sabato 27 febbraio 2010

Tutta mia la città










Qui non servono parole, se non quelle necessarie per smentire le consuete bugie del papi e della sua cricca di servitori e trombettieri. A parlare sono, invece, immagini: dell’inchiesta (un’altra ottima prova di giornalismo) condotta dalla squadra di “Presa diretta”; dei cittadini aquilani che hanno deciso di forzare i tempi, di non indugiare più, di farsi carico della poderosa opera di rimozione dall’immaginario collettivo che il papi abbia compiuto l’ennesimo miracolo, come la vulgata del popolo della libertà provvisoria proclama. E poi ci sono i blog:




quello direi storico di MissKappa (da cui ho tratto l'ultimo video intitolato "Pezzi di città") che ho iniziato a seguire dopo il terremoto, gestito da una donna battagliera e libera e un altro scoperto da poco il cui autore, Federico D'Orazio,








un altro aquilano che vuol riprendere a volare, ha scritto una bella lettera aperta a Michele Santoro per rammaricarsi dell’occasione perduta da “Annozero”. La domenica successiva ci ha pensato Riccardo Iacona a compensare lo squilibrio di spazi e tempi.




Significative poi altre parole, quelle di Maria Luisa Busi, volto notissimo del Tg1, contestata con la sua troupe nel capoluogo abruzzese, dov’era arrivata per realizzare un reportage. La sua colpa? Quella di essere alle dipendenze di un direttore che scodinzola come neppure Bruno Vespa osò fare ai tempi del Caf.


"Quello che posso dire é che io sono qui per fare il mio lavoro onestamente e non posso rispondere, ovviamente, dell'informazione a livello generale che il Tg1 ha fatto nel corso di questi dieci mesi dal terremoto. Posso solo dire che quello che ho visto all'Aquila, in questi giorni con i miei occhi, è molto più grave di come talvolta è stato rappresentato: migliaia di persone sono ancora in albergo, le case non bastano e la ricostruzione non è partita".


Serve altro?















L’Aquila 10 mesi dopo. Le bugie (tante) e gli interventi (pochi) L’anticipazione


di Riccardo Iacona


 


È da ottobre che Presa diretta sta seguendo la ricostruzione all’Aquila e domani sera vi faremo vedere quello che abbiamo trovato e quello che abbiamo scoperto. Vi dico subito che il quadro non è per niente positivo. Del Progetto C.A.S.E. - le famose «case di Berlusconi» che abbiamo visto nelle decine di consegne in diretta televisiva, corredate di tutto quello che serve per riprendere a vivere, dalla lavastoviglie al televisore al plasma - a quasi un anno dal terremoto ne mancano ancora 250 da consegnare. Per quelle centinaia di persone che sono ancora in attesa che i lavori finiscano il famoso slogan «dalle tende alle case!» non ha funzionato. Presa diretta vi farà vedere anche quanto sono costate: dai 2400 ai 2700 euro a metro quadro, una fortuna! E infatti quasi tutto il miliardo di euro messo in campo dal governo per la prima emergenza se n’è andato per costruirle. Poi ci sono i soldi per mantenerle, che nessuno calcola mai. Il Comune dell’Aquila, che è praticamente senza un euro in cassa, dovrà sobbarcarsi le spese di gestione delle 19 new town volute dal governo, dagli autobus, alla raccolta dell’immondizia, oltre a tutte le spese di manutenzione ordinaria e straordinarie di case che sono state costruite in pochissimi mesi e che non sono proprio perfette.


Siamo entrati per esempio con le telecamere nelle case di Cese di Preturo, uno dei diciannove insediamenti che si trova a una quindicina di chilometri dal centro dell’Aquila. Il cantiere non era ancora terminato ma mano a mano che venivano finiti gli appartamenti venivano immediatamente consegnati: era novembre, l’inverno era già arrivato all’Aquila con le prime nevicate e c’era urgenza di tirare fuori la gente dalle tende, sì, perché anche questo abbiamo visto, la gente ancora nelle tende, con gli anziani e i bambini in pieno inverno. Abbiamo accompagnato dentro le nuove case queste persone stremate da sette mesi nelle tendopoli, con i bagni da campo, le docce da campo, la cucina da campo e lo spazio privato ridotto a quindici metri quadri di tenda, dove ci devi far entrare tutto, anche un simulacro di spazio dove far giocare i bambini. E li abbiamo visti piangere mentre prendevano possesso degli appartamenti. Ma poi ci sono venuti incontro quelli che già ci abitavano da qualche settimana e ci hanno fatto vedere il legno esterno non adeguatamente protetto. «Questi reggono un inverno e poi bisognerà passarci sopra qualcosa altrimenti con il freddo si spacca», mentre da una delle scale interne, per la mancanza di una copertura sul tetto scendeva una cascata d’acqua che entrava persino dentro gli appartamenti. È chiaro che ci vorranno ancora tanti soldi per mantenere le nuove case e mi domando da dove usciranno visto che il Comune è al verde. Poi mancano ancora 1500 tra MAP e MAR, quasi la metà di quelli previsti, per più di 3000 persone: sono i prefabbricati leggeri in legno, che la Protezione Civile sta facendo costruire in fretta e furia perché le case di Berlusconi non bastano. Ne ho visti anche su due piani, vere e proprie palazzine in legno, anche molto belle da vedere. Sono facili da costruire, da montare, sono antisismici al cento per cento, perfettamente coibentati ed ecocompatibili e dentro hanno tutto quello che c’è negli appartamenti delle case di Berlusconi. E soprattutto una volta terminato l’uso si buttano anche giù facilmente. Le case prefabbricate in legno costano un terzo di quelle del progetto C.A.S.E.: 700 euro a metro quadro contro i 2700 che sono costate le case di Berlusconi.


L’architetto Antonio Perrotti, dirigente della regione Abruzzo ha calcolato che se all’Aquila si fosse scelto di sistemare tutti gli sfollati in questi tipi di alloggi a quest’ora sarebbero già tutti dentro i MAP e i MAR, e si sarebbe speso la metà di quello che si è speso. E invece sono ancora 10.028 gli «aquilani perduti», dispersi tra gli alberghi della costa, negli appartamenti affittati, i più fortunati nelle seconde case. Ed è del tutto evidente che è dal loro ritorno che dipende il futuro dell’Aquila. E qui entriamo nel capitolo dolente della ricostruzione: a quasi un anno dal terremoto non è stata ancora emanata l’ordinanza per la ricostruzione del centro storico e a parte qualche puntellamento niente è stato fatto dentro la città dell’Aquila. Anche se sono centinaia, come vi faremo vedere, le abitazioni che con poca spesa sarebbero potute essere oggi abitabili. Per quanto riguarda invece le case che sono fuori della zona rossa, per colpa di ordinanze contraddittorie e di una farraginosa macchina burocratica, la gran parte dei cittadini sta ancora aspettando la risposta alle richieste di finanziamento e di fatto i lavori non sono ancora cominciati. Infine mancano i soldi per sostenere l’economia aquilana: non è stato varato un piano di sostegno al commercio e neanche alla piccola e media industria. La battaglia per far tornare le persone e tenerle attaccate alla loro città, la battaglia per far rivivere l’Aquila è ancora tutta da cominciare.


