venerdì 31 agosto 2007

Bushemo

Vignetta: Mauro Biani



Bush in Iraq: la politica Usa e getta


Robert Fisk


Li abbiamo traditi, sempre. Abbiamo sostenuto «Flossy» nello Yemen. I francesi, in Algeria, hanno appoggiato i loro «Harki»; che poi, prima di essere gettati in fosse comuni dall'Fln, sono stati costretti a ingoiare le medaglie guadagnate con i francesi. In Vietnam, gli americani volevano a tutti i costi regnasse la democrazia; ma dopo aver lodato i vietnamiti per essere andati alle urne pur sotto il fuoco incrociato, hanno fatto fuori i vari primi ministri eletti perché non stavano agli ordini dell'America. Ora il nostro impegno è in Iraq. Ma, a quanto pare, gli iracheni non meritano i nostri sacrifici: i loro leader eletti, infatti, non si adeguano al nostro volere. Che dite, ci richiama alla mente una certa organizzazione palestinese chiamata Hamas?

Partiamo dall'inizio: gli americani hanno avuto una simpatia sconfinata per Ahmed Chalabi, l'uomo che ha «fabbricato» per Washington le famose armi di distruzione di massa, e sulla cui testa gravava una pesante accusa di frode bancaria. Una mano, a Chalabi, gliel'avevano data anche il New York Times con Judith Miller; e in Iraq c'è andato con un aereo militare, americano ovviamente. Poi la simpatia si è spostata su Ayad Allawi, un infido figuro stile Vietnam, che aveva ammesso apertamente di lavorare per ben 26 organizzazioni di intelligence, tra cui la Cia e il britannico M16.

A quel tempo, la scelta fu salutata con risatine beffarde da buona parte della stampa occidentale; salvo qualche caso isolato, tipicamente mediorientale, della specie che a noi fa comodo. Comunque sia, non ce ne importava un granché del fatto che agli iracheni non piacesse questo sciita tutto azzimato. Quindi è stato il turno di Ibrahim al-Jafaari, simbolo vivente della legge elettorale, che gli americani hanno amato, sostenuto, prediletto - e poi distrutto. Se si erigesse una lapide per celebrare la sua avventura politica, bisognerebbe scolpirci le date 7 aprile 2005 - 20 maggio 2006. La tardiva conversione di Washington alla democrazia (il suo secondo proconsole, Paul Bremer III, era stato più astuto in fatto di commissioni autoctone) si è rivelata troppo morbida sulla questione terrorismo, troppo morbida sulla questione Iran, troppo morbida su tutto. Inconcludente, in sostanza. Toccava agli iracheni, dopo tutto; e comunque gli americani volevano togliersi Bremer di torno. Quindi, addio Ibrahim.


Poi è toccato a Nour al-Maliki, uno con cui Bush «poteva trattare affari». Amato, sostenuto, prediletto anche lui, fino a quando Carl Levin e gli altri della Commissione del Senato Usa per le forze Armate - e senza ombra di dubbio, Bush - hanno deciso che non era in grado di rispondere alle aspettative dell'America. Non riusciva a tenere l'esercito coeso, non riuscita a dare una struttura alle forze di polizia - una bella pretesa, d'altronde, quando invece le forze americane finanziavano e armavano alcune delle più brutali formazioni sunnite di Baghdad - e si dimostrava troppo vicino a Teheran. E allora, eccoti servito. Abbiamo tolto di mezzo la minoranza sunnita di Saddam, e gli iracheni hanno portato al potere gli sciiti e tutti quei vecchi simpatizzanti dell'Iran, cresciuti ai tempi della Rivoluzione Islamica e fuggiti dalla guerra Iraq-Iran.


Al-Jafaari era membro di primo piano di quel partito Dawaa che negli anni '80 si dava da fare sequestrando ostaggi occidentali a Beirut e tentava di far saltare l'Emiro del Kuwait, nostro amico. Quindi, la colpa è degli iraniani con le loro «interferenze» nelle questioni irachene, se si sono elette e portate al potere creature dell'Iran. Tocca liberarsi di al-Maliki: accidenti, non è neanche capace di unificare il proprio popolo. Noi non c'entriamo, ovviamente. Se la devono sbrigare gli iracheni. Per dirla meglio, gli iracheni che sono sotto protezione degli americani nella «green zone». In Medio Oriente, dove la «trama» («al-moammarer») ha i connotati della realtà, si dice che le brevi visite che al-Maliki ha fatto a Teheran e Damasco in queste ultime due settimane sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso a Washington. Posto che Iran e Siria appartengano all'asse del male, o forse sono addirittura la culla del male (va a vedere quale altra fantasiosa scemenza tireranno fuori Bush e i suoi sodali, per non parlare degli israeliani), nel prossimo decennio ci toccherà assistere al confluire di ben 30 miliardi di dollari in armi alla volta di Israele - a tutela della «pace».


