giovedì 30 aprile 2009

Il ballista










La notizia la diede un telespettatore che stava seguendo, alcune settimane fa, il meritorio programma “Ambiente Italia” e per questo di improbabile collocazione: il sabato alle 14:50 su RaiTre. Telefonò alla redazione torinese e informò che ad Acerra, dopo la straripante inaugurazione del termovalorizzatore, l’impianto non era in funzione. La grancassa, il maxischermo, il pulsantone schiacciato dall’ homo ridens, fiancheggiato da Bertolaso, tutto finto, solo ad uso e consumo delle telecamere e approvvigionamento degli incensatori in servizio permanente effettivo. Come per la spazzatura, come per il terremoto adesso (poveri abruzzesi con doppia disgrazia incorporata), l’uomo è un gran dispensatore di balle che distribuisce con prodigalità. Non è innocuo, ma rappresenta un pericolo immanente per la stabilità democratica. E, assieme a lui, sono corresponsabili di questo tutti quei milioni di miei connazionali (ahimè) che lo hanno votato, permettendo così all’Italia un’esposizione impudica ai lazzi e agli sberleffi del mondo. Eppure basterebbe seguire l’esempio della “signora Veronica”, come ha definito la moglie (lo è ancora?) B. tessera P2 n° 1816, basterebbe che uno solo si alzasse ed esclamasse: “Il re è nudo”. Forse potrebbe essere l’inizio della (sua) fine.


 


ACERRA

Il bluff del premier: l'inceneritore non è mai partito


Francesca Pilla


NAPOLI




Il presidente Silvio Berlusconi è uno che mantiene le sue promesse. In più di una conferenza a Napoli aveva, infatti, ripetuto che l'inceneritore di Acerra avrebbe inquinato quanto tre macchine di media cilindrata, e fino a questo momento bisogna dargli atto di essere dalla parte della ragione: l'impianto consuma anche meno, visto che é praticamente spento. Gli interruttori sarebbero bloccati dal 27 marzo, appena il giorno dopo la sua inaugurazione in pompa magna, quando il premier, con mezzo esecutivo al seguito, ha puntato le telecamere sui rifiuti che entravano nei forni. Questo almeno è quanto denunciano i comitati contro l'inceneritore e la Rete campana rifiuti e ambiente.


«Non che la cosa ci dispiaccia, ribadiamo che l'ecomostro non deve partire - spiega l'avvocato Tommaso Esposito - ma è la prova di quello che abbiamo sempre detto: è stata solo una grande operazione mediatica, non c'erano le condizioni per avviare l'impianto che tra l'altro è tecnologicamente vetusto e non rispetta le 27 prescrizioni richieste anni addietro dalla commissione ambiente del senato». Effettivamente cliccando sul sito dell'Osservatorio ambientale (www.emergenzarifiuticampania.it), dove il team ufficiale della presidenza del consiglio monitora i livelli di inquinamento dell'impianto, dalle 3 live cam puntate 24 ore su 24, sull'ingresso, sull'avanfossa, sui camini, sembra tutto spento. Inoltre sul sito dell'Arpac (www.arpacampania.it), i dati sulle emissioni di materiali inquinanti nei pozzi d'acqua, del suolo, dell'aria, che dovrebbero essere aggiornati quotidianamente, sono fermi al 26 marzo. Il sottosegretario Guido Bertolaso ha inviato una lettera a ogni famiglia di Acerra e di San Felice al Cancello, datata 31 marzo 2009, in cui informava la cittadinanza che dalla settimana prima il termovalorizzatore era entrato in funzione. «Una lettera - continua Esposito - in cui saluta con un "cordialmente vostro" e in cui compare anche la firma del responsabile della cooperativa Partenope, l'A2A, che gestisce l'impianto, non garantisce e non tranquillizza nessuno. Anzi noi sappiamo addirittura che per il momento ad Acerra non si produce energia elettrica e che, come previsto dal contratto, non sarà possibile farlo fino al prossimo dicembre. Appare dunque evidente che l'accensione dei forni è stata solo un momento di propaganda».


Dalla struttura del commissario straordinario di governo però hanno la loro versione dei fatti: «L'impianto funziona - dice al telefono un portavoce di Bertolaso - e stiamo procedendo spediti, esattamente come indicato più di una volta pubblicamente e con i nostri comunicati. Abbiamo sempre specificato, infatti, che il termovalorizzatore sarebbe entrato a regime non prima dell'estate, e che in questo periodo avremmo semplicemente continuato a testare la prima linea, e come avviene in questi giorni anche la seconda e la terza». Ma perché allora inaugurare Acerra prima di metterla in funzione? «E' stata presa questa decisione - precisa il protavoce - per l'alto valore simbolico della struttura e anche per non inficiare il rapporto di fiducia con i cittadini che avrebbero visto entrare i rifiuti nell'impianto senza essere avvisati».