(20 febbraio 2010)


 

















IN CHE MANI SIAMO (lettera aperta a Michele Santoro)


 


 


Ci ho messo quattro giorni per prepararmi, e due per riprendermi dal colpo. Nel giorno di massima attenzione verso noi Aquilani, quando abbiamo rialzato la testa e sfondato le barriere del centro storico, c’erano tutti quelli che da 11 mesi a questa parte avrebbero dovuto esserci,e mancando invece ogni volta l’appuntamento. Quel giorno, nella rappresentanza RAI c’era quello che per me rappresentava la luce in fondo al tunnel: la troupe di Annozero. Eravamo pittoreschi, coi nostri cartelloni appesi, tutti con le telecamere e macchinette digitali per riprenderci da soli, abituati come siamo a fare tutto nell’oscuramento mediatico che ci sta soffocando. Eravamo incazzati. I ragazzi di Annozero, ci hanno notati,ed hanno voluto parlare con noi. Abbiamo programmato e realizzato con loro interviste durate ore, c’è chi ha condotto visite non autorizzate in zona rossa a rischio suo e della propria fedina penale. Lo abbiamo fatto tutti perché la cosa più importante è L’Aquila, ed in questi mesi abbiamo saputo rivedere, inconsapevolmente, priorità ritenute prima di un anno fa imprescindibili.


Ai ragazzi di Annozero, abbiamo raccontato i nostri fatti più privati, perché eravamo e siamo tutt’ora convinti che se non si vivono certe situazioni non le si può comprendere. Ma raccontarle nel più minimo dei dettagli può aiutare a farsi un’idea. Purtroppo, il risultato è stato sconsolante. La mannaia dell’opportunismo si è abbattuta su di noi, anche da chi non avrei mai creduto potesse farlo. L’Aquila, ad Annozero, si è ridotta ad un insulso collegamento dalla zona rossa, in un’area che per noi comuni mortali è inaccessibile, perché questo era il disegno previsto. Sfruttarla come scenografia, far immaginare un centro vuoto, disabitato, crollato. E proprio perché è davvero così, ci risulta incomprensibile la ragione che ha spinto ad escludere da questa rappresentazione pittorica, l’elemento più importante. NOI. Gli Aquilani. Gente che non ne può più di sentir dire cose sul conto della nostra città da chi non vi ha mai messo piede, né prima, né dopo il 6 Aprile.


Per fare un esempio, quando ero in studio ad Annozero, e rigorosamente tra quelli del pubblico non parlante, non ho idea di cosa mi abbia trattenuto: Il direttore Belpietro, ha enunciato con la nettezza di chi ha appena parlato con uno dei responsabili della Ricostruzione, che


il centro dell’Aquila andrà abbattuto e ricostruito con criteri antisismici”


Quella è stata la prima occasione in cui ho dimostrato a me stesso di essere una persona molto più civile di quanto credessi. Gli Aquilani, non vogliono più sentir paragonare le loro case, le Chiese, la città tutta ad un immenso paesaggio di cartone. Precario. Sia fatta una distinzione netta tra quello che precario era per speculazione edilizia, lucro personale e politico degli ultimi decenni, e tutto il resto della città. Non fare questa distinzione a quasi un anno dal terremoto è forse il segno più preoccupante di tutta la vicenda che ci riguarda. E dimostra che non c’è assolutamente nessuna volontà politica e giornalistica, tra quelle enunciate finora, di fare chiarezza e per una buona volta pulizia.


Si rischia oggi, di vedere un centro storico abbandonato a se stesso che dovrà essere ricostruito con il nostro finanziamento, visto che da Luglio pagheremo le tasse. E nemmeno di questo, nessuno che si scandalizzi, nessuno che si adoperi a costo della propria carriera politica o professionale, per condurre un ‘operazione di verità. Gli Aquilani giovedì scorso hanno visto la loro città dalla televisione, esclusi ad ogni livello dalla partecipazione a quello che, vanamente, avevamo creduto fosse il momento del nostro riscatto.


Per di più, ed è questa la nota più grave, una trasmissione di quasi tre ore si è limitata a dibattere delle intercettazioni già note dalla settimana prima, che noi tutti avevamo già letto dai giornali. Non una parola sulle ragioni vere che hanno spinto i magistrati ad iscrivere Guido Bertolaso nel registro degli indagati, ovvero l’ipotesi di corruzione. Più succoso, anche per Annozero, si è rivelato l’argomento dei presunti favori sessuali che coinvolgerebbero il capo della PC. Per argomenti di questa debolezza, abbiamo dovuto veder dedicate 3 ore di prima serata, con approfondimenti fino al più squallido dei dettagli.


L’Aquila, nella vicenda, aveva da offrire altro che il suo corpo colpito a morte.Argomenti forti, forse troppo persino per Santoro. Ne cito solo alcuni, per i quali pretendiamo da mesi (inascoltati) attenzione. Ricostruzione mai partita, quasi un miliardo di Euro buttato per assistere solo il 20% della popolazione colpita, pregiudicando seriamente la disponibilità finanziaria da dedicare alla VERA ricostruzione, appalti a dir poco gelatinosi in ogni aspetto di quanto fatto fino ad oggi: ponteggi, Progetto CASE, persino le coperture dei tetti in centro storico pare abbiano dei segreti inconfessabili.


E noi che speravamo si parlasse di questo, cose che abbiamo documentato alla troupe che è rimasta qui per tre giorni, sprecando il nostro tempo per fornire dati, suggerire storie degne di nota, cercare riscontri obiettivi a quanto raccontavamo loro…noi che sostanzialmente abbiamo fatto il loro lavoro, conducendo inchieste solitarie e sperando che volessero almeno raccontarne i risultati emersi, abbiamo fatto un’opera inutile.


C’era altro da fare per Annozero.


C’era da immaginare Bertolaso che si intratteneva in ambigui massaggi alla cervicale, c’era da immaginare mutandine brasiliane e preservativi, e calici di champagne.


Santoro, perché?