Però, nel frattempo, ad al-Maliki con le sue visite di Stato al folle Ahmadinejad e all'ancora più pericoloso Bashar al-Assad gridiamo, ricordando l'invettiva di Enrico VIII, «traditore, tradimento, tradimento»! Vale ricordare che, dove c'era odore di tradimento, Enrico VIII faceva piazza pulita. Al-Maliki sta dando prova di lealtà nei confronti dei suoi ex padroni iraniani e dei loro alleati siriani alawiti (peraltro con forti legami di dipendenza nei confronti degli sciiti). Non è tanto la cupidigia dei leader arabi che ci irrita: pensiamo, per esempio al sostegno che per lungo tempo abbiamo dato - imbarazzante a dirsi - al nostro fedele alleato Saddam Hussein. No, è la loro ignoranza della storia che ci turba.


In origine abbiamo sostenuto Nasser, felici che avesse tolto di mezzo il grasso, inutile Re Farouk; lo abbiamo fatto fino a che non ha nazionalizzato il canale di Suez - e allora ci è toccato bombardarlo. Dopo di che abbiamo aiutato il Colonnello Gheddafi a rovesciare l'altrettanto corrotto Re Idriss; lo abbiamo appoggiato fino a che non ha offerto il proprio appoggio all'Ira e ha organizzato l'attentato al nightclub di Berlino - e allora ci è toccato bombardarlo. Ora Gheddafi (uno «statista», badate, nelle parole di quel servile di Jack Straw) raccoglie gli utili di un accordo con i francesi per la fornitura di armi, accordo raggiunto forse addirittura con le grazie della splendida Cecilia! Se solo al-Maliki sapesse che occasione si è lasciato sfuggire. Sa benissimo, inutile dirlo, quali vantaggi ha tratto Saddam dalla sua obbediente condiscendenza verso i capricci dell'America - tanto per dire, la possibilità di invadere l'Iran dell'Ayatollah Khomeini. Un milione e mezzo di vittime. E quando ha colpito una nave da guerra Usa, gli americani - predecessori di quelli che avrebbero scatenato la «guerra al terrorismo» - lo hanno persino ringraziato per il risarcimento versato alle famiglie delle vittime (non è una barzelletta, credetemi). C'è un limite all'ipocrisia? Vi ricordate quando avremmo voluto veder morti tutti i capi dell'Ira? Ebbene, ora prendono il tè con la Regina. Chi si adegua ai nostri desideri, avrà la sua ricompensa. Chi non lo fa, andrà alla forca. Vedi Saddam.


Sono creature - quale termine più appropriato - queste, che ci appartengono, che possiamo quindi calpestare a nostro piacimento. Dimentichiamoci le libere elezioni («un grande giorno per l'Iraq», aveva detto Tony Blair), la chiave di volta per questo paese: noi non impariamo, a quanto pare non impareremo mai. Gli iracheni sono in maggioranza musulmani sciiti; gran parte dei loro leader, tra cui il «violento» Moqtada al-Sadr (tipico della Bbc e della Cnn fornirci le giuste definizioni), sono stati addestrati, curati, coccolati, amati, istruiti in Iran. Ora, tutto ad un tratto, li odiamo! Davvero gli iracheni non ci meritano. Sarà questo il graticolato che consentirà ai carri armati insabbiati di ripartire e abbandonare l'Iraq.


Ed ora... i clown! Chissà che non ci tornino utili pure loro!


l’Unità (24 Agosto 2007)


Ritengo che una delle ragioni per giustificare l’esistenza di un blog sia anche quella di fornire strumenti per allargare conoscenze e formarsi opinioni. Per tale motivo gli articoli che posto sono sempre integrali, spesso anche lunghi. Preferisco la completezza dell’informazione e, visto che è sempre più un desiderio peregrino ottenerla, mi faccio parte diligente e, per quanto possibile, contribuisco.

giovedì 30 agosto 2007

Ci resterà solo l'aria?

 



L'effetto etanolo: il grano come l'oro


Maurizio Matteuzzi


il manifesto (25 agosto 2007)


Il prezzo del grano e dei cereali sta impazzendo. I mercati mondiali (e italiani) sono in fibrillazione. I grandi produttori si fregano le mani, i consumatori le mani se le metteranno nei capelli quando, alla ripresa di settembre, si troveranno gli aumenti del prezzo del pane, della pasta e via aumentando.

Le ragioni di questi prezzi del grano spesso più che raddoppiati, non sono ancora del tutto chiare e soprattutto non sono univoche. A seconda di chi le maneggi sono attribuite alla siccità che ha colpito grandi produttori quali il Canada (in calo del 20%), l'Australia e l'Ukraina o alle piogge che hanno colpito le regioni europee del Mar nero e la Cina (10% in meno) o - sostengono i più maliziosi - all'effetto etanolo che ha cominciato a farsi sentire cambiando la destinazione d'uso del grano e in generale dei cereali. Ma come diceva qualcuno a essere maliziosi forse si va all'inferno ma spesso ci si azzecca.


Certo è strano che subito dopo il lancio in grande stile, da parte prima di Bush e poi di Lula, della «nuova frontiera» degli agro-combustibili, nella prima metà dell'anno, i prezzi dei cereali siano schizzati alle stelle.


Sta di fatto che i rifornimenti sono diminuiti, la domanda è in costante aumento, le scorte si sono assottigliate e i prezzi volano. Giovedì scorso alla Borsa delle derrate alimentari di Chicago, la più importante del mondo, il bushel - l'unità di misura dei cereali, corrispondente a circa 35 litri - era quotato al livello record di 7.44 dollari e l'Euronext di Parigi giovedì ha chiuso il future sul grano riferito a novembre a 237. 50 euro la tonnellata (più 2.5%). Alla Borsa di Bologna, il grano tenero nazionale usato per la panificazione è passato fra il 2 e il 23 agosto da 215 a 245 euro la tonnellata (più 13.7%). Le scorte mondiali sono ridotte a 111 milioni di tonnellate e quelle strategiche in Europa, detenute dagli organismi internazionali di pronto intervento, sono «totalmente esaurite». In Francia il prezzo del grano è aumentato del 50% in un anno, Inghilterra è salito a 200 sterline la tonnellata: il doppio del 2006. La Siria ha annunciato la fornitura urgente di 276 mila tonnellate di frumento a Egitto, Giordania e Yemen, in crisi di grano duro e tenero. In Messico il prezzo della tortilla di mais, la base dell'alimentazione povera messicana, è aumentato del 150% in pochi mesi: da 7 (mezzo euro) a 18 pesos il chilo. La causa, per il presidente Felipe Calderon, il candidato di destra che ha scippato con la frode la vittoria a Lopez Obrador nelle elezioni del 2006, è l'aumento della domanda di mais destinato alla produzione dell'etanolo nei 110 impianti in attività negli Stati uniti (a cui stanno per aggiungersene altri 63), primo produttore ed esportatore. A meno che anche il fedele Calderon non si sia alleato con il leader cubano Fidel Castro o il leader dei Senza Terra brasiliani João Pedro Stedile, l'etanolo e gli agro-combustibili sono la causa - almeno la principale - dello spaventoso aumento del prezzo della tortilla. Anche se Calderon dovrebbe aggiungere, fra le cause a monte, l'impennata precedente dei prezzi del mais dopo la liberalizzazione del mercato messicano del mais dovuto al Nafta, l'Accordo di libero scambio fra Usa, Canada e Messico, che ha fatto piovere sui produttori e campesinos a sud del Rio Grande migliaia di tonnellate del (sovvenzionatissimo) mais made in Usa.


In Italia, paese molto vulnerabile essendo uno dei massimi importatori mondiali di grano, il ministro De Castro invita a «evitare inutili allarmismi» ma ha preparato per i primi di settembre un tavolo con esponenti della distribuzione, industria, cooperative e imprese agricole.Tuttavia la febbre