sabato 28 marzo 2009

Senza tetti né leggi






Secondo giorno di produzione di guano unico. Il Tg1 delle 13:30 ha dedicato i primi 10 minuti alla carnevalata che si sta svolgendo a Roma. Sono pure sfilati i ministri indecenti di questo governo, tra i peggiori: Renatino Brunetta, il misirizzi d’Italia e Maria star Gelmini, somara unica. Il primo, che si è arrampicato sulla scaletta che lo portava al palco, a sua volta dotato di apposito rialzo per evitare che sbattesse con la delicata testina sui microfoni, si è pure commosso replicando ciò che era già avvenuto nel postribolo di Bruno Fede. Le sue sono lacrimucce, appunto proporzionate al fisico da corazziere che si ritrova.


La seconda, più affascinante che mai, ha ragliato al vento e la platea si è identificata nel verso comune. Non si è visto La Russa, evidentemente impegnato a parcheggiare il suo carro armato personale. Intervistati poi i giovani, che per disposizione dell’Io uno e trino, occupavano le prime due file dell’elefantiaca assemblea. Queste braccia rubate all’agricoltura erano tutte identiche tra loro, praticamente una platea di cloni.


Le ragazze, tutte bionde e occhi azzurri, dettavano le loro idee-guida: dio, casa e famiglia. I bamboccioni, tutti rigorosamente in giacca, cravatta, doppio telefonino d’ordinanza, capello luccicante bistrato di gel, abbronzatura non eccessiva e occhiale nero, meglio se sollevato sulla fronte, straparlavano della loro “deideologizzazione”, strizzando l’occhio ai futuri ruoli manageriali.


Aggiungo la dedica di Eugenio Scalfari, nell’apprezzata rubrica “Il vetro soffiato”, ai due geni berluscloniani, secondo me inattaccabili nella hit parade del pessimo gusto (lei) e della volgarità (lui), tanto per citare i primi difetti che  mi vengono in mente.


Poi, per non offrire l’idea di trascurare l’Io uno e trino, tessera P2  n° 1816, la prefazione e l’introduzione da un libro, probabilmente introvabile: “Berlusconi. Gli affari del Presidente” di Giovanni Ruggeri, per la Kaos Edizioni.


 


Gelmini-Brunetta coppia perfetta


I due ministri tolgono con le loro trovate le prime pagine dei giornali a Obama e Berlusconi. Dalle donne in pensione a 65 anni alla nuova paternità per i maschi fino ai regali ai fannulloni


 


Il ministro Brunetta è un fenomeno. Un 'recordman'. Un Guinness da primati. Si dice che aspiri al premio Nobel e non mi stupirebbe che glielo dessero anche se non riesco a individuare in quale disciplina. È animato da un'intensa passione: a qualunque costo deve farsi vedere. E ci riesce perfettamente. Crollano le Borse di tutto il mondo? I giornali italiani hanno Brunetta in prima pagina. Aumenta la tensione con l'Iran? Brunetta non cede. Supera perfino Tremonti nella grafica dei 'media', quanto a Calderoli, per ottenere una citazione deve parlare di lui. 'Brunetta - scherzetto' ha detto a proposito della pensione delle donne e questo gli è valso un po' d'attenzione.


Però era qualche giorno che Obama da un lato e Berlusconi dall'altro con quella storiaccia della giustizia da riformare, avevano oscurato il nome del nostro ministro della Funzione pubblica e così il piccoletto è passato al contrattacco. Con la pensione delle donne, appunto, da portare a 65 anni come per gli uomini. Titolo di apertura sulla carta stampata e nei telegiornali, 'talk show' televisivi, dibattito tra i partiti e tra i sindacati, insomma una 'revenge' in piena regola. Del resto anche questa mia nota a lui dedicata è la dimostrazione di quanto dico: Brunetta come visibilità non lo batte nessuno.


Il problema che questo caso ha sollevato è serio. In linea di principio è appoggiato da quasi tutti, soprattutto dalle donne lavoratrici, dirette interessate. Avere un posto di lavoro di questi tempi sta diventando un privilegio; poterlo conservare per cinque anni di più in attesa della pensione può essere una mano santa per il bilancio famigliare. Purtroppo i licenziamenti si intensificano col passare dei mesi e le lavoratrici precarie sono in prima fila tra le vittime designate; per loro il prolungamento della pensione non servirebbe a niente. A Tremonti invece può servire, 'fa cassa' nel bilancio dell'Inps cioè dello Stato.


La parità tra uomini e donne è comunque l'obiettivo principale che i movimenti femminili hanno scritto nei loro programmi dal 1968 in poi. La liberazione e l'emancipazione delle donne ha infatti come tappa fondamentale da raggiungere quella della parità, dalla quale siamo ancora molto lontani soprattutto nel campo del lavoro e del 'welfare' sui diritti sociali. Non sono parificati gli stipendi, non è parificato l'accesso al lavoro, non sono parificate le carriere né in termini di diritto né, soprattutto, in termini di fatto.


In queste condizioni prolungare l'età di pensione non alleggerisce il problema anzi lo aggrava. Rende più difficile alle donne conciliare la gestione della casa con il lavoro fuori casa in un paese dove difettano gli asili e il tempo pieno nelle scuole.


Ma Brunetta insiste, per lui queste contraddizioni sono una manna. Insiste sollevando un problema strettamente connesso: quello della paternità.


Questo della paternità è un tema che sta molto a cuore anche alla Gelmini per via del tempo pieno nelle scuole. Sulla Gelmini si possono dire molte cose pro e contro, simpatica e antipatica, bella o bruttina; ma su una cosa siamo tutti d'accordo: anche lei è un asso della visibilità, la sola (a parte Obama e Berlusconi) che può competere con Brunetta. Se poi dovessero addirittura far coppia diventerebbero irresistibili. Megagalattici, come si dice.


Ebbene, sul tema della paternità fanno coppia. Forse il significato di questa parola, che sta entrando di forza nel nuovo 'welfare', è ancora un po' oscuro, perciò cerchiamo di chiarirlo.