Santoro, lei avrebbe potuto far vedere cose davvero scandalose, che noi conosciamo,e lei ora,grazie a noi conosce. Ha preferito far immaginare cose infinitamente meno volgari di quelle che noi viviamo da un anno ormai a questa parte. Aspetto il risarcimento che mi ha promesso in studio, quando le ho detto la mia approfittando,a fine diretta, dell’ira dei ragazzi messinesi -venuti per parlare in trasmissione- e che non hanno trovato spazio per raccontare i loro scandali sulla PC. A L’Aquila ci sono molti, me compreso, desiderosi di confrontarsi alla pari (e non nei due minuti riservati al pubblico) con chi tra giornalisti, politici e prelati ha ancora voglia di difendere la facciata che nasconde gli scandali accaduti fino ad oggi a L’Aquila, sulla nostra pelle. Perché si inizi a dire la verità. Michele Santoro è disponibile a farlo?


Finche ciò non avverrà resteremo, tutti quì a L’Aquila, della nostra idea.


Continuando a domandarci alla sera, nelle nostre


case,


casette,


M.A.P.,


roulotte,


camper,


camere d’albergo


e letti di caserma:


in che mani siamo?


FEDERICO D’ORAZIO


(20 febbraio 2010)








 





 



 


 







martedì 23 febbraio 2010

L'ultima campanella







“In un paese civile dopo la messa in onda di “Presa diretta” ci sarebbero state reazioni infuocate in Parlamento (ma l’opposizione è andata al Festival di Sanremo), pressioni sul ministero, e magari qualcuno avrebbe provveduto a rifornire di gasolio la caldaia bloccata dai tagli indecenti”.


E invece nulla di tutto questo è accaduto, anzi la tv ha impiegato larga parte del suo tempo ad informarci sullo sventurato Morgan, sui guai del gastronomo che ha dichiarato di aver mangiato i gatti, fornendo pure la ricetta e che per questo è stato allontanato dalla trasmissione a cui partecipava. Tacendo, per carità di patria, sui pomeriggi dove la spazzatura mediatica tracima dal video (e che il buon “Blob” testimonia ogni sera).


Insomma se questo delirio di arroganza, idiozia e stupidità conferma come l’istruzione dovrebbe essere salvaguardata, la scuola invece ne esce a pezzi. Si pensi solo per un attimo a quali risultati si potrebbe piuttosto arrivare se s’invertissero spazi e tempi. Se nei pomeriggi italiani, per esempio dopo l’esemplare inchiesta condotta da Riccardo Iacona e dal suo staff, si fosse discusso di quelle immagini, di quelle testimonianze raccolte. Immaginato? Perché l’attimo è già passato e la conclusione è che non siamo, appunto, un paese civile. Una conferma in più, purtroppo.


Gli articoli che seguono sono dello stesso Iacona, prima e dopo la trasmissione, l’editoriale di Antonio Padellaro (il virgolettato è suo) e un altro pezzo de “il Fatto Quotidiano” a commento dell’ottima prova di giornalismo ammirata domenica 14 febbraio. Che si è poi ripetuta una settimana più tardi. Ma di questo parleremo successivamente.













«Presadiretta» sul disastro della scuola


di Riccardo Iacona


 


Pia Blandano preside dell’istituto comprensivo «Antonio Ugo» nel quartiere della Zisa di Palermo, una scuola dove ci sono elementari e medie, accoglie le telecamere di Presa diretta armata di un foglietto bianco e di una matita. E segna sul foglio i tanti «meno», dovuti ai tagli alle cattedre, con cui ha incominciato l’anno scolastico: «Quest’anno i ragazzi avranno meno due ore di inglese, meno un’ora di francese, meno un’ora di tecnologia, meno un’ora di informatica, meno un’ora d’arte, meno un’ora di musica, meno un’ora di educazione fisica». La scuola «Antonio Ugo» è in uno stato pietoso: fuori ci sono vecchie impalcature arrugginite mai tolte da quasi vent’anni, dentro, in corrispondenza dei tubi del riscaldamento, ci sono infiltrazioni d’acqua, su cui nessuno ha messo mano. Non si vernicia la scuola da anni e molte sono le porte sfondate. Mancano persino


le sedie. Dopo tanto la Provincia ne ha mandate un po’, ma troppo grandi. La preside le ha tenute lo stesso. I bambini fanno lezione con il cappotto e il cappellino di lana perché manca il riscaldamento in classe e a pranzo si portano il panino da casa perché non c’è la mensa. E siccome i tagli sono spalmati su tre anni «la situazione può solo peggiorare» ci dice la preside. A un anno e mezzo dalla riforma Gelmini la situazione della scuola pubblica che stasera vedrete su Raitre con Presa diretta è tutta sotto il segno «meno» dal Nord al Sud: nelle elementari dove persino il tempo pieno non si riesce più a garantire, nelle casse vuote degli istituti, dove mancano i soldi per il funzionamento ordinario e per pagare supplenti e insegnanti di sostegno, nell’organico di docenti e amministrativi che quest’anno ha visto la drammatica esclusione di migliaia di precari. «Non ci sarà nessun taglio alla scuola. Dalla sinistra messaggi falsi e inutili allarmismi», aveva detto Berlusconi nell’ottobre del 2008.


(14 febbraio 2010)


 








I tagli e i furti


di Antonio Padellaro


 


