venerdì 27 agosto 2010

L’amore amaro*




Sentimenti che parlano e sentimenti che tacciono, sentimenti silenti e sentimenti fragorosi. Passione calda e passione tiepida. Un treno che arriva, l’attesa, la gioia sempre inalterata, la tenerezza ritrovata. Un treno che parte, il distacco percepito da giorni, il convoglio che lascia la stazione che piuttosto tu dovresti aver lasciato da tempo e invece no, sei rimasto lì, imperterrito, a farti del male. Sono schegge di cuore che si dissolvono nell’aria greve, rivaleggiano con il sole a picco e poi si confondono tra i suoi raggi.
Si ripropone il contrasto eterno tra restare e partire, sempre compresso tra la voglia di lei e il desiderio che si vorrebbe appassito per non appassionarsi più. E non soffrire. Il sapore dell’ultimo bacio, la lingua che passa e ripassa sulle labbra per trattenerlo e prolungarne il momento magico, simile alla scintilla che scocca ogni volta che due bocche s’incrociano. “Ma dai, non vedi che c’è una suora?” “La sorella, anzi, sarà contenta di vedere due persone che si vogliono bene”.
Aprendo la porta di casa mi abbraccia, soffocandomi, un vuoto silenzioso e terrorizzante. Segni sparsi qua e là della sua presenza che adesso è assenza. Impronte che restano, bricioline di pane che come un novello Pollicino provo a seguire per ritrovare il senso del suo allontanamento. Che è poi un non-senso. Per capire se e quanto si vogliono bene, due persone devono separarsi in continuazione, quasi fino a perdersi per poi ritrovarsi?
Niente radio o televisione accese, solo l’ascolto del silenzio. Nell’aria riecheggiano ancora le sue parole, le sue risate, il nome invocato, i capricci di un momento, l’instabilità umorale che sembra predominante. Ma il filtro dei sentimenti funziona e lascia infine il rimpianto. Nonostante tutto.
Innaffio le piantine: hanno bisogno di acqua, metafora dell’amore e del suo nutrimento, come certe lacrime nutrono il cuore, ma tolgono il respiro, lo rendono affannoso. Mi stendo sul letto, allungo il braccio, non trovo il suo corpo, ma il lenzuolo che copre il cuscino, così come lo ha sistemato lei. Prima di partire. Questa mattina. Già dodici ore fa.
Adesso so che non c’è più.


 
*Scritto il 26 agosto 2010.

lunedì 9 agosto 2010

Vivere per lavorare?




Mi capita tra le mani un ritaglio di giornale (“la Repubblica” del 2 aprile 2008) che riporta un’intervista a Edoardo Boncinelli, noto ricercatore genetico, il quale formula un’ipotesi inquietante (come spiegherò): “Camperemo fino a 120 anni e con la genetica anche di più” (che è pure il titolo).
La propongo.

MILANO — Edoardo Boncinelli, genetista, biologo molecolare e a lungo impegnato nella ricerca clinica sulla farmacologia molecolare e i processi d’invecchiamento all’ospedale San Raffaele di Milano, è tra gli scienziati più ottimisti sul possibile allungamento della vita umana: a 120 anni in virtù della medicina, scriveva nel suo saggio Verso l’immortalità? (Cortina), e a 200-300 quando scenderà in campo la manipolazione genetica.
La sorprende, professore, che dei 7 anni di vita media in più conquistati in 30 anni, si calcola che quasi sei siano dovuti ai progressi nella cura del cuore?
«Non mi sorprende se a cuore sostituiamo apparato cardiovascolare. Pensi a quante persone conosce che dopo i 60 anni prendono una pillola per l’ipertensione: è il più comune degli allunga- vita».
Nel calcolo della vita media entrano tutti i casi di morte, incidenti compresi. La vita si allunga più per le cure o per la prevenzione dei rischi?
«La cosa sorprendente, in realtà, è che sul piano statistico l’allungamento della vita il rischio di incidente lo aumenta: più si vive e più si è esposti agli incidenti. Quindi in teoria l’allungamento della vita media ne dovrebbe risultare rallentato. E invece i progressi della medicina sono tali che l’aumento medio non flette».
Lei prevede addirittura che con l’ingegneria genetica si impennerà...
«In campo biologico,tra gli addetti ai lavori, ne sono tutti convinti. Ma ci vorranno ancora molti anni per averne l’evidenza clinica».

La prospettiva è assai preoccupante, perché quello che potrebbe sembrare un sicuro beneficio, non lo è all’atto pratico. Vivere più a lungo significherà dover lavorare di più. Già adesso, per giustificare il gioco delle tre carte sulle pensioni e, dunque, la loro riduzione, si trova comodo alibi nell’allungamento della vita media che diventa così una iattura.
Se, infatti, si lavora dal lunedì mattina (spesso presto) al venerdì sera (spesso tardi), nel fine settimana è indispensabile riposare per poter ricominciare. Un riposo mentale, soprattutto, dove pigrizia e indolenza sovente prendono il sopravvento. Spazio per il resto poco e sproporzionato, in ogni caso, rispetto alle esigenze.  
Il problema, alla fine, è quello della libertà. Da qui, secondo me, sarebbe necessario partire per capovolgere tutte le impostazioni, magari di scuola, che sottostanno al discorso sulle pensioni. Se infatti io devo arrivare alla soglia della morte (e magari in precarie condizioni fisiche) per avere un po’ di tempo per me stesso, che cosa sono – in ultima analisi - se non uno schiavo? Se lascio il lavoro senza un sostegno che mi permetta un minimo, almeno un minimo di tempo in più per me, o se il lavoro mi affatica al punto tale da non permettermi altro che mangiare e dormire nelle pause, cosa sono?
Sproloquiano di debito pubblico, i signori della Casta (che chiaramente propongono per altri queste ricette), ma siamo invece in credito. Di libertà. Che viene prima di tutto.
È questo il punto di partenza, invece di ribadire con chiacchiere salottiere la miopia che dimostra scarsa lungimiranza e poco rispetto, tutto sommato, per i lavoratori, quelli che accumulano la liquidazione come facevano gli schiavi nell’antica Roma per comprarsi la propria libertà.


 


venerdì 6 agosto 2010

Finalmente!




Apparire senza esserci, ma solo per marcare il proprio posticino nella sterminata blogosfera. Riemergere dall’apnea e cominciare a (ri)guardarsi intorno, per riprendere confidenza con gli strumenti abituali, con persone vecchie e nuove. L’esigenza, anche, di procedere ad una sorta di censimento tra i blog (e i loro gestori) che hanno chiuso i battenti, si sono eclissati: chi scomparendo nella blogosfera e dissolvendosi in essa, talaltri – invece – abbandonando i propri scritti alla pubblica lettura e, per chi li ha conosciuti, anche al rammarico per potenzialità perdute, contributi accrescitivi. Ma alla “mortalità” si contrappongono nuovi ingressi, nuove conoscenze, capaci anche di assorbire quella che era la (buona) consuetudine di aggiungere pensieri, di integrarne altri, di visitare e ricevere ospiti. Occorreranno nuove risorse e spazi da ritrovare.
Riemergo, comunque e posso finalmente scriverlo, come parte terminale di un tormentato percorso. Nessun problema di salute, va precisato, perché in genere – e purtroppo - quando si sta per un prolungato periodo in silenzio il primo pensiero corre a malattie, riabilitazioni, malesseri fisici. Invece no. Per fortuna, chiaro, anche se in questo non posso rivendicare alcun merito.
Impegnato a risolvere un delicato problema familiare, dove era necessaria la massima attenzione a non pregiudicare i rapporti, a non desistere, anche se la ragione poteva essere dalla tua, ma la sordità aveva trovato collocazione dall’altra parte.  Fatale che la maggior parte delle risorse fosse concentrata laddove era necessario. Fatale che il prolungarsi di questo stillicidio avesse ripercussioni sull’umore, sul morale, riflettendosi poi sulla parte di te che permette di non crollare.
Alcuni riverberi sono entrati direttamente nei miei post, li hanno invasi e non poteva essere diversamente. Quando si comunica, in questo “strano” modo, non si può far finta di niente fino in fondo. O meglio, per un po’ ci si può anche riuscire, ma prima o poi prevaricano le realtà del quotidiano, si comincia ad esserci di meno, a comparire e poi scomparire neppure rendendosi conto della fuggevolezza delle giornate. Dal pieno e cupo autunno nel pieno fulgore dell’estate. E c’è finalmente il sole.
Tutto questo serve anche a spiegare certe scelte che ho operato: molti più articoli postati che non propri commenti, poco spazio al quotidiano, ai “sentimenti” che sono poi il filo conduttore, completo silenzio su altri fronti che sono poi i blog che si frequentano, che si prediligono. Non era quello il tempo delle spiegazioni, amaro dover ricordare, ancora di più pensare alla difficoltà di doversi esprimere. E così ho scelto di non comparire. Sempre pensando alla provvisorietà della situazione. Sempre pensando a come sarebbe stato più gradevole poter tornare ed esclamare: “finalmente!”.
Così è stato un apparire, ma senza esserci con la propria anima, con lo stesso impegno, come mi sono sempre riproposto di fare.
Tra breve staccherò per un periodo di ferie, ma il posticino nella sterminata blogosfera sono tornato ad occuparlo. Anche se la concorrenza di Facebook risucchia tempo e risorse mentali.
Ma le amate sponde del blog, soprattutto degli altri, sono proprio un’altra cosa.


martedì 3 agosto 2010

Quella strage fascista


L’immagine è agghiacciante. Anche 30 anni dopo. Un camion di bare avvolte nel cellophane, pronte per l’uso. Ne servirono 85 nei giorni successivi a quel 2 agosto 1980. Anzi no, 84, perché una donna rimase disintegrata e appena qualche scheggia la pietà umana potè riconsegnare ai suoi familiari. Si chiamava Maria Fresu, quella donna e l’ha ricordata Carlo Lucarelli in apertura del suo programma “Blu notte”. Assieme alla madre morì la figlia: Angela, 3 anni, la più giovane vittima di quella tremenda strage fascista.
Brividi e commozione, sgomento e sconcerto. Riascoltare quel nobil uomo come Sandro Pertini piangere lo strazio provato di fronte a due bambini che stavano morendo.
Mi chiedevo stasera, di fronte all’immensa solidarietà che scattò immediatamente a Bologna e nell’intera nazione, mi chiedevo e ho timore a renderlo pubblico questo pensiero proibito: potrebbe accadere oggi, in questo martoriato Paese, una nuova strage? E se sì, perché? Da parte di chi? Di quegli oscuri burattinai, rimasti nell’ombra da dove hanno depistato per tre decenni? Ma, soprattutto: esisterebbero la medesima solidarietà, l’altruismo, l’abnegazione, lo spirito di sacrificio e di servizio?
Ecco, è la risposta che mi inquieta e non placa quell’arsura che la mancanza di giustizia e verità provoca. Temo, ragionevolmente, che in un’analoga e deprecabile circostanza il cinismo, che ormai permea quello che, sventatamente, si usa ancora definire “vivere civile”, ecco quel cinismo prevarrebbe e – tanti o pochi? - si volterebbero dall’altra parte. Oppure cambierebbero canale.