Il tema della paternità significa che il marito della donna-lavoratrice deve condividere con lei la funzione e il lavoro casalingo, nella gestione dei figli e più in generale della casa. Se la donna lavora, la condivisione della responsabilità casalinga diventa una necessità. Ma se, come è auspicabile, lavora anche l'uomo, la condivisione non può che significare un minore impegno dell'uomo nella sua carriera.


Brunetta (e Gelmini) parlano di incentivi all'uomo per invogliarlo ad assumere sempre più e meglio la sua parte casalinga senza trascurare troppo il suo lavoro fuori casa e la sua carriera. Insomma in una società ideale doppio lavoro per l'uno e per l'altra. Una coppia moderna. Ha detto Brunetta ai suoi contraddittori: "Volete forse far ritornare la donna all'età delle caverne e del paleolitico?".


È chiaro: Brunetta e Gelmini terranno le prime pagine almeno per altri tre mesi e poi ne inventeranno un'altra per continuare a farsi vedere. Il ministro della Funzione pubblica, lui, sta già preparando il nuovo fuoco d'artificio da lanciare: vuole premiare i 'fannulloni', pagandoli senza che vadano al lavoro, con metà stipendio. Potranno magari cercarsi un secondo lavoro. Fare per esempio i badanti e i casalinghi a mezzo servizio e a prezzi stracciati.


Quest'uomo, questo Brunetta, è formidabile. E pensare che era socialista (come Tremonti) e la sinistra se l'è fatto sfuggire.


L’espresso (23 dicembre 2008)










Gli scandali di Segrate-Milano 2: licenze edilizie, rotte aeree e il prete spretato don Luigi Verzé. Capitali dalla Svizzera, società di prestanome, finanziario-paravento e flussi occulti del riciclaggio internazionale. L’eredità dei marchesi Casati Stampa, l’avvocato Previti, il senatore Bergamasco e la villa di Arcore. La banda massonica P2, le “notizie” di Mino Pecorelli e l’assalto berlusconiano alla presidenza della Cariplo. Berlusconi-Dell’Utri-Mangano e le ombre di Cosa Nostra. Inchieste giudiziarie sulla Fininvest: Mani sporche contro Mani pulite.


 


Giovanni Ruggeri, inviato del settimanale “Gente”, è autore di lavori per la Tv e la raadio. Nell’ambito della sua attività letteraria, ha diretto al collana “Libri del Dissenso (Vallecchi) e “Studio” (Longanesi). Ha scritto, insieme a Mario Guarino, il best seller Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv (Kaos Edizioni 1994)


 


Prefazione


 


BERLUSCONI


Gli affari del Presidente


1994 Kaos Edizioni


Prima edizione novembre 1994


 


“Milano è la città in cui un certo Berlusconi di 34 anni costruisce “Milano 2”, cioè mette su un can­tiere che costa 500 milioni al giorno. Chi glieli ha dati? Non si sa. Come è possibile che un giovanot­to di 34 anni come questo Berlusconi abbia un “jet” personale con cui raggiunge nei Caraibi la sua barca che sarebbe poi una nave oceanografi­ca? Noi saremmo molto curiosi, molto interessati a sapere dal signor Berlusconi la storia della sua vita: ci racconti come si fa a passare dall'ago al milione o dal milione ai cento miliardi”


 


GIORGIO BOCCA ‑ Marzo 1976


 


Introduzione


 


Nell’autunno del 1993, mentre col collega Mario Guarino lavoravamo alla revisione e all’aggiornamento del nostro libro Berlusconi.  Inchiesta sul signor Tv, il Cavalier Berlusconi divulgava una delle sue tante amenità attraverso le pagine dì uno dei suoi compiacenti settimanali: “Fondare un nuovo partito? Ho sempre dichiarato il contrario e questa è la ventesima volta che lo ripeto. Ma anche stavolta qualcuno farà finta di non aver sentito” 1.


Pochi mesi dopo, cioè nel gennaio 1994, mentre ultimavamo la nuova edizione del nostro libro‑inchiesta, previa sceneggiata “amaro calice” lo scaltro Cavaliere “scendeva in campo” ufficialmente, alla guida del partito‑setta FININVEST (detto, con fantasiosità da spogliatoio calcistico, “Forza Italia”) e alleato coi neofascisti, con l’obiettivo di conquistare il potere politico alle elezioni del successivo 27‑28 marzo.


 


Rispetto alla travagliata prima edizione (marzo 1987), la nuova edizione di Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, edita nel febbraio 1994, conteneva nuove e gravi notizie in merito ai trascorsi berlusconiani e all'oscuro divenire del gruppo FININVEST 2, e la sua pubblicazione coincideva3 con l'inizio di una importante campa­gna elettorale che vedeva l'imprenditore craxiano candidato al­la presidenza del Consiglio. Mentre il nostro libro‑inchiesta si attestava ai primi posti delle classifiche dei best seller librari, e mentre editori tedeschi, france­si, spagnoli, scandinavi trattavano i diritti di edizione nei rispettivi


Paesi, aveva luogo una campagna elettorale nel corso della quale la grande stampa nazionale si occupava diffusamente del “nuovo” candidato no 1 alla guida del Paese. Così, quotidiani e settimanali informavano i propri lettori‑elettori che il Cavaliere ama il risot­to, detesta le mani sudaticce, ha cinque zìe suore e adora la sua mamma, calza scarpe coi rialzo per avere più statura, e cela le sue rughe in Tv con una calza di nylon posta sull’obiettivo, mentre la sua fedele segretaria Marinella lo segue sempre dappresso con un beauty‑case contenente make up capace di tamponare le crudezze del vero sulla faccia finta del Magnetico Cavaliere; oppure, gli si dedicavano intere pagine di forbite “analisi” e dotte dissertazioni sociologiche. Una sceneggiata pseudo‑informativa, rivelatrice del­l'imminenza di un nuovo regime nel nome e nel segno di un premier già affiliato a una setta massonica segreta sciolta a norma di legge, riconosciuto colpevole di falsa testimonianza da un Tribunale della repubblica, già in affari col mandante di un tentato omicidio4, legatissimo al supercorrotto Bettino Craxi, e organico alla banda politico-affaristica Dc‑Psi; nel nome e nel segno del capo di un gruppo plurinquisito per corruzione e gravi reati fiscali, dall’oscuro passato azionario e finanziario, e sul quale gruppo gravano concreti sospetti di collusione con Cosa Nostra.