Guardando domenica sera su RaiTre l’impressionante “Presa diretta” di Riccardo Iacona, dedicata allo sfacelo della scuola italiana ci veniva in mente Tangentopoli.Ricordavamo, infatti, che una delle scintille che accesero l’incendio fu l’aver costretto una moltitudine di anziani spossati a lunghe file agli sportelli per pagare un balzello sanitario escogitato dall’allora ministro De Lorenzo. Dopo di allora gli arresti di Mani Pulite apparvero a molti come una legge del contrappasso rispetto a un potere intollerabilmente osceno e rapace. Poiché se alle ruberie della politica (ormai una sorta di tassa fissa) si aggiungono in sovrappiù piccole e grandi vessazioni, o si fanno vivere le persone in uno stato di mortificazione permanente e di abbandono, ecco che allora può succedere tutto. Di esseri umani esasperati Iacona ce ne ha mostrati davvero troppi. L’insegnante condannata alla disoccupazione che straccia il diploma di laurea. Il volto di pietra dei colleghi che hanno buttato una vita nei concorsi e nelle attese. La preside della scuola (pubblica) palermitana costretta a raccogliere “contributi volontari” tra le famiglie degli alunni per tirare avanti. Il grottesco pellegrinaggio degli studenti dell’istituto nautico messinese in cerca di aule. Ma l’immagine che non può essere sopportata è quella dei bimbi di un asilo, imbacuccati e tremanti, stipati dentro uno stanzone privo di riscaldamento. Che razza di gentaglia permette tutto ciò? Vorremmo conoscerli, vedere che faccia hanno questi “amministratori” della cosa pubblica e i loro degni funzionari. Del ministro della Pubblica istruzione neanche a parlarne. Il portavoce a cui ci siamo rivolti dopo aver attraversato la linea maginot di filtri e centralini vari non ha dato segni di vita. Si sa, costoro usano la televisione solo per pavoneggiarsi o per biascicare inutili comunicati. In un paese civile dopo la messa in onda di “Presa diretta” ci sarebbero state reazioni infuocate in Parlamento (ma l’opposizione è andata al Festival di Sanremo), pressioni sul ministero, e magari qualcuno avrebbe provveduto a rifornire di gasolio la caldaia bloccata dai tagli indecenti. Ecco appunto: i tagli. Come si fa a giustificare davanti ai cittadini una politica di risparmi che colpisce una spesa indispensabile come quella scolastica? Quando dalle inchieste della magistratura si apprende che la stessa cura parsimoniosa non si applica al monte tangenti che, secondo la Corte dei Conti, ci costa 60 miliardi l’anno. A tanto infatti ammonta la “tassa occulta” pagata dai contribuenti come pedaggio della corruzione dilagante. E con 60 miliardi quante scuole possono essere riscaldate? Quando lo capiranno che la gente non ne può più dei ladri e dei profittatori?


(16 febbraio 2010)


 




La passione che resta. Nonostante tutto...


Ho ricevuto mail da docenti che non si arrendono. «Vi prego a nome dei bimbi disabili, a nome dei precari, a nome delle famiglie: continuate a parlare


 


IL GIORNO DOPO


di  Riccardo Iacona


Non sto a dirvi quali danni sta arrecando ai bambini l’eliminazione delle compresenze, che non erano utilizzate per “passeggiare nei corridoi” ma per recuperare i bambini che avevano difficoltà di apprendimento...» – mi scrive Graziella, insegnante precaria di Palermo da 14 anni, il giorno dopo la messa in onda della puntata sulla scuola.


Poi ci scrive Giuseppina, che insegna a Torino nella scuola primaria “Don Milani” : «Si rendono conto i governanti che stanno sperimentando su materiale umano, che i ragazzi ed i giovani non sono documenti, che in caso di errore, possono essere riscritti e che le inadempienze e le superficialità provocano danni irreversibili?». Poi c’e’ Mariangela, docente di sostegno precaria che lavora nelle Marche: «Vi prego a nome dei bimbi disabili, a nome dei precari, a nome delle famiglie: continuate a parlare di scuola! Perché l’istruzione entra nei gangli della vita delle persone e le forma a tal punto da cambiare i connotati di una società!». Questa è la seconda volta che ci buttiamo con le telecamere di Presa diretta nel mondo della scuola e ancora una volta rimango stupito dalla passione che anima il lavoro nelle scuole pubbliche italiane. Passione vera e per questo accompagnata da una grande preoccupazione per quello che sta succedendo. Ed è in nome di questa passione che gli operatori la scuola la mandano avanti lo stesso, anche con pochi pennarelli e senza soldi nelle casse. «Il volontariato ormai è la nostra condizione quotidiana», – mi scrive Rossella un insegnante di filosofia e storia al liceo classico-linguistico di Lugo in provincia di Ravenna. «Cosa ci rimane? La nostra passione, quella stessa dedizione che porta un anonimo insegnante di provincia a guidare i propri alunni verso la vittoria alle olimpiadi di matematica senza strumenti e risorse. Non voglio neanche immaginare che cosa potrebbe fare se disponesse di qualche strumento in più!».


È talmente forte lo spirito di servizio che guida i professori come Rossella da non accorgersi che, a furia di tagli, la scuola gli sta sparendo sotto gli occhi. C’è infatti una soglia sotto la quale i tagli diventano uno spreco, perché «ammazzano» il servizio: quando in una scuola ho tagliato tutto il «tagliabile» – i soldi per i supplenti, il materiale didattico, i laboratori, una palestra degna di questo nome, gli insegnanti di sostegno e persino il riscaldamento – alla fine non c’è più la scuola. Sì, le teniamo aperte, ma il servizio che offrono è inaccettabile per un Paese del primo mondo come il nostro. I professori possono anche non accorgersene, i governanti no. Perché la posta in gioco è il futuro del paese, come ci ricorda Fernando che ha scritto la sua e-mail di getto, un minuto dopo la fine della messa in onda: «Un paese che non è in grado di garantire condizioni accettabili di studio ai suoi giovani è un paese fallito!».


(16 febbraio 2010)


 


 


ISTRUZIONE? Dopo la denuncia Tv di “Presa diretta”


Muri che cadono, bimbi al gelo. Soldi per tangenti, non per le scuole


SOPRAVVIVERE A SCUOLA


Al freddo, senza sedie e con l’intonaco che cade. Ecco la fotografia dell’abbandono


di Silvia D’Onghia


 


Beatrice ogni mattina porta a scuola sua figlia Federica, tre anni e mezzo. Scuola materna statale in un popolare quartiere romano. Classe “mista”: insieme bambini dai tre ai (quasi) cinque anni, con buona pace dei diversi livelli di apprendimento. All’inizio dell’anno, le maestre hanno chiesto a Beatrice e a tutte le altre mamme un “contributo” alle attività: matite, pennarelli, risme di carta, forbici, quaderni e l’ormai simbolica carta igienica. Le maestre sono soltanto due per 24 bambini: fanno i turni e, quando una delle due si ammala, i bambini vengono presi e smistati nelle altre classi (tra urla e strepiti). La classe di Federica è al piano terra di una struttura che ospita anche le elementari: all’interno dell’aula, oltre ai banchi e alle sedioline, anche una mini-cucina per bambini, qualche giocattolo e pochi libri. Le luci al neon sul soffitto si rompono spesso, ma passano mesi prima che la scuola abbia i soldi per mandare un elettricista a cambiarle. Così capita che Federica e gli altri 23 bambini rimangano quasi al buio. A Beatrice e agli altri genitori viene chiesto spesso di contribuire alle “spese vive ”: l’acquisto di libri o di oggetti utili alla didattica o gli spettacoli teatrali all’interno della scuola. Ma Beatrice sa di essere fortunata: Federica ha ottenuto il tempo pieno e, al di là di bicchiere e tovaglietta che si devono portare da casa, il pranzo è “offerto” dal ministro Gelmini. 42 euro al mese e passa la paura. Una condizione da privilegiati se si pensa al resto della scuola italiana. Come ha documentato “Presa diretta” domenica sera su RaiTre, la scuola italiana cade a pezzi. Altro che riforma.