Dalla Rete campana però restano sulle loro posizioni: «Se è simbolico avviare un impianto - incalza Mario Avoletta - allora vuol dire che non è necessario a uscire dalla crisi. D'altra parte dalla struttura del sottosegretario non hanno mai risposto alla nostra richiesta di un incontro pubblico, in cui esperti internazionali, che hanno partecipato al meeting mondiale Zerowaste 2009 tenuto a Napoli, sarebbero disposti a esporre, gratuitamente, un piano alternativo che non prevede discariche né inceneritori». I comitati dunque non mollano e anzi sono pronti con un'altra iniziativa partita in tutto il paese tramite l'Associazione diritto al futuro e le reti nazionali rifiuti zero: «Chiediamo legalmente e individualmente - spiega Esposito - di recuperare quanto indebitamente percepito, tramite bolletta Enel, per finanziare i Cip6». Gli attivisti infatti denunciano come l'Italia abbia male applicato la direttiva dell'Ue sulle fonti rinnovabili, facendo rientrare anche i petrolieri e gli inceneritori negli incentivi, che rappresentano circa il 7% delle fatture pagate dai cittadini.


il manifesto (25 aprile 2009)


 




Intervista a Michele Buonomo


«In autunno torneranno  i rifiuti nelle strade»


Il presidente di Lega Ambiente in Campania: l’emergenza non è superata. Ad Acerra serve tempo per avviare l’impianto e le discariche si riempiono


EDUARDO DI BLASI


 


Michele Buonomo, presidente di Legambiente Campania, non ha dubbi sul perchè l’inceneritore di Acerra sia di là dall’essere messo in funzione: «A parte la complessità per l’avvio di un inceneritore, quello di Acerra è particolare perchè è progettato per una mole enorme di rifiuti e quindi ci vuole un lungo periodo di messa alla prova prima di farlo partire».


E gli altri tre o quattro impianti che devono essere costruiti in Campania?


«Quello che sembrava di più facile realizzazione e per il quale già c’erano stati dei finanziamenti per l’infrastrutturazione per le vie d’accesso, è quello di Salerno. Il sindaco della città Vincenzo De Luca era stato nominato commissario per la sua costruzione. Poi il governo ha poi rallentato la pratica, puntando sulla “provincializzazione” del ciclo dei rifiuti. Per cui tutta l’impiantistica sarebbe oggi in capo alla Provincia. Il corto circuito, per adesso, ha bloccato tutto».


Semmai l’empasse amministrativo dovesse sbloccarsi, quanto tempo si dovrà attendere?


«I tempi canonici, se non ci fossero altri intoppi, sono di almeno quattro anni per entrare a regime».

Resta sempre il problema del contributo Cip6, criticato dall’Europa...


«Nessun imprenditore avveduto si imbarcherebbe in una situazione del genere considerato che nella nostra regione, come confermato oggi dall’assessore regionale all’Ambiente Walter Ganapini, esiste un’evasione sulla tassa dei rifiuti che arriva al 70%. Perchè l’inceneritore o lo paghi con le tasse cittadine oppure lo paghi con il Cip6».


E il terzo inceneritore?


«È quello di Napoli...».


Che però non si sa ancora dove si debba collocare...


«Non si è trovata una localizzazione. Si parla di Napoli Est. Certo a Napoli non è operazione facile immaginare, progettare, realizzare e mettere in gestione un inceneritore. Quindi diciamo che al momento ci sta solo questo inceneritore, fantomatico nell’avvio e nel funzionamento, di Acerra».


Manca quello di Santa Maria La Fossa...


«Quello presenta ulteriori problemi di gestione del territorio, difficile pensare che parta alle condizioni date».


Se gli inceneritori non ci sono, dove vanno i rifiuti prodotti ogni giorno in Campania?


«Il destino è quello di sempre: le di- scariche. Ma poiché le discariche hanno questo limite fisico che si riempiono, allora siamo sempre con la fibrillazione».


Ma le discariche che ci sono adesso, Sant’Arcangelo Trimonte, Ariano Irpino e Chiaiano, quanto tempo ci vuole prima che si riempiano?


«Stando così le cose rischiano di riempirsi nel giro di pochi mesi».


Entro l’autunno?