La sera del 10 febbraio 1994, sono stato invitato alla trasmissione Tv dì Rai 3 “Il Rosso e il Nero” per parlare del libro. Subito dopo il mio intervento, il soggetto della nostra inchiesta ha fatto una concitata irruzione via telefono nello studio televisivo. Nel corso del suo vaniloquio5, ha tra l’altro affermato di avere querelato il nostro libro: ciò è falso, poiché si è limitato a intentare, nel 1987, una semplice azione civile per “risarcimento danni” (!) a tutt’oggi ancora pendente presso il Tribunale di Roma; poi, nel tentativo di screditarmi presso i telespettatori, ha sostenuto che sarei già stato “condannato dai Tribunali italiani”: anche questa essendo una falsità, ho provveduto a citare il Cavaliere in Tribunale.


         All’indomani della trasmissione di Rai 3, le reti del tycoon si so­no precipitate a lavare l’onta di lesa maestà. Dal Tg di “Italia 1”, l’avvocato Dotti ha svolto un’estemporanea arringa in difesa del suo Sommo Cliente, definendo Inchiesta sul signor Tv “libro di ingiurie e di calunnie e di diffamazioni nei confronti dei dottor Berlusconi”6. La stessa sera, dal podio dì casa Berlusconi “Radio Londra”, il maestoso trombone della Fininvest Giuliano Ferrara (ex megafono della banda craxiana) non ha trovato di meglio che definirmi “diffamatore di professione” (ne risponderà pure lui in Tribunale).


 


Che il Padreterno della Fininvest fosse destinato a diventare un “Intoccabile” del Potere, l’avevamo compreso fin dal 1986, quan­do al solo annuncio della prossima pubblicazione del nostro libro ­inchiesta venimmo fatti oggetto di pressioni, minacce, diffide.


Dapprima, il clan berlusconiano tentò di corromperci offrendoci denaro e altro in cambio dei diritti del libro (che così non sarebbe mai stato pubblicato). La Fininvest diffidò poi tutta la stampa italiana dallo scriverne, querelò a raffica interviste e articoli ine­renti il libro (ma mai il libro stesso, che infatti non è mai stato querelato), e mise in atto pressioni di vario tipo sugli Editori Riuniti (editori della la edizione) affinché non venisse pubblicato. Così, la nostra Inchiesta sul signor Tv venne edita dagli Editori Riuniti con sei mesi di ritardo sui tempi previsti; e a dispetto dell’immediato successo, dopo due ristampe nell’arco di due mesi, la casa editrice del Pci lo eliminò dal catalogo, e il libro risultò irreperibile.


Alcuni anni dopo, la vicenda del nostro libro è riemersa nell'am­bito dell’inchiesta “Mani pulite”. Il 9 settembre 1993, i quotidiani informavano che, in seguito alle dichiarazioni dell'imprenditore librario Flavio Di Lenardo (secondo il quale vi sarebbe stato un accordo tra la FININVEST e il Pci, avente tra l’altro per oggetto il nostro libro e un contratto di Publitalia con l’URSS), “oggi su quel libro il Pm Tiziana Parenti vuole vederci chiaro... Sta indagando sui presunti finanziamenti illeciti al Pci, ed è su questo che il Pm vuole sentire come teste il “Signor tv” e Fedele Confalonieri... È probabile che Berlusconi sarà sentito a metà ottobre”7.


Non è dato sapere se il Pm Parenti abbia poi “sentito” il teste Berlusconi per le “mazzette rosse” e i maneggi intorno al nostro libro; è invece certo che lo ha “sentito” per potere diventare, quattro mesi dopo, deputata berlusconiana.


 


Negli Stati Uniti, sempre decantati (a proposito e a sproposito) quale compiuto esempio di “democrazia avanzata”, i mass media esercitano il ruolo di “controllori” del potere politico. Nell'ambito dì questa essenziale funzione, la stampa Usa “viviseziona” il Presi­dente e i suoi ministri e collaboratori, sondandone il passato e vigilandone il presente, fin dal momento della loro candidatura (l’accanimento è tale che sì arriva a frugarne perfino il letto...).


Dopo Berlusconi. Inchiesta sul signor Tv, e dopo l'avvento dei rappresentanti della FININVEST (con contorno di neofascisti) ai vertici dello Stato, ho ritenuto doveroso, come giornalista libero, proseguire e approfondire l'Inchiesta sui trascorsi del presidente del Consiglio Berlusconi, non diversamente da come avrebbe fatto la stampa “anglosassone” nei leggendari Stati Uniti. Consapevole come sono che né negli Usa, né in alcun'altra democrazia occiden­tale, potrebbe mai accadere che un oscuro miliardario arrivi a insediarsi al vertice del potere politico mediante il monopolistico controllo, diretto e indiretto, dei mass media.


 







1 Cfr. "Epoca", 19 ottobre 1993. In realtà, la cupola FININVEST era da mesi "segretamente" mobilitata alla preparazione di 'Forza Italia" e al lancio della candidatura a capo del governo del suo messianico leader, in previsione delle elezioni politiche anticipate della primavera 1994.