La prossima settimana Legambiente presenterà i nuovi risultati di “Ecosistema scuola” per il 2010, ma – anche stando a quelli 2009 – l’esito è abbastanza catastrofico. Oltre la metà degli edifici, secondo i dati forniti da 95 amministrazioni comunali e 62 provinciali, ha più di 35 anni e ben il 38 per cento ha urgente necessità di manutenzione. Se questi dati si incrociano con quelli forniti da Cittadinanzattiva nel rapporto su sicurezza, qualità e comfort, il 54 per cento delle 106 scuole analizzate si trova in zone a rischio sismico, il 26 per cento a rischio idrogeologico, il 7 per cento a rischio industriale. E Legambiente sostiene che quasi nel 12 per cento degli istituti è certificata la presenza di amianto.


Per come sono messi gli immobili, è quasi un miracolo che nel 2008 ci siano stati “soltanto” 92.060 infortuni a studenti e 13.879 a insegnanti. Ovunque, sono caduti finestre (il 29 per cento non è integro), solai, tetti e controsoffitti: nel 17 per cento delle aule si sono verificati distacchi di intonaco, la difformità del pavimento arriva al 16 per cento, prese o interruttori rotti raggiungono il 29 per cento. Oltre la metà di armadi e librerie non è ancorato alle pareti. Certo, le prove di evacuazione si fanno ovunque, ma per quelle non servono i soldi del ministero. Riccardo Iacona ha documentato scuole senza riscaldamento (con bambini dell’asilo che tengono cappotti e cappelli in classe) e senza sedie, che, quando ci sono, sono quasi sempre danneggiate.


Per non parlare dell’igiene: mentre trionfano le campagne di prevenzione dell’influenza (mascherine e gel anti batterici quest’anno sono andati a ruba), gli studenti italiani non hanno né il sapone (che manca nel 60 per cento degli istituti presi in esame da Cittadinanzattiva), né la carta igienica (44 per cento) nei bagni. E, in seguito a una circolare ministeriale del dicembre scorso, i sindacati hanno denunciato il taglio del 25 per cento del personale addetto alle pulizie. Ovvero 2.500 persone. Meno lavoro, più sporcizia.


Certo le scuole non sono tutte così. Gli studenti di Prato, Biella e Terni sono fortunati: i loro edifici sono per lo più nuovi, sono dotati di certificazioni di sicurezza e sfruttano le energie rinnovabili. Alcune hanno addirittura sistemi di recupero delle acque piovane per l’impianto antincendio. Ma non diciamolo ai loro compagni messinesi o trevigiani, che magari l’acqua piovana ce l’hanno in classe, per le infiltrazioni dal soffitto fatiscente.


Di fronte a tutto questo il ministro Mariastella Gelmini, che nelle scorse settimane ha continuato a difendere la riforma che porta il suo nome, non parla. Ieri Il Fatto ha provato a realizzare un’intervista con lei, consapevole delle difficoltà di una donna agli ultimi mesi di gravidanza. Eppure dal ministero non è arrivata alcuna risposta, neanche un diniego. Ci è stato detto che la richiesta era stata inoltrata al portavoce del ministro, il quale ci avrebbe sicuramente fatto sapere qualcosa. Siamo ancora in attesa.


(16 febbraio 2010)


 





 





lunedì 15 febbraio 2010

Il pericolo numero 1






Così adesso c’è in circolazione questo volume agiografico sul papi. Un ulteriore passo in avanti verso la beatificazione: primo santo proclamato tale non in limine mortis, ma ancora vivente come parodia umana.


Tragico e ridicolo nello stesso tempo questo periodo che attraversiamo. Tragico per coloro che, come me, ormai disprezzano lui e si suoi servi; ridicolo per le esternazioni, i comportamenti, il potere anche che esercita su menti ormai obnubilate e svuotate di qualunque reattività. E vorrei vedere con tutti i giorni che dio manda in terra a subire in stato catatonico gli amici di Maria, i grandi fratelli e le puttanate eruttate in dosi sempre più massicce.


Stento, tuttora, a trovare anche un minimo brandello di spiegazione plausibile che almeno mi illumini, facendomi intravedere il motivo di ciò che dobbiamo subire. Che so: peccati lontani non scontati a sufficienza, stile di vita sregolato, stupidità acquisita per troppa masturbazione (in luogo della cecità minacciata). Nulla. Eppure quando sto per arrendermi all’assurdità che ha posto questo vecchietto alla guida di un Paese ormai in declino, riesco a trovare un filo rosso che può aiutare nell’opera di comprensione. Non certo a risolvere, ma forse a farsene una ragione sì.


Così dopo il libro, che Marco Giusti commenta con il rigore e la serietà che la circostanza esige, trovo un articolo sull’alfabetizzazione e di come questa stia crescendo nel mondo e, dunque, anche in Italia. L’articolo è del 2008, ma mi si permetta di dubitare fortemente che la situazione possa essere migliorata, soprattutto dopo aver visto l’ennesima ottima inchiesta di Riccardo Iacona sul fallimento della scuola italiana (nei ringraziamenti non si trascurino la somara unica e Treconti o giù di lì). E allora si rafforza un personale convinzione, vale a dire che si renderebbe necessaria l’abilitazione al voto, non determinata esclusivamente dalla cittadinanza e dalla maggiore età. Una patente, da rinnovare con test periodici. Perché poi non sarà certo un caso che il volume della Peruzzo, raffinata casa editrice di cazzate, sia riempito al 90% di foto che anche gli analfabeti capiscono.


A chiudere la trilogia, un pezzo di Massimo Fini che conferma un’altra convinzione: la vergogna, anche da parte degli stessi analfabeti di ritorno, di palesare pubblicamente di aver messo la croce sul nome del papi. Anche perché quella croce pesa addosso a tutti. E, come cantavano i Rokes: “Ma che colpa abbiamo noi”.


 


 


 


 


* COMMENTO   |   di Marco Giusti


      ALBUM FOTOGRAFICO


      Crea e colleziona il tuo Silvio


 


      No. Non possiamo non averlo. Noi amiamo Silvio, come recita la copertina «l'esclusivo libro fotografico, realizzato con le più belle immagini a colori degli eventi storici che hanno visto protagonista il nostro presidente del consiglio Silvio Berlusconi», ci mostra come lui vorrebbe che noi lo vedessimo. Immagine purissima del nostro (verde) amore (bianco) per lui (rosso), dove grazie a Photoshop, lucido, pieno di capelli, è un personaggio senza ombre e senza memoria che non sia quella dell'eterno presente. Altro che Avatar. È un oggetto imperdibile, quasi d'arte, pronto a essere esposto nel Padiglione Italia curato da Vittorio Sgarbi della prossima Biennale.