«Tutti temono che con l’autunno possa tornare pure la fase critica dell’emergenza con l’immondizia di nuovo per strada. Perchè, sia chiaro, l’emergenza non è mai stata superata. E stata risolta momentaneamente la fase critica, ma senza misure strutturali».


La Campania conta anche oltre duecento comuni «ricicloni»: come se la passano in questa «fine emergenza»?

«Malissimo: da una parte rischiano di perdere i 300 milioni Ue per via di una procedura di infrazione comunitaria. Dall’altra sono ancora costretti a portare la frazione organica della propria differenziata in Sicilia, a costi che arrivano fino a 300 euro a tonnellata».


Ma come è possibile che in tutta questa «risoluzione» dell’emergenza succeda ancora questo?


«Perchè non si sono costruiti gli impianti di compostaggio».


Quanto tempo ci vuole per costruire un impianto di compostaggio?


«Richiederebbe 10-12 mesi, in una situazione di emergenza si potrebbe fare anche in 8-10 mesi, però ci sono anche strutture già esistenti, e i vecchi Cdr che potrebbero essere attrezzati in tempi più rapidi...».


E perchè non succede?


«Perché al momento non si sa chi fa cosa. Perchè gli impianti di compostaggio sarebbero in capo alla Regione che ha però problemi ad avviarli non avendo poteri specifici e quindi deve pescare solo nel proprio bilancio e nelle risorse comunitarie. Quelle che, tra l’altro, rischiano di essere bloccate».


l’Unità (28 aprile 2009)

lunedì 27 aprile 2009

Appropriazione indebita


Si tratta di una tra le immagini più tristi e indegne viste negli ultimi tempi. Cosa c’entra l’ometto trasformista (tra breve sarà scienziato) con la Resistenza e i partigiani? Che cosa ha a che vedere con la lotta di liberazione dal nazifascismo B., tessera P2 n° 1816, che è ontologicamente avverso alla Costituzione, nata dalla guerra partigiana?


C’è voluta la dabbenaggine del segretario del Pd, questa geniale invenzione che ha svuotato di consistenza l’opposizione (uno dei motivi senz’altro), il quale ha insistito così tanto che lui è sceso di nuovo in campo e stavolta per fare bingo. Si è infatti appropriato dell’unico spazio non ancora occupato, ha immediatamente proposto il baratto del nome suggerendo – ma guarda un po’ – “festa della libertà” che, onomatopeicamente e per sicura assonanza, rimanda all’artificiale “partito della libertà”. Cosa che i suoi scherani, in servizio di megafono permanente effettivo, hanno confermato. L’ineffabile Gasparri, più espressivo del solito, già cinguettava garrulo di “festa della libertà”. Così, tempo un paio d’anni, e il 25 aprile verrà trasformato in un prodotto commerciale, simile alla festa del papà.


Posto il bellissimo e amaro articolo di Marco Revelli, pubblicato su “il manifesto” del 25 aprile che singolarmente è intitolato “In montagna” nell’edizione cartacea e “Le piazze rubate del 25 aprile” nell’edizione on line. Aggiungo che quest’ultimo titolo rispecchia in modo esemplare il contenuto appassionato del pezzo, che mi piacerebbe divenisse un classico. Inutile precisare che lo condivido integralmente.


Sotto l’editoriale di ieri di Eugenio Scalfari del quale non condivido le considerazioni espresse nella prima parte, ma che, in ogni caso, costituisce sempre un punto di riferimento.


 













Le piazze rubate del 25 aprile


Marco Revelli


 


Non c’è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.


Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l'equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni - l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.


O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.


Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.


Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori. Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un’Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l’osteggiò. Una che si sforzò di continuare l’opera di bonifica contro quell’espressione dell’”autobiografia della nazione” che è stato il fascismo, e un’altra che, sotto traccia, in quell’autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un’Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un’altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non addirittura a rimpiangere il proprio impresentabile passato.


Ora quella “seconda Italia” (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell’anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L’autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l’ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro “noi”. Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all’insegna di quella domanda di “ricomposizione” delle fratture, che nel fingere di “celebrare” le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.


Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d’imporre, con la logica dell’emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell’informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l’opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l’appello alla “memoria condivisa”, in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero “male oscuro” delle nostre peggiori vicende nazionali?


