato dagli “amici americani” durante la liberazione di Giuliana Sgrena.

sabato 2 dicembre 2006

Ritratto in nero


Sdoppiamento di impunità


di Sebastiano Messina


la Repubblica 24 novembre 2006


Ci eravamo illusi di aver chiuso il capitolo Previti, al quale andrebbe dedicata l’aula della commissione Giustizia, visto che per tutta  la scorsa legislatura lì dentro hanno lavorato solo per lui. E invece ci tocca riaprirlo. Perché Previti è unico, inimitabile e insuperabile.


Quando i giudici di Milano lo convocavano per interrogarlo, lui non si presentava mai. «Verrei volentieri – scriveva ogni volta - ma purtroppo ho un inderogabile impegno alla Camera. Era un deputato così coscienzioso da anteporre il suo dovere di rappresentante del popolo ai suoi interessi di imputato.


Ebbene, adesso che in teoria avrebbe tempo libero da vendere - essendo agli arresti domiciliari - è riuscito a fare il bis. Convocato dalla giunta delle elezioni di Montecitorio, che deve decidere sulla sua decadenza da deputato, lui ha risposto che non poteva. «Verrei volentieri – ha fatto sapere - ma purtroppo ho un inderoga bile impegno con i giudici di Milano». E anche stavolta certo è ammirevole, la sua decisione di subordinare gli interessi di parlamentare ai doveri verso la giustizia.

Però, certo, nessuno riesce mai a interrogarlo: da imputato faceva il deputato, da deputato fa l’imputato. Un classico caso di sdoppiamento dell’impunità.


Il “bonsai” (nome della rubrica) di Sebastiano Messina, è eccellente nel delineare il ritratto di un personaggio mediocre e privo di coscienza. Intingendo la penna (come si sarebbe detto una volta) nel calamaio della satira, Messina raggiunge perfettamente l’obiettivo. Non solo, ma questo pezzo mi pare il degno complemento dell’inarrivabile non-intervista col pregiudicato che Stefano Mario Bianchi ha realizzato per “Annozero” e andata in onda ieri sera. Come si fa a non disprezzare Cesare Previti?