      O da sistemare assieme alle memorabilia di Mao, Saddam, Ceausescu. Da collezionare, insomma. Del resto l'editore del volume, Alberto Peruzzo, amico e fan di Berlusconi assieme alla moglie Clara, che lui stesso definisce «musa e ispiratrice del libro», è specializzato proprio nei «collezionabili» da edicola, opuscolo fotografico e oggetto da conservare.


      Tra i suoi capolavori: Crea e colleziona le tue candele, con annesse candele, e Insetti. Il primo numero era dedicato alla «Vespa assassina», con la vespa stecchita in allegato. Sapendolo, i ragazzacci in rete hanno stilato elenchi di oggetti da allegare a Noi amiamo Silvio. Vanno da «la maschera di Materazzi» a «il kit del Duomo di Milano in miniatura più trucco e bende per simulare le ferite». Ma l'acquisto può anche garantire il «legittimo impedimento da usare in una causa a tua scelta» o il manuale «1001 modi per evitare un processo». Già definito, in rete, «Muccino al suo apice», «un libro ad personam», «50 pagine di morbidezza», va detto che rispetto al pur notevole Una storia italiana, che ci mandò gratis a casa, questo, venduto a 9, 90 euro, è un passo avanti verso la canonizzazione di Berlusconi. C'è perfino un Credo iniziale: «Noi crediamo nella libertà di impresa, nella libertà di mercato, regolata da norme certe, chiare e uguali per tutti. Ma la libertà non è graziosamente concessa dallo Stato, perché è ad esso anteriore, viene prima dello Stato. È un diritto naturale, che ci appartiene in quanto esseri umani e che semmai, essa sì, fonda lo Stato». Poi una divisione del suo percorso angelico in nove «stazioni», grazie alle quali seguiamo non la sua vita ma solo i trionfi e le glorificazioni. Santini dove compie miracoli, ricuce i rapporti tra Russia e America, stringe la mano a Gheddafi, vince sul terremoto. Diventa partigiano, soldato, Dr. House. Fino all'apoteosi mistica finale.


      Ribattezzato «Noi amiamo Silvio e anche il Photoshop» è ovvio che ogni foto sia frutto di ritocchi che mostrano folle osannanti anche dove non ci sono (nella foto di Piazza Duomo gli hanno aggiunto un mazzo di fiori!), e capelli di ogni tipo e colore. Per non parlare della faccia, con tonalità tra il salmone e il prugna scuro. Peruzzo ha ammesso che lo stesso Berlusconi ha chiesto i ritocchi. «La gente - ha detto - è abituato a vederlo in un certo modo e magari senza quegli accorgimenti non l'avrebbe riconosciuto». E chi poteva essere, Spiderman?


      L'opera esce mentre trionfa Avatar, in tv vanno forti le vite dei santi (Sant'Agostino) e nei negozi si vende il videogioco Dante's Inferno che si prende un bel po' di libertà con angeli e diavoli. Puro libro di santificazione, senza l'ombra di barzellette e di escort, non lo mostra mai assieme a una donna. Scompare anche Veronica. Come se non esistesse una sua vita sessuale. Nella «stazione» 8, che racchiude «Televisione Governo e Famiglia», per lui sono la stessa cosa, è ritratto assieme ai figli. Il solo amico è Felice Confalonieri. Li vediamo a pesca in barca come fossero Jack Lemmon e Walter Matthau. In questo nuovo Paradiso Italiano, il mondo della tv non è fatto solo da Mediaset, ma da Rai&Mediaset, fuse assieme per la sua gloria. Così riscrive la storia televisiva, la nostra non solo la sua, da padrone e creatore di tutto il visibile. Perfino della nostra memoria.


      La foto di apertura lo mostra assieme ai due martiri Rai, Pippo Baudo e Raffaella Carrà, che firmano il loro passaggio a Mediaset. Lui ha un folto capello nero in testa goffamente disegnato. Le foto di oggi lo ritraggono a Porta a porta accanto a Bruno Vespa. Quello è il presente da ricordare. Il suo passato televisivo è composto da vecchie foto sbiadite dove, plastificato e con peluria versione 2000, si stringe a zombi del passato: Mike, Funari, Biscardi. Solo con Iva Zanicchi si mostra coi suoi veri capelli. In una foto del 1982 sul set di Premiatissima lo vediamo davanti a fantasmi della tv, Johnny Dorelli, Gianfranco D'Angelo, Gigi e Andrea.


      I politici non sono trattati meglio. Pesantissimo è il ritocco dei capelli nella foto con Bettino Craxi, mentre è più a suo agio con Indro Montanelli, Gianni Agnelli e Massimo D'Alema, unico politico dell'opposizione che goda di una citazione. Per il resto, Casini è scomparso, idem i colonnelli vecchi e giovani di Forza Italia. Via Bondi, Cicchitto, Ghedini, La Russa. Ma Giovanardi, Ronchi e la Meloni sono ripresi senza pietà accanto a un lui ricolorato. Un po' meglio la foto con Letta e Schifani e, ovviamente, quella con Bossi e Fini. A Fini spetta un paginone uguale a quello dove incontra Ratzinger (di Wojtyla non c'è traccia).


      Obama è trattato pure peggio. Lo vediamo quasi sempre di spalle. Tutto è studiato per la costruzione dell'immagine del nostro. Mai di spalle. Mai senza capelli e trucco. Del resto l'immagine che più teme è quella che lo vede in tribunale. Le immagini di Craxi e Forlani incalzati da Di Pietro ne hanno distrutto l'autorevolezza. Berlusconi lo sa e teme quell'immagine forse più del processo stesso. Grazie a Peruzzo Editore, in versione Multimedia, esiste pure uno spot molto visto su Mediaset e su You Tube, dove i ragazzacci ne hanno fatta una versione tarocca, Noi non amiamo Silvio. Probabilmente è lo spot la vera idea mediatica di tutta l'operazione. Come lo è per i «collezionabili» estivi di Peruzzo o Del Prado, che così si assicurano una rapidissima vendita dei primi due-tre numeri delle collane. Grazie allo spot, rilancia la sua campagna elettorale senza esserci, senza apparire nei cartelloni stradali. E senza andare nei rischiosi talk show politici. Che ci vadano Bondi, Lupi e Ghedini. Ma c'è di più. Il ferimento di Tartaglia con il Berlusconi sanguinante e impaurito di Piazza Duomo, immagine esclusa dalle figurine di Peruzzo, deve aver scalfito profondamente il senso di onnipotenza del nostro, al punto che ha sentito il bisogno di un amore di carta e di una riappropriazione mediatica della piazza solo virtuale. Lo fa con i metodi che conosce. Il porta a porta mediatico, da commesso viaggiatore dei collezionabili Peruzzo è uno di questi. Non è detto che non sia il più efficace.