Per questo – per tutto questo – per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c’è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale… Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo no. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l’aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno.


il manifesto (25 aprile 2009)










 


 


 


IL COMMENTO


La patria e il nuovo padre padrone


di EUGENIO SCALFARI


 


IERI 25 aprile, giorno di festa per la liberazione d'Italia dai nazifascisti e per la Resistenza che ha reso possibile la rinascita della democrazia nel nostro paese, è caduto il muro che aveva fin qui impedito a quella ricorrenza di diventare una data condivisa da tutti gli italiani. Il merito di questo risultato spetta a Silvio Berlusconi, al discorso da lui tenuto ad Onna ed anche - diciamolo - a Dario Franceschini segretario del Pd, che con il suo pressante invito ha incitato il premier a render possibile un evento così importante.


Berlusconi aveva dinanzi a sé tre alternative: ignorare l'invito di Franceschini; accoglierlo per marcare a modo suo la celebrazione equiparando la Resistenza con coloro che si erano schierati a fianco del regime fascista di Salò, uniti entrambi dall'amor di patria; dare atto che Liberazione e Resistenza sono stati un tutto unico dal quale è nata la nostra Costituzione repubblicana, fermo restando il rispetto per tutti i caduti, anche di coloro che in buona fede scelsero la parte sbagliata.


Con il suo discorso di Onna Berlusconi ha scelto questa terza soluzione ed è quindi doveroso dargliene atto. Si potrebbe (e non mancherebbero gli argomenti) fare un'analisi dei moventi che l'hanno spinto a imboccare quella strada, ma sarebbe riduttivo. I fatti del resto hanno un loro linguaggio che esprime la realtà e la realtà è questa.


Berlusconi ha raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che non lo amano, quelli che hanno fiducia e quelli che ne diffidano, quelli che condividono il suo "fare" e quelli che l'avversano.


Noi siamo tra questi ultimi ma riconosciamo che una svolta è stata compiuta, sia nella valutazione storica della Liberazione e della Resistenza, sia nel riconoscimento dei principi sui quali si regge la Costituzione, sia sul ruolo delle forze politiche che contribuirono alla rinascita democratica e che nel discorso di Onna sono state tutte nominate a cominciare dai comunisti, ai socialisti, ai democristiani, ai liberali (anche se l'ipotesi di cambiare il nome della celebrazione in quello di "Festa della Libertà" è certamente una proposta contro la memoria che indebolisce notevolmente le osservazioni precedentemente fatte).


La fermezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha giocato un ruolo determinante nella svolta berlusconiana; un altro elemento da non sottovalutare sarà pur venuto dalla posizione di Gianfranco Fini. La svolta è comunque avvenuta. Bisogna ora vedere se i seguiti saranno conformi al nuovo inizio e intanto rallegrarsene.


Dunque tutto bene? Il tessuto democratico del paese si è rafforzato? Si aprirà finalmente una dialettica operosa tra governo ed opposizione?


Aldo Schiavone, in un articolo pubblicato ieri su "Repubblica" ha risposto anticipatamente a queste domande partendo dalla constatazione che in tempi di emergenza la spinta populista è un dato di realtà dal quale sarebbe sbagliato prescindere.


Ci sono vari modi di affrontare questa deriva. Quello di Berlusconi, secondo il giudizio di Schiavone, consiste nel "rendere istituzionale la spinta populista, prolungarne e dilatarne gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, alimentare un rapporto fideistico tra il leader e il 'suò popolo, marginalizzare tutte le altre forme di rappresentanza a cominciare dalla divisione dei poteri e dalle autorità di garanzia come inutili impacci. Un Capo che sceglie e decide per tutti: è un modo di stressare la democrazia radicandola su una sola delle sue componenti".


Ebbene la svolta berlusconiana di ieri, della quale abbiamo già segnalato gli aspetti positivi, non ci libera affatto da quelli negativi. Al contrario, li alimenta con nuova linfa rendendoli ancor più attuali e pericolosi. Diventa sempre più incombente la costruzione, già da tempo avviata, d'una nuova costituzione materiale all'ombra della Costituzione vigente, cioè una sua interpretazione che ne stravolge il senso riducendola ad un reperto fossile.


Un'operazione del genere fu già compiuta nel corso della Prima Repubblica. Avvenne tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta; un ventennio nel corso del quale i partiti assorbirono le istituzioni, il governo si identificò con lo Stato, la democrazia si trasformò in partitocrazia, gli apparati politici confiscarono la pubblica amministrazione e taglieggiarono sistematicamente le imprese.


La costituzione materiale partitocratica fece del Capo dello Stato un'autorità di second'ordine, esercitò un'influenza determinante sulla magistratura inquirente e giudicante, costruì l'impunità del potere e di chi lo impersonava. Le forme vennero scrupolosamente rispettate ma la sostanza fu invece sconvolta e manomessa.