 




2 Tra l'altro, si indicava nella Banca Rasini (partner di Berlusconi nelle sue prime avventure edilizie degli anni Sessanta‑Settanta) uno dei crocevia della "mafia dei colletti bianchi" radicata a Milano e dedita al riciclaggio dei capitali sporchi. Vi veniva ricostruita l'ambigua genesi romana del gruppo Fininvest, all'ombra di due fiduciarie della Banca Nazionale del Lavoro controllata dalla Loggia P2. Venivano rivelati i contatti dei due gemelli Dell’Utri con esponenti di Cosa Nostra, e di Marcello Dell’Utri col boss Vittorio Mangano. Vi si narravano le scorribande berlusconiane in terra di Sardegna per il tramite del prestanome Romano Comin­cioli, tra loschi affaristi, malavitosi e speculazioni edilizie. Veniva riportata la sequela di assegni a vuoto e cambiali “protestate” a firma di Fedele Confalonieri nel periodo 74-79, e venivano evidenziate sospette “coincidenze” tra la Fininvest e il corrotto giudice Diego Curtò. Soprattutto, veniva rivelato come le misteriose hol­ding che detengono il capitale Fininvest non siano 22, bensì almeno 38.


 




3 Una pura coincidenza, per l'appunto: nell'estate dei 1993, la piccola e coraggiosa Kaos Edizioni ci aveva proposto la riedizione dei nostro libro‑fantasma, aggiornato e ampliato, e a gennaio avevamo ultimato il lavoro.


 




4 Cioè il faccendiere sardo Flavio Carboni, condannato in primo grado quale man­dante dell'attentato al vicedirettore del Banco Ambrosiano Roberto Rosone




5 “Questo signore... vedo che sì fa anche la barba, e quindi la mattina si alza, fa la barba, si guarda nello specchio... è bell'e rovinata la giornata ... ”: è uno degli "argomenti" che l'intrepido Cavaliere ha sviluppato per replicare al mio, intervento televisivo.




6 E perché mai, allora, l'onorevole avvocato Dotti non è stato incaricato dal suo onorevole dottor Berlusconi di sporgere querela?




7 Cfr. "Corriere della Sera", 9 settembre 1993, sotto il titolo Berlusconi testimone nell'inchiesta sulle mazzette rosse (occhiello: “"Confalonieri voleva bloccare un libro scomodo, offri denaro a un editore vicino al PCI". La Fininvest: è tutto falso”).


 



Il guano unico








La vignetta di Altan, tratta da “L’espresso” del 25 settembre 2008, definisce in maniera eccellente lo stato in cui versa l’Italia che, senza dubbio, con il Capo e i suoi scherani ha già accresciuto in maniera stratosferica la produzione di cui si parla. Non potrebbero produrre altro. L’apogeo si toccherà in questo fine settimana quando l’ometto (tessera P2 n° 1816) diventerà partito unico, con pensiero unico (il suo) e la libertà (sua) di fare ciò che vorrà. Viva, sempre viva, la libertà.


A modo mio celebrerò questo ulteriore passo verso il baratro postando alcuni articoli assai istruttivi. Comincio con Giorgio Bocca e, occhio alle date.


 


II deserto del Cavaliere


GIORGIO BOCCA


 


Ci siamo sbagliati: non è il piccolo Cesare ma il pic­colo Attila. Cesare era un letterato, un grande statista, un riformatore. Il cavaliere di Arcore passa invece come una tem­pesta nei campi dell'informa­zione e della cultura alla testa dei suoi barbari armati di telefo­nino e di computer. La sua mae­stra è stata la lady di ferro, la si­gnora Thatcher che gli ha confidato l'arte del potere: non legge­re mai i giornali. E nemmeno i li­bri. Bastano i cellulari. In Cina mentre era in ascensore ha potuto telefonare alla madre con un aggeggio elettronico del pe­so di dieci grammi lungo cinque centimetri. Che si vuole di più dalla vita? I veri ometti autoritari li riconosci dal fatto che tratta­no come servi, come pezze da piedi i loro sudditi. A Roma il Ca­valiere presentava un libro di Bruno Vespa, e aveva al fianco due direttori di giornali. E gli di­ceva, alla brutta, che la parola scritta è come una carrozza a ca­valli rispetto a un'automobile. Ai piccoli Attila di questo tempo non mostrate mai ciò che di no­bile, di civile sopravvive nella società umana: lo azzannano, lo fanno a pezzi, lo deridono. E se ne vantano. Si sa che l'informa­zione pubblicitaria televisiva è una cassa di risonanza del pen­siero unico, persuade la gente che non c'è alternativa, che il denaro non è la farina del diavolo ma il motore dello sviluppo. Ma a lui questa informazione va benissimo, dice a una platea di giornalisti che sono dei patetici sorpassati, che nessuno li legge, che sono retrogradi e impoten­ti. E sa che sarà pure applaudito dagli embedded, da quanti fan­no parte del regime, del sistema.


La sicurezza dei padroni di oggi si esprime, si manifesta, si legalizza con l'arroganza. Il pre­sidente Bush non si affida ai di­plomatici per mettere in riga i paesi dissidenti, gli fa sapere che li ha esclusi dai buoni affari della ricostruzione in Iraq, e co­sì Berlusconi fa sapere alla stampa italiana riottosa e im­pertinente che le taglierà i fondi. Come si permette di protestare contro il suo monopolio? Ma non basta. I nemici della libera informazione non si acconten­tano di soffocarla, vogliono an­che essere riconosciuti come i suoi protettori: «Quale giornali­sta italiano - dice il Cavaliere - non può scrivere ciò che vuo­le?». Nel suo diario forse, non nei media che dipendono da lui. Chi dirige la televisione pubbli­ca ha capito l'antifona: non li­cenzia gli oppositori, gli indisci­plinati, gli eretici. Gli fa cortese­mente sapere che non sono in li­nea con i "programmi di produ­zione", con le regole della pro­duzione, cioè con il padrone. Siano ragionevoli, accettino una censura preventiva, i rinvii che vanificano il lavoro, rispet­tino chi ti può chiedere milioni di danni. E più il potere si sente in pericolo, più deve spiegare i suoi fallimenti, più alza la voce e fa schioccare la frusta. Bush co­me Berlusconi si ricandidano, vogliono altri mandati e se non glieli daranno se li prenderanno perché alle loro spalle ci sono i soldi e quelli che partecipano al bottino. Ha ragione il nostro a cantare le meraviglie della tele­visione: ci fa un sacco di miliar­di e grazie a lei ha cancellato l'opposizione sociale, ha arric­chito i ricchi e impoverito i po­veri che non si lamentano nep­pure e se lo fanno, come i tran­vieri di Milano, passano pure per sovversivi.