(6 febbraio 2010)


 


 





 


Analfabeti, un popolo in crescita


 


FOCUS ISTRUZIONE E SOCIETÀ *** NEL MONDO SONO OLTRE 750 MILIONI LE PERSONE CHE NON SANNO NÉ LEGGERE NÉ SCRIVERE. DUE TERZI SONO DONNE, 72 MILIONI DI BAMBINI IN ITALIA 782 MILA PERSONE SI SONO DETTE INCAPACI ANCHE DI FARE LA PROPRIA FIRMA, OLTRE 5 MILIONI NON HANNO LA LICENZA ELEMENTARE




Sono quasi sei milioni, altri 13 a rischio. Chi non si esercita va indietro di 5 anni

Tra pochi giorni, 1’8 settembre, 1’Unesco celebra la giornata mondiale per la lotta all’analfabetismo. E subito il pensiero va all’Africa dove si concentra gran parte degli oltre 750 milioni di «illetterati» presenti sulla Terra (due terzi sono donne, 72 milioni di bambini non sono mai andati a scuola). Ma la Giornata ha un senso anche per l’Italia, dove questa è una battaglia tutt’altro che vinta. Anzi, per certi aspetti, è una sfida nuova. Perché accanto al plotone di «vecchi» analfabeti sta nascendo un nuovo esercito di giovani e adulti.


Un magistrato di Firenze, Silvia Garibotti, ha raccontato dei numerosi casi in cui i testimoni non sono in grado di leggere la formula di rito. Attilio Paparazzo, responsabile nazionale Cgil scuola, riferisce che «spesso i bidelli che arrivano in provveditorato per iscriversi nelle graduatorie scolastiche fanno fatica a inserire i propri dati o a leggere il modulo “sono cittadino italiano, dichiaro di aver assolto gli obblighi di leva”». Un esercito, insomma, del quale fanno parte quanti leggono e scrivono in modo talmente limitato da non riuscire a compiere le funzioni di base per essere cittadini a pieno titolo. Perché oggi l’alfabeto non basta più per orientarsi nella vita di tutti i giorni.


C’è chi ha bisogno di un appoggio per compilare un bollettino postale o per capire il senso di un testo anche breve. Basta appostarsi a una qualsiasi stazione ferroviaria per accorgersi di quanti per acquistare il biglietto preferiscono la coda allo sportello piuttosto che seguire le istruzioni di una macchina con tempi d’attesa pari a zero. C’è chi non riesce a scrivere due righe di presentazione per cercare un posto di lavoro. L’Unesco li definisce «analfabeti funzionali»: un terzo degli italiani lo è, secondo alcune ricerche internazionali. E un altro terzo rischia di diventarlo. Sono molti di più dunque rispetto ai «vecchi» analfabeti che l’Istat stima in 782mila. Se però, come ha fatto l’Unla (associazione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo), a questi si aggiungono coloro che hanno frequentato soltanto qualche anno di scuola senza arrivare alla licenza elementare, si arriva a sei milioni di persone.


Non solo. Il presidente storico dell’Unla Saverio Avveduto si spinge oltre, ricordando la regola del «meno cinque»: se le conoscenze acquisite a scuola non vengono utilizzate regrediscono di cinque anni rispetto al livello massimo raggiunto. Ecco così che fra gli analfabeti si può far rientrare buona parte di coloro che si sono fermati alla licenza elementare. E il numero finisce così per sfiorare i 20 milioni di persone: il 36,5% della popolazione, fra chi non è mai andato a scuola e gli analfabeti di ritorno. Un approccio, quello dell’Unla, contestato da più parti (non è detto, si è obiettato, che chi si ferma alle elementari non tenga vive per conto suo le competenze sviluppate) ma nella sostanza «non fallace», secondo il linguista Tullio De Mauro.


Che un terzo della popolazione italiana sia analfabeta è stato confermato anche da due ricerche internazionali che non si basano su autocertificazioni, ma sull’osservazione diretta degli intervistati e delle loro effettive capacità, a prescindere dal livello di istruzione dichiarato. Le hanno condotte Statistic Canada e Ocse, sottoponendo a campioni di popolazione adulta (16-65 anni) questionari graduati: uno preliminare e cinque con difficoltà crescente. Risultato della prima indagine (Ials, International adult literacy studies): quasi il 5% della popolazione italiana adulta non è in grado di affrontare qualsiasi tipo di questionario scritto. Si tratta di due milioni di persone. Il 33% di quelli che rispondono al questionario si ferma al primo gradino della scala di valutazione. Un secondo 33% fa un passo in più nella lettura e comprensione dei testi e raggiunge il secondo livello: abbozza soltanto qualche risposta.


Dalla seconda indagine (All) l’analfabetismo funzionale di ritorno appare dove meno lo si aspetta: fra i laureati (20%) e i diplomati (30%). La stessa indagine indica che meno del 20% degli italiani supera quel livello minimo di capacità alfabetiche che servono a orientarsi in una società moderna, contro percentuali del 50% in Svizzera e Usa, 60% in Canada e 64% in Norvegia. Complice di questa situazione la dispersione scolastica. «Il dato più sconvolgente - spiega Marco Rossi Doria, “maestro di strada” a Napoli e membro della commissione sull’esclusione sociale che sta per consegnare il suo rapporto annuale al Parlamento - è che il 21,9% dei ragazzi tra 16 e i 24, uno su cinque, appartiene agli early school leavers, giovani che non hanno raggiunto una licenza di scuola media superiore né una qualifica professionale». In Europa la media è del 14,9%. E pensare che 1’obiettivo europeo stabilito a Lisbona nel 2000 è che ogni Stato scenda sotto il 10 per cento entro il 2010. «I fallimenti a scuola - spiega Rossi Doria - si concentrano nelle aree del Mezzogiorno dove, a differenza che al (Centro-Nord e in parte della Sardegna, non vengono compensati da iscrizioni alla formazione professionale». In Italia, secondo l’Istat, lavorano 144.000 bambini tra i 7 e i 14 anni. Ma per l’Ires (e per la Cgil) la cifra arriva a 400mila bambini.