La stagione di Tangentopoli interruppe e anzi sembrò avere distrutto la partitocrazia. Cominciò allora la transizione verso la Seconda Repubblica che adesso ha infine assunto le sue caratteristiche con la costruzione di una nuova costituzione materiale molto diversa dalla precedente.


Non sono più i partiti a monopolizzare il potere, ma un leader con il manipolo dei suoi più stretti collaboratori. Un leader antipolitico e sostanzialmente antiparlamentare, gestore sapiente del sistema mediatico, identificato con la ricerca ossessiva del consenso da trasformare giorno per giorno in plebiscito e da contrapporre a tutte le mediazioni e a tutto il sistema delle garanzie.


La svolta di ieri ha rappresentato dunque un rilevante passo avanti e un ulteriore passo indietro di fronte alla democrazia partecipata. Passo avanti - l'abbiamo già detto - verso la pacificazione del Paese rispetto a quanto accadde sessant'anni fa. Passo indietro verso il populismo autoritario.


Se l'asse portante della nostra Costituzione consiste nella divisione dei poteri, l'essenza della costituzione materiale berlusconiana è nell'unificazione dei poteri in una sola mano. Esecutivo, legislativo e giudiziario intestati al leader attraverso una prassi ed una serie di norme che la consolidano e la presidiano trasformandola in consuetudine.


Il presidente Napolitano ha avvertito da tempo questa deriva e l'ha più volte segnalata con la discrezione che lo distingue. Più di recente deve aver avvertito che la crescita della nuova costituzione materiale stava per oltrepassare una soglia oltre la quale sarebbe diventata irreversibile per un lungo arco di anni ed ha ritenuto che il tema dovesse essere affrontato di petto. L'ha fatto pochi giorni fa inaugurando il festival della democrazia a Torino e indicano i principi che costituiscono il fondamento della democrazia repubblicana: lo stato di diritto, la divisione dei poteri, il ruolo indispensabile delle autorità di garanzia, il vigile rispetto della legalità costituzionale, il rafforzamento del potere esecutivo e dei poteri di controllo del Parlamento. I punti di riferimento culturali di questa visione configurano una democrazia liberale che ha i suoi autori in Montesquieu, Tocqueville, Croce e Luigi Einaudi. La "fantasia al potere" - che tanto piace a Berlusconi e ai suoi mentori - non trova posto in questa visione e rappresenta il culmine della modernità occidentale.


Se volessimo raffigurare le due versioni contemporanee e contrapposte di due leader carismatici, facciamo i nomi di Berlusconi e di Barack Obama, con tutte le differenze di scala da essi rappresentate.


C'è un freschissimo esempio della "fantasia al potere" o meglio della "follia positiva" stando all'autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier, ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall'isola della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell'Aquila. Un colpo di scena suggerito da Bertolaso, sottosegretario alla Protezione civile e ai Grandi eventi e fatto proprio da Berlusconi con entusiasmo all'insaputa dello stesso governo da lui presieduto.


Le motivazioni di questo "coup de théâtre" sono quattro: le minori spese, il desiderio di mettere i potenti della terra a diretto contatto con una catastrofe naturale, la possibilità di elevare il caso Abruzzo dal livello nazionale a quello mondiale, la maggiore sicurezza del "meeting" tra le montagne abruzzesi rispetto alle sedi navali che l'avrebbero ospitato alla Maddalena.


È sufficiente un sommario esame per capire che si tratta di motivazioni infondate.


Le spese per realizzare il G8 alla Maddalena sono state tutte in grandissima parte già fatte (anche se ancora debbono essere pagate). Gli impianti previsti saranno comunque portati a termine. Nessun risparmio da questa parte sarà dunque realizzato. Il grande albergo a cinque stelle costruito nell'isola sarda resterà come una delle tante cattedrali nel deserto, di sperpero del denaro pubblico e di cementificazione di uno degli arcipelaghi più belli d'Europa. Il risparmio sulle spese navali rispetto a quelle aquilane sarà minimo, invece delle navi alla fonda bisognerà mobilitare una flotta di elicotteri che faccia la spola tra Roma e l'Aquila.


I potenti della terra hanno purtroppo larga esperienza di catastrofi naturali, in Giappone, in Louisiana, in Florida, in California, in Russia, in India, in Cina, in Turchia. Insomma nel mondo intero.


Portare il caso Abruzzo all'attenzione del mondo affinché dia una mano per risolverlo è risibile. C'è l'intero continente africano che è di per sé una catastrofe, per citare un solo caso tra tanti.