«Non è un attacco - dice il Ca­valiere - è una constatazione». Come no! «Ormai c'è Internet - dice - il futuro è digitale», lo sappiamo Cavaliere, la conosciamo questa informazione avanzata, la vediamo ogni giorno la fuga in avanti della tecnologia che met­te a tacere l'esame del presente e ci fa vivere in un futuro che non c'è ma è come se ci fosse. Lo sap­piamo che prolificità e velocità hanno moltiplicato gli inganni e i condizionamenti e che siamo quotidianamente impegnati in una battaglia per resistere, per salvare la libertà e la dignità. Ma lei ci va a nozze con lo scempio, lei con i suoi cavalieri mongoli della pubblicità spazza ogni re­sistenza, ogni dissidenza, il peg­gio la inebria, la compagnia dei servi la rincuora, premia i lac­chè, licenzia i capaci. Di che si lamenta Enzo Biagi? I colleghi gli hanno pure dato un premio, hanno riconosciuto che in tele­visione era il migliore. Di che si lamentano i satirici che la diffa­mano e non fanno ridere? Gli uomini di comando non si ar­rendono mai. Se cadono si rial­zano, se perdono una battaglia continuano la guerra. La politi­ca aggressiva di Bush è fallita, l'America si è cacciata in un pantano da cui non sa come uscire, ogni giorno soldati ame­ricani vengono uccisi. E allora si progetti il soldato invincibile, con il computer incorporato nell'elmetto, che vede nel buio e colpisce infallibilmente il nemi­co. È dal Vietnam che si coltiva­no queste leggende marziali in cui tutto è previsto, salvo che le bombe continuino ad ammaz­zare civili e bambini. Ma il Cava­liere indomito dopo aver distrutto la stampa riottosa e im­pertinente vuol essere più falco dei falchi, dice che il nostro fu­turo sarà una guerra continua per imporre la democrazia al mondo intero. Il marxismo "scientifico" come lo chiama­vano i comunisti dogmatici, ha commesso molti errori di previ­sione e di analisi. Ma il più grave forse è di non aver tenuto in de­bito conto il ruolo nella storia delle forti personalità. Ma ci pensate alla quantità di guasti, di prepotenze, di errori di cui siamo debitori al piccolo Attila?


 


la Repubblica (12 dicembre 2003)

mercoledì 25 marzo 2009

Quel massacro di 65 anni fa - 3




LUGLIO 1944.  IL RITROVAMENTO





QUEI CORPI NELLE CAVE. CRONACA DI UN ORRORE


All'interno delle cave c'è il buio completo. Al momento del ritrovamento, le 335 salme si presentavano orrendamente mutilate. I nazisti tentarono di nascondere l'eccidio, minando le gallerie.«Collocata la salma su un tavolo anatomico aveva inizio lo studio medico-legale». Ecco come vennero identificate le 335 vittime delle Fosse Ardeatine


PAOLO PETRUCCI





«Presso le tombe dei Martiri cristiani altre tombe si sono aperte per i mar­tiri della Patria. Questi e quelli morirono per la libertà e la dignità dello spirito contro la pa­gana tirannia della forza brutale». Così un manifesto partigiano affisso per le vie di Ro­ma subito dopo la liberazione della capitale. Dalla Porta di San Sebastiano dopo un chilo­metro sulla via Ardeatina si trova la chiesetta del "Quo Vadis", e da lì si raggiunge il luo­go dove venne consumato il più brutale ster­minio nazista: il 24 marzo 1944 trecentotrentacinque uomini, diversi per età, fede religio­sa e convinzione politica vennero assassinati dentro le cave di pozzolana.


«Il colpo al cervello fu ordinato da me. Il numero delle vittime in pro­porzione ai miei uomini, non am­metteva che su ogni vittima si spa­rasse più di un colpo. L'unico col­po sicuro era al cervelletto». Her­bert Kappler durante il processo che lo con­dannò all'ergastolo come organizzatore della strage delle "Fosse Ardeatine" non tradì la sua principale caratteristica di uomo dagli occhi di ghiaccio: la freddezza spietata. Eppure com­mise un errore, perché nel ricordare quell'or­dine da lui impartito, si espose alla più deplo­revole delle infamie per un comandante na­zista: la disubbidienza dei propri soldati. Nell'esame anatomico, necessario per la ricomposizione delle salme e poi per il ricono­scimento, in alcune vittime furono riscontrati più di un colpo sparato per sfondare il cranio. In una salma si distinguono nettamente quat­tro colpi dietro la nuca nella zona occipito-nucale. In un'altra, due fori di ingresso di proiet­tile nella regione occipitale, che nell'uscita de­terminarono lo scoppio del cranio. Quasi tutti i corpi furono ritrovati in posizione prona, con le mani legate dietro la schiena.


«Per evitare il deterioramento dei cadaveri e per riguardo al senso fisico e psichico della vittima - spiegava Kappler nella deposizione -, diedi ordine di non appoggiare l'arma e che, nonostante questo, il colpo venisse sparato dal­la più vicina distanza possibile per essere sicuri dell'effetto». Alla fine delle trecentotrentacinque esecuzioni i nazisti tentarono di na­scondere ogni traccia del massacro minando le cave. Non riuscirono nell'intento, che ebbe invece l'effetto di far risaltare ancora di più la loro ferocia, quando, al momento del ritrova­mento, le salme si presentarono orrendamen­te mutilate (per trentanove di esse non fu pos­sibile ricomporle con la testa).


«Le Fosse Ardeatine», come subito i romani chiamarono il luogo del massacro sono indivi­duabili sulla vecchia strada. Il piano è costitui­to da numerose gallerie che hanno in lunghez­za uno sviluppo dai cinquanta ai cento metri ed un’altezza oscillante dai quattro ai sei metri. Le gallerie si intersecano l'una con l'altra e, per via di una soprelevazione del terreno, si tro­vano sul piano stradale. All'interno della cave c'è il buio completo. Dalla strada si entra diret­tamente nella cava lunga ventiquattro metri, dopo quindici metri il crollo di una volta non permette di continuare. La commissione d’­inchiesta accertò che la causa del crollo fu una bomba.


Roma era ancora occupata dai tedeschi e per questo l'operazione di recupero si pre­sentava particolarmente difficile. Al tempo stesso tale era la gravita del fatto che tutti gli ostacoli vennero superati con una spinta di solidarietà che si iscrive nei momenti più alti della Resistenza.


Il rinvenimento e poi il riconoscimento delle salme avvenne solo a luglio, quattro mesi dopo l'eccidio, e fu reso possibile da un eccezionale coordinamento di forze: Carabinieri, Croce Rossa, personale del Verano (tra cui il diretto­re ), Vigili del fuoco, una ditta attrezzata per l'oc­casione, l'ufficio tecnico del Comune, che con­corsero affinchè il rinvenimento delle «Fosse Ardeatine» diventasse un monumento alla brutalità dell'uomo sull'uomo.


«Collocata la salma su tavolo anatomico - ri­corda Attilio Ascarelli - aveva inizio su ciascu­na di esse lo studio medico-legale per il ricono­scimento e per le altre particolarità che il caso presentava. L'indagine tecnica fu da me orga­nizzata ed io, per forza di cose, per dovere d'uf­ficio, recandomi alle Cave tutti i giorni per mol­te ore, assunsi di fatto la direzione di tutti i la­vori che colà si compivano coadiuvato da vo­lenteroso ed adatto personale...». Il primo so­praluogo, all'inizio di luglio, servì a stabilire i punti della galleria dove si trovavano i cada­veri. Poi si proseguì in un delicato lavoro di ri­conoscimento; ad ogni vittima veniva assegna­to un numero progressivo, che rispettava l'or­dine di esumazione, poi un sacerdote, don Um­berto dei Frati di san Sebastiano provvedeva alla benedizione. Un rabbino interveniva quando era possibile stabilire l'appartenenza alla religione ebraica. Per quanto riguarda il trattamento delle vittime prima dell'esecuzio­ne Kappler entra nel merito: «In presenza di Shutz, feci domanda se poteva essere ammes­so un prete. Mi venne risposto che, in caso di esecuzione, le vittime avrebbero cercato di parlare il più possibile e preferii così di non chiamare alcun cappellano, anziché dover co­stringere le vittime ad essere separate dal cap­pellano dopo qualche istan­te. Non credo che sarebbe stato meglio che niente, perché, quan­do il cappella­no si mette in contatto con questi esseri umani, è mol­to duro farli al­lontanare in pochi secondi. Ho preferito così non chia­marlo. Ho det­to che il carat­tere di esecu­zione normale doveva essere eseguito in rapporto alle circostanze ed al luogo».


Il piano dei lavori venne studiato nei dettagli dall'ufficio di igiene, dall'ufficio tecnico del co­mune per la parte edile, dall'Acea per le istal­lazioni idrauliche e dal Provveditorato per l'ar­redamento. Le gallerie vennero attrezzate di impianti elettrici, e venne assicurato il massi­mo livello igienico sia per il personale che per i visitatori. Sulla strada venne allestita una ten­da per il pronto soccorso, e alcune gallerie ven­nero allestite a reparto medico, con i tavoli ana­tomici, con tutto il necessario per le indagini. Un'attrezzatura di lavaggio e di disinfestazio­ne venne collocata all'ingresso delle cave. I ca­rabinieri garantirono la sorveglianza.


Rimosse le frane che ostruivano i punti diversi delle esecuzioni, il 26 luglio fu iniziata la ri­mozione delle salme e lo studio medico legale di ognuna di esse. Il lavoro di esumazione costituì la parte più complicata, e venne svolta dal personale del Verano, dai Vigili del Fuoco e dall'im­presa diretta da Attilio Ascarelli, che ebbe il compito di ripulire le gallerie. Nelle macerie vennero ritrovate trecento cartucce di dinamite e trenta bombe di tipo spezzone. «Dare un’idea esatta di come si presentavano que­sti carnai è cosa che io non so esprimere con adeguate parole - testimonia Attilio Ascarelli - il senso di orrore e di pietà che ne ritraeva il visitatore è superiore ad ogni immaginazio­ne». Due gruppi di cadaveri occupavano uno spazio di cinque metri di lunghezza e tre di larghezza e un metro e cinquanta di altezza. Le salme si presentavano ammucchiate, ri­coperte in parte da terriccio, del tutto irrico­noscibili per la decomposizione. I corpi era­no sovrapposti in tre strati nella galleria A; e in cinque strati nella galleria B. Quasi tutti avevano le mani legate dietro la schiena con cordicelle robuste. Vennero riempiti scheda­ri di identificazione: nove gruppi per età, cin­que per statura, quarantadue per professio­ne. Le famiglie avevano compilato i questionari in cui riferivano i tratti somatici, l'altez­za, la professione e l'età del congiunto. Di ciascun cadavere venne redatto un verbale giu­diziario tenendo conto anche delle vesti di ognuno e di ogni particolare; spesso si tratta­va di resti irriconoscibili.


L'indagine per ricostruire la vicenda fu di­retta dal colonnello Pollock, del comando di po­lizia alleata. Le vittime - accertò l'inchiesta - era­no state caricate su furgoni di quelli in uso per le carni dal macello, e per la via Appia condot­ti alle cave Ardeatine. Tutte le vie erano sbar­rate da Ss, che presidiavano l'ingresso delle ca­ve. Ciascun automezzo trasportava sessanta, ottanta uomini. I camion entrarono a marcia indietro, e i prigionieri venivano subito avviati all'interno delle cave nel luogo prescelto per l'esecuzione. Gli spari iniziarono alle 16,30 del 24 mar­zo e proseguirono per tre ore. Poi ripresero al­le 14 del giorno 25. Tutte le esecuzioni vennero compiute con proiettili calibro nove. Il termine del massacro venne segnato dall’esplosione di quattro o cinque mine.


Un porcaro, Nicola D'Annibale, da un terreno prospiciente, poté assistere inos­servato a tutta l’esecuzione; ne rilasciò un’importante testimonianza.


 


AVVENIMENTI


18   MAGGIO   1994

martedì 24 marzo 2009

Quel massacro di 65 anni fa - 2



KAPPLER/LA CONFESSIONE


«COSI' AMMAZZAI 335 ITALIANI»


 


«Sapevo quello che dovevo chiedere ai miei uomini». «La lista era tenuta da Priebke». «All'albergo Excelsior, andai la sera». «È ve­ro, offrii ai miei uomini una bottiglia di co­gnac». Pubblichiamo stralci della confessio­ne di Herbert Kappler al processo che lo con­dannò all'ergastolo





Non ricordo l’ora in cui telefonai aWinden. Quella notte fe­ci molte telefonate.


Mi fu detto nel corso dell'istruttoria che Winden non era in ser­vizio, ma posso confermare che parlai proprio con lui.


È vero che il posto di Winden era stato occupato da Köler. Co­noscevo Winden personalmente e per questo mi rivolsi a lui. Credo che fossero quattro le condanne a morte non eseguite. A lui chiesi che mi venissero consegnate le persone che avrei fatto elencare nella notte e quelle da noi assegnate al Tribunale e non ancora processate. Volevo così aumentare il numero dei prigionieri degni di morte. Pregai ancora che mi venissero con­segnate persone condannate non a morte ma a pene tempora­nee per indulgenza. La prima e la seconda richiesta furono da lui accolte mentre la terza non fu accettata per motivi giuridici. Comunque mi disse che ne avrebbe parlato al capo del Tribu­nale Militare.


Nella notte tra il 23 e il 24 mi vennero portati gli elenchi par­ziali delle persone che dovevano essere giustiziate.


Penso che gli uomini dichiarati degni di morte siano stati 170.


A questo punto mi trovai nella necessità di dovere includere gli ebrei.


A mia memoria il numero degli ebrei era di 57. Se non aves­si messo gli ebrei, avrei dovuto aggiungere persone la cui col­pevolezza era mano chiara oppure avrei dovuto aggiungere le 110 persone rastrellate in via Rasella.


Quest’ ultima soluzione sarebbe stata per me più semplice, ma volevo portare la decisione ad un male minore possibile. De­cisi allora di rivolgermi alla polizia italiana e di includere gli ebrei che si trovavano a nostra disposizione i quali, fra qual­che giorno, avrebbero dovuto essere trasferiti in campi di con­centramento in Germania per tutta la vita.


Come gli ebrei aumentarono di numero lo dirò in seguito.


La lista complessiva era di 270 persone; 50 le doveva dare la polizia italiana.


Vidi i fascicoli di quelli che erano a nostra disposizione. Non esaminai quelli dei condannati la cui responsabilità fu assunta da Winden.


Non erano a mia disposizione quelli del 3° braccio di R. Coeli, ma del tribunale militare tedesco. Quelli a mia disposizione erano a via Tasso e solo pochi si trovavano al 3° braccio.


Non so come si svolsero le cose per il ritiro delle vittime. Non era compito mio, ma dell'ufficiale che aveva designato Schutz. So­lo per caso, vidi un trasporto.


Non ero al corrente che tra le vittime c'erano dei minorenni, lo ordinai di segnalarmi uomini e non dissi che dovevano essere maggiorenni. Ammetto che non dissi di non proporre minoren­ni, ma uomini. Tale vocabolo in tedesco esclude la possibilità di minorenni.


Non esaminai nome per nome gli ebrei e non mi venne in men­te che ci potevano essere minorenni. Non avrei potuto esamina­re in una notte 320 fasciscoli. Potei farlo quando, per un gruppo di persone, c'era un solo fascicolo.


I singoli casi che mi venivano presentati erano stati già esami­nati da chi li aveva ritenuti degni di morte. (...)


Ricordo che Don Pappagallo venne incluso nella lista perché socio attivo di un gruppo di comunisti. La sua attività non era di umanità generica. In caso affermativo non avremmo proceduto contro di lui.


II generale Simoni non occupava una posizione insignificante nel movimento Montezemolo.


Il caso del generale Artale non lo ricordo.


Non ricordo i fratelli Cibei. Essi furono messi nell'elenco, ma non coscientemente. Furono fucilate cinque persone in più di quelli che erano nell'inten­zione e non sarà mai possibile accertare come queste cinque persone furono avviate alle Fosse Ardeatine. Ho avuto con­ferma, qualche giorno fa, che quando si andarono a preleva­re a Regina Coeli le 50 perso­ne indicate dalla polizia italiana, non tutto si svolse regolarmen­te e che un impiegato, spaven­tato dalla presenza dell'ufficia­le tedesco, aprì una cella dove c'erano delle persone in più. (...)


Non è vero che io diedi ordi­ni espliciti a Caruso. Ciò avven­ne una sola volta in occasione delle azioni contro conventi ed istituti del Vaticano.


Dissi a Caruso che l'elenco doveva essere fatto in ordine di gravita. Più tardi, mi fece sapere che la polizia poteva scegliere 50 persone e che alle 11 mi avrebbe trasmesso l'elenco. Con Cerutti, Alianello e Caruso, non si parlò mai di ottanta persone.


Mi fu rimproverato che erano state messe nell'elenco persone di rango elevato, ma la posizione sociale non era il criterio della nostra scelta. 1270 nomi dimostravano la composizione dei vari gruppi, appartenenti a diverse categorie sociali. Avevo l'intenzio­ne di dare l'importanza di una vera e propria rappresaglia milita­re e di fare un ammonimento alla popolazione per l'avvenire. (...)


Accettai l'ordine perché in caso di rifiuto, l'ordine sarebbe stato eseguito ugualmente. Alle ore 12,30 circa ritornai nel mio uffi­cio. Nonostante la guerra e nonostante che migliaia di persone morissero per la guerra, gravava su di me più l'ordine di dover effettuare l'esecuzione, che nella notte precedente il dover com­pilare la lista.


Sapevo quello che dovevo chiedere ai miei uomini. Non ero un comandante di battaglione per cui avrei potuto dare l'incarico ad un comandante di compagnia.


Non avevo mai presenziato ad un’esecuzione, nonostante la mia professione.


Tra me ed i miei compagni non esisteva alcuna distanza. Con loro dividevo gioie e dolori. (...) Il colpo al cervello fu ordinato da me. Il numero delle vittime, in proporzione ai miei uomini, non am­metteva che su ogni vittima si sparasse più di un colpo. L'unico colpo sicuro era al cervelletto.


Per evitare il deterioramento dei cadaveri e per riguardo al sen­so fisico e psichico della vittima, diedi ordine di non appoggiare l'arma e che, nonostante questo, il colpo venisse sparato dalla più vicina distanza possibile per essere sicuri dell'effetto. Suppongo che sia costretto a parlare di queste cose. La riunione nel mio ufficio durò al massimo un quarto d'ora.


L'idea di fare effettuare l'esecuzione in una grot­ta partì da me.


Il tempo fissato, la vicinanza del fronte ed il bre­ve tempo a mia disposizione non mi avrebbero permesso di costruire un cimitero.


Queste riflessioni mi portarono all'idea di far creare una camera mortuaria.


Non credo che avrei potuto usufruire del For­te Bravetta perché le vittime venivano prima le­gate a una sedia e slegate dopo l'esecuzione.


In tali condizioni non era possibile eseguire l'esecuzione nel tempo stabilito dall'ordine. (...) Alle 13, andai a mensa ma non per mangiare. Andai per trovare gli uomini liberi dal servizio. Rivolsi ai presenti alcune parole.


In quell'occasione venni a sapere da Schutz che era morto il trentaquattresimo soldato. Ri­sposi, allora, che quella questione non finiva più e manifestai la mia preoccupazione per comple­tare la lista. Mi fu risposto che erano stati arre­stati 10 ebrei e che sarebbero stati a disposizione. Poiché non avevo altra possibilità accettai la pro­posta.


L'elenco che portai a Maeltzer era di 270. L'or­dine non diceva che dovevano essere 320, ma che per ogni soldato tedesco dovevano essere uccisi 10 italiani. Non era dunque necessaria alcuna autorizzazione per aumentare la lista. Nel cortile di via Tasso vidi Schutz. C'era Thunnat. (...) I camion dovevano giungere in modo che non dovevano at­tendere fuori.


Ero presente ma non so chi ordinò il fuoco al primo plotone. Ho osservato che quelli che scendevano dal camion, venivano can­cellati da una lista. La lista era tenuta da Priebke. Non posso dire se la lista venne tenuta sempre da lui. Mi venne riferito che fe­ce sempre questo lavoro e che si fece sostituire per poco tem­po.


Le vittime venivano chiamate dal camion a 5 per volta e ve­nivano accompagnate dagli uomini del plotone di esecuzione. (...)


Non mi risulta che le salme si ammucchiavano man mano che venivano fucilate.


Sono sicuro di no. Seppi quando andai per la seconda volta che qualcuno si era rifiutato di fare l'esecuzione. Questi era Wetjen. Seppi pure che i plotoni erano in istato di agitazione ed erano corse delle parole come queste: "Lui impartisce gli or­dini e non li esegue".


Nell'interesse di Wetjen e della disciplina, parlai con lui, non lo rimproverai, non gli comandai nulla. Gli feci solo presente quale effetto avrebbe avuto la sua condotta, nei riguardi dei suoi uomini. Lui mi espose il suo stato d'animo e gli chiesi se era in grado di eseguire gli ordini se fossi rimasto al suo fianco. Mi rispose di sì ed allora superai me stesso e mi posi ancora nel plotone d'esecuzione. (...)


Al termine dell'esecuzione non fu rinnovato il plotone con uf­ficiali. Non avevo detto che si doveva chiudere l'esecuzione con un plotone di ufficiali. (...)


È vero che offrii ai miei uomini una bottiglia di cognac ed ho precisato questo fatto di mia iniziativa. (...)


All'albergo Excelsior, andai la sera. Arrivai prima di Wolff e lo attesi per parecchio tempo. Credo che egli, prima di venire in albergo, si sia recato da Kesserling. Quando arrivai, era in com­pagnia di Dollman e di Widner suo aiutante maggiore. Wolff mi disse che del fatto era stato informato la sera precedente da Harster e che per questo era venuto a Roma. Mi chiese come era successo. Gli parlai degli ordini avuti e come erano stati ese­guiti nonché degli accertamenti fatti, ma egli mi interruppe di­cendomi che voleva parlare delle misure di rappresaglia.


Precisai che i miei avevano dovuto giustiziare 330 uomini, che Dobrick era riuscito a tirarsi indietro. Wolff mi rispose che quanto era stato fatto non bastava; ed io con una certa agitazione risposi: a me basta. (...)


Nel corso della mattinata Schutz e Priebke vennero da me e mi riferirono che, dopo una constatazione, risultavano giusti­ziati 335 e non 330 e mi diedero su per giù la seguente spie­gazione. Man mano che le vittime scendevano dai camion i nomi venivano cancellati dalla lista. I nomi erano indicati nel­le liste a gruppi e singolarmente. Priebke mi spiegò di avere avuto l'elenco della polizia italiana, senza la numerazione del­le vittime e che dopo l'esecuzione, nel fare la somma delle va­rie liste, constatò che la lista italiana comprendeva 55 e non 50 nomi.


I due erano molto addolorati per l'accaduto. Dissi loro che do­vevo fare un rapporto dell'accaduto al generale Harster. Co­nosco la copia della fotografia di una lista. Mi è stata sottopo­sta diverse volte, ma essa non è quella che nella mattinata del 25 marzo mi fece vedere Priebke.


Non avevo nessun motivo per dubitare di Schutz e cioè che la lista italiana comprendeva 55 e non 50 vittime. Più tardi sep­pi che l'attentato aveva provocato la morte a 32 tedeschi.


 


AVVENIMENTI


18   MAGGIO   1994