Per questo la giornata dell’alfabetizzazione è un’occasione per rilanciare campagne contro il lavoro minorile, come quella Stop child labour. School is the best placet to work ispirata dalla Ong indiana MV Foundation e promossa in Europa da Alliance2015, network europeo di sei Ong impegnate nella cooperazione allo sviluppo, tra cui il Cesvi per l’Italia. Anche la «base» si mobilita: un gruppo di studenti di San Salvario a Torino ha scritto una lettera agli allievi del biennio di tutta Italia perché si uniscano a loro nella richiesta di una scuola più seria. Li segue Domenico Chiesa, insegnante di filosofia e pedagogia in pensione, e per anni consulente del ministero: «Nel ‘900 la scuola elementare è stata un baluardo contro l’analfabetismo, in un mondo contadino e artigiano bastava. Per battere l’analfabetismo di oggi bisogna ripensare la scuola media e superiore in modo che riesca a dare le basi culturali di fondo e stimolare la voglia di apprendere. Mica può farlo Piero Angela».


Alessandra Muglia


(6 settembre 2008)


 




Chi si vergogna di votare Berlusconi


 Con Berlusconi si manifesta un singolare fenomeno, già noto ai tempi della Democrazia cristiana. Negli anni Sessanta e Settanta erano rarissimi quelli che ammettevano di votare Dc. Ma il partito del "Biancofiore, simbol d’amore" prendeva regolarmente, a ogni elezione, il 30 per cento dei suffragi. Evidentemente chi lo votava se ne vergognava.


Così è con Berlusconi. Nei bar, nelle palestre, in piscina, ai bagni o in qualsiasi altro ritrovo pubblico che raccolga un po’ di gente, nessuno, anche quando il discorso cade sul politico, dice di votare Berlusconi.


E anche fra i giornalisti, a meno che non siano i giannizzeri del Giornale, di Libero, di Panorama, e pure qui non sempre, nessuno ti dice apertamente che sta con Berlusconi. Un poco se ne vergognano, anche loro.


Ma i berluscones si smascherano in modo indiretto. Se uno ha in orrore Di Pietro, considerandolo il vero "cancro morale" di questo paese, è molto probabile che sia un berluscones. Se vi aggiunge Marco Travaglio ne hai quasi la certezza. Se ci mette anche Giorgio Bocca è matematico.


Per Di Pietro la cosa si capisce, perché è l’unico, vero, contraltare politico del Cavaliere e, per soprammercato, porta avanti il discorso della legalità. E i berluscones detestano la legalità, naturalmente quando si pretende di richiamarvi "lorsignori", per gli altri c’è la "tolleranza zero".


Sono i liberali alla Ostellino, alla Galli della Loggia, alla Panebianco, i liberali da Corriere della Sera (scriveva un indignato Panebianco ricordando l’orribile stagione di Mani Pulite: "L’opera di repressione non doveva più occuparsi prevalentemente, come aveva sempre fatto, dei ‘deboli’ e dei reietti, ma poteva rivolgersi anche ai potenti" – Corriere della Sera, 20/9/1999 – e in un altro pregevole scritto "Non parliamo d’altro che di 'corruzione', 'concussione', 'abuso di ufficio' e non ci accorgiamo dei reati di vero allarme sociale che sono quelli della microcriminalità", e ancora "La legalità, semplicemente non è, e non può essere, un valore in sé" – Corriere, 16/3/1998).


Peraltro l’orrore per il "giustizialista" (altra parola magica che smaschera il berluscones occulto) Di Pietro è un poco contraddittorio. L’intera classe politica attualmente in sella, berluscones in testa, non esisterebbe se non ci fosse stato il "giustizialista" Di Pietro. Particolarmente grottesca è l’avversione a Di Pietro degli ex Msi, ex An, oggi Pdl che, dopo essere stati espunti per decenni dalla politica con la truffa dell’"arco costituzionale", tornarono all’onor del mondo proprio grazie a Mani Pulite.


Dove sarebbe oggi, senza Di Pietro, per esempio l’onorevole La Russa, disonorevole ministro della Difesa? Sarebbe ancora nelle catacombe a fare il "cattivo maestro" di ragazzi che poi, sotto quelle suggestioni, andavano magari a rovinarsi tirando qualche bombetta (Murelli e Loi).


Travaglio è scontato. Sulla legalità ha un rigore torinese, jansenista. Sia a destra sia a sinistra per la verità, ma il berluscones non va tanto per il sottile. Quando però gli chiedi cosa rimprovera a Travaglio, farfuglia. Il massimo che riesce a dire è che "con i libri su Berlusconi ci ha fatto i soldi". Che è come dire che Sciascia non doveva fare le denunce di Todo modo perché quel libro ha venduto.

Ma il più incomprensibile, e quindi il più significativo, è Giorgio Bocca. Se in una conversazione salta fuori, per qualsiasi motivo, il nome di Bocca, il berluscones occulto cade in deliquio, fa il ponte isterico, gli viene la schiuma alla bocca e manca poco che venga preso da una crisi epilettica. Eppure Bocca è stato il primo giornalista italiano di sinistra, ma anche non di sinistra, a denunciare sul Giorno, in un memorabile reportage degli anni ‘60, che cosa fosse realmente la gloriosa Unione Sovietica.

Meriterebbe un posto d’onore nel mondadoriano e berlusconiano opuscolo "Il libro rosso degli orrori del comunismo". Invece i berluscones lo odiano. E si vedono anche delle sciacquette del giornalismo nostrano, gente che ha cominciato a scrivere editoriali, cioè temi da liceo, a vent’anni, e a trenta, non avendo fatto alcuna esperienza sul campo, non san più che dire, storcere il naso di fronte al nome di Giorgio Bocca e alla sua straordinaria carriera che gli permette, alle soglie dei novant’anni, di essere ancora perfettamente lucido sulla pagina.


"Non devo alcun rispetto a Bocca" scriveva tempo fa un pinchetto di cui non ricordo il nome, poniamo un Facci qualsiasi, mentre dovrebbe fare i gargarismi prima di pronunciare il suo nome invano. Comunque sia un indizio è un indizio. Tre indizi (Di Pietro, Travaglio, Bocca) fanno una prova.


Quindi se vi capita in casa un tipo mellifluo, che affetta equidistanza, ma quando sente i nomi di quei tre ha reazioni da demonio finito in un’acquasantiera, potete andare sul sicuro: è un berluscones doc. E cacciatelo a pedate nel culo perché non ha nemmeno il coraggio civile di essere ciò che è.


Massimo Fini


(11 febbraio 2010)