La sicurezza contro i No Global. Non metteranno piede all'Aquila, l'hanno già detto. Ma faranno altrove le loro prove. Speriamo vivamente che siano prove puramente dimostrative. Se comunque, come scopre ora Bertolaso, garantire sicurezza alla Maddalena era un compito così arduo, ci si domanda adesso perché fu scelta quella località.


Forse Bertolaso ha troppe cose da fare: la protezione contro le catastrofi, i rifiuti dell'immondizia, la progettazione ed esecuzione dei grandi eventi. Il tutto non solo sulle sue spalle ma sulle strutture della Protezione civile. Che non stia nascendo, sotto la leadership politica di Berlusconi, una leadership tecnocratica di Bertolaso? Non credo che i vertici negli altri paesi siano affidati alla Protezione civile. Li curano i ministri dell'Interno, i Servizi di sicurezza, le forze della sicurezza pubblica. Che c'entra la Protezione civile? I pompieri che ne costituiscono l'ossatura?

Bertolaso, racconta il generale della Finanza, Lisi, che lo vede lavorare nella sua scuola, "lavora notte e giorno, non dorme, è una fucina di iniziative, non è un uomo ma un miracolo".

Forse se si concentrasse su uno solo dei suoi tanti compiti eviterebbe alcune disfunzioni che stanno emergendo in questi giorni e che i terremotati vivono sulla loro pelle.

No, neanche Bertolaso è infallibile. Quanto ai miracoli, beati i paesi che sanno farne a meno.






la Repubblica(26 aprile 2009)


domenica 26 aprile 2009

L'intervista censurata sul terremoto d'Abruzzo











23 aprile 2009 - 02.10


Byoblu.com LogoFont plusFont minus


YouTube censura Byoblu


 Il video "Giuliani - L'uomo che ci salvò la vita", che ha superato le 50.000 visualizzazioni in pochissimi giorni, è stato disattivato da YouTube per non meglio precisate Violazioni delle norme della community.

 A chi tenta di visualizzarlo, all'indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=GvQ2IRsBbGk, viene mostrato un laconico messaggio: questo video è stato rimosso a causa della violazione dei termini e condizioni d'uso.



 Qualsiasi tentativo di accedere al mio account mostra una pagina dove mi si notifica di avere ricevuto un avvertimento, valido per sei mesi,  e che ulteriori avvertimenti potranno comportare la disattivazione della mia capacità di pubblicare contenuti. Posso solo approvare la notifica, come potete vedere dall'immagine seguente, ma non contestarla.

 Approvare significa in qualche modo confermare una violazione dei termini d'uso assolutamente incomprensibile. Non approvare significa non avere più alcuna possibilità di operare sul mio account.


 Disattivazione video L'uomo che ci ha salvato la vita




 Il video non conteneva alcuna colonna sonora, non ledeva quindi alcun diritto d'autore. Le immagini erano tratte interamente da riprese effettuate da me.

 Non era offensivo, non incitava al razzismo, non urtava la sensibilità di nessun credente.  Conteneva la testimonianza di una donna scampata alla tragedia del terremoto, la notte tra il cinque e il sei aprile scorso in Abruzzo, grazie al provvidenziale aiuto di Giampaolo Giuliani, il collaboratore Ente Ricerca che l'aveva avvisata telefonicamente dell'opportunità di trascorrere la notte all'aperto. L'intervistata, Stefania Pace, evidenziava come molte vite fossero state salvate dal tam tam originato dalle previsioni di Giuliani.



 Raccontava anche di come un'operatore della protezione civile invitasse tutti a rientrare nelle proprie abitazioni, dopo la scossa di mezzanotte, e di come l'informazione ufficiale nei giorni precedenti al sisma avesse invitato tutti i cittadini a non dare retta ai ciarlatani che affermano di poter prevedere i terremoti.  Potete trovare la trascrizione integrale dell'intervista nel post L'informazione assassina.



 Su YouTube circolano contenuti di ogni tipo. Esiste un programma di partnership che garantisce alcuni privilegi, come la possibilità di caricare contributi più lunghi di dieci minuti e di partecipare ai proventi pubblicitari. Purtroppo non è disponibile per gli utenti italiani.

 Se tuttavia siete autori di scherzi telefonici, potreste venire premiati con un'offerta di partnership spontanea, ad insindacabile giudizio del portale. Se invece fate informazione libera, non ne potete usufruire: una mia richiesta di alcuni mesi fa è stata cordialmente declinata.



  Ho caricato il video su canali alternativi ed è già nuovamente disponibile al blog, ma ho una domanda per voi: quale norma della community viola il racconto di una madre di famiglia?



  A chi stiamo dando fastidio?


 Scaricate la versione divx del video e caricatela su tutti i vostri canali YouTube, Current, DailyMotion, Vimeo... con il titolo "E ADESSO CENSURATE ANCHE QUESTO"



I diritti sono i miei ma ve li cedo.

Proiettiamolo in InternetSCope


 

mercoledì 22 aprile 2009

Gli sciacalli istituzionali










Non è la prima volta che riporto un editoriale di Barbara Spinelli e neppure sarà l’ultima. Le sue riflessioni domenicali si elaborano meglio durante la settimana e poi, a distanza di tempo, emergono con nitida chiarezza. Mi piace sottolineare, senza presunzione alcuna, che sostengo da tempo, dall’11 settembre 2001, come in nome dell’emergenza terrorismo (in quel caso) si sia fatta tabula rasa di diritti fondamentali, l’habeas corpus in primis e, da allora, l’11 settembre si è imposto alla stregua di un brand di successo, con cui etichettare qualunque nefandezza, impero di Bush soprattutto.


Molto meglio di me, naturalmente, la Spinelli prende spunto dalla catastrofe tellurica in Abruzzo per delineare il mestiere del giornalista nella sua deformazione, attraverso citazioni e collegamenti che ho linkato per migliorare la lettura e approfondire la conoscenza.


 


La nostra infinita emergenza


Barbara Spinelli


           


Sono ormai anni che viviamo nell’emergenza, e quasi non ci accorgiamo che ogni mossa, ogni parola detta in pubblico, ogni sopracciglio intempestivamente inarcato, son sottoposti a speciali esami di idoneità, che mescolano etica e estetica, dover essere e presunto buon gusto. La mossa, la parola, il sopracciglio, devono adeguarsi all’ora del disastro: sia esso attentato terroristico o ciclone, tsunami o terremoto. Chi rompe le righe si copre di colpe, prestamente censurate. Vergogna e indecenza sono il marchio impresso sulla fronte di chi non ha tenuto conto del perentorio buon gusto. L’emergenza è diventata una seconda pelle delle democrazie, e per questo non ci accorgiamo quasi più dell’anormale convertito in normale: delle libertà che per l’occasione vengono sospese, dell’autonomia di giudizio che vien tramutata in lusso fuori luogo.


È un po’ come il corno che cresce d’improvviso sulla fronte di tutti i concittadini di Bérenger, protagonista dei Rinoceronti di Ionesco: arriva il momento in cui la protuberanza è talmente familiare ed estesa che chi non la possiede si sente un reietto, e lo è. Anche durante il terremoto in Abruzzo è stato così, e questo spiega lo scandalo assolutamente abnorme generato da una trasmissione televisiva - AnnoZero di Santoro - che era un po’ diversa dalle altre perché fondata sulla denuncia polemica: dell’organizzazione dei soccorsi, e soprattutto della secolare commistione fra affari, corruzione, malavita, edilizia.


Indecente è stata definita la trasmissione, perché questa non era ora di far scandalo: di «seminare zizzania con i morti ancora sotto le macerie, di descrivere l’Italia come il solito Paese di furbi, incapaci di rispettare ogni legge scritta e morale», ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, l’11 aprile. Lo spazio smodato dato su giornali e telegiornali all’evento è esemplare, perché conferma una malattia democratica diffusa. Incapaci di dominare eventi più grandi di loro, le democrazie vivono sempre più di emergenze, ne hanno bisogno esistenziale. A partire dall’ora in cui è pronunciata la frase fatale: «Questo non è il momento», già è stato di eccezione. In tempi normali è proprio questa l’ora delle controversie. Se non nel mezzo del disastro, quando farne l’archeologia e denunciare?


Non così in stato d’eccezione, quando è il regnante a decretare natura e vincoli del momento. La sua sovranità è essenzialmente sulla vita e la morte, e il momento è dunque quello delle bare allineate, del supremo dolore, del lutto vissuto nell’unanime afflizione. Grazie a questo momento si crea un’unità magica, propizia all’intensificazione massima della sovranità. Viene mobilitato anche l’Ecclesiaste«C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire». La Bibbia per la verità parla all’anima, ma nell’emergenza anima e politica si fondono. Assieme, esse giustificano lo stato d’eccezione che sempre esordisce con la soppressione, non si sa se davvero provvisoria, di libertà e abitudini alla critica vigenti in epoche di pace. Giorgio Agamben,  che ha studiato tale materia, racconta come morte e lutto siano ingredienti dello stato d’eccezione sin da Roma antica: l’emergenza si chiamava iustitium, e in quei giorni veniva abolito il divieto di mettere a morte un cittadino senza ricorso a un giudizio popolare (Agamben, Lo Stato di eccezione, Torino 2003).


Stato d’eccezione o emergenza sono in realtà imbellimenti di quel che effettivamente accade, camuffano lo stato di guerra: per l’Oxford English Dictionary, sono suoi sinonimi, eufemismi. È in guerra che i comportamenti liberi, biasimatori, son ribattezzati disfattisti. Nell’emergenza guerra, disastro e morte richiedono un dover-essere e un dover-dire. È a questo punto che lo stato di eccezione si tramuta in regola, e il sistema giuridico politico in «macchina di morte». La morte fa tacere il popolo e al tempo stesso nutre il sovrano. È il grande correttore, regolatore: non dici cose scomposte davanti a una salma, anche se veritiere. Il potere usa la morte: diviene necrofago L’uomo colpito da catastrofe è ridotto a vita nuda e quest’ultima sovrasta la vita buona, prerogativa di chi tramite la politica e la libera opinione esce dalla minorità. La nudità politica, scrive 



Hannah Arendt nelle Origini del Totalitarismo, può esistere anche senza diritti civili.


Il fenomeno non è nuovo, Agamben lo spiega molto bene. I giorni dello iustitium sono anche i giorni in cui si celebra il lutto del sovrano. Leggi e libertà non sono abolite ma sospese, perché l’essenza del potere (potere di vita e di morte) non appaia vuoto. Da allora ogni disastro, naturale o terrorista, è occasione di affermare tale essenza. Di mettere in scena non il morire o il multiforme soffrire dei cittadini, ma la possibile morte del sovrano e della stessa politica. L’unità si fa non attorno alle salme ma al sovrano, il quale dice: «Sono io in causa, e la vera posta in gioco è la dilazione della mia messa a morte, l’anticipazione rituale del lutto della mia persona».


Nella storia della democrazia c’è anche questo: l’eccezione che cessa d’esser tale, facendosi regola. Che non proclama più giorni di lutto, ma epoche. Tutto è guerra, in permanenza si tratta di riconfermare il sovrano unendo il mio col suo, la solidarietà emotiva di cui ho bisogno io e quella di cui necessita lui. L’idea che tale sia la guerra moderna nasce nel ’14-’18, ed è teorizzata da uno dei suoi protagonisti, Erich Ludendorffnella Guerra Totale scritta nel 1935. Nella guerra democratica totale scompare la distinzione tra fronte e retrovia, militari e civili (Heimatfront è la fusione hitleriana - animista, dice Ludendorff - tra fronte e patria). Il governo delle emozioni permette di metter fra parentesi libertà e norme, e in questo ha le stesse funzioni della violenza fuori-legge. Il giornalista che aderisce agli imperativi di tale emergenza distrugge il proprio mestiere.


Nei disastri c’è chi soffre, chi governa, chi racconta (messaggero nella tragedia antica, giornalista oggi) e chi indaga rammentando. Ogni ambito ha un suo dover-essere, una sua autonomia. Se la priorità per il messaggero sono i sofferenti, si racconterà tutto quel che essi provano: gratitudine ma anche rabbia, sollievo per i soccorsi e ira suscitata da uno Stato complice di speculazioni edilizie. Chi ha letto Gomorra, ricorderà quel che Saviano scrive nel capitolo sul cemento armato, «petrolio del Sud», a pagina 235-236: «Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: appalti, cave, cemento, inerti, mattoni, impalcature, operai… L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile.… Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezza Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi e ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia... Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova».


L’emergenza, come la guerra, ha sue leggi speciali. Non sono le leggi della dittatura, perché la dittatura crea nuove leggi. Lo stato d’eccezione permanente è più insidioso: non instaura regolamenti nuovi, ma sospende leggi e libertà creando vuoto legale, anomia. L’Ecclesiaste a questo punto non è parola di Dio, ma decreto del sovrano che assieme al giornalista-messaggero invoca unanimismo. Il giornalista nega se stesso, quando consente a mettere sullo stesso piano gli abusi dell’edilizia e gli «abusi di libertà» di chi punta il dito su tali abusi: invece di vigilare, giustifica - per sé e i concittadini - lo stato d’eccezione.


 


La Stampa (19 aprile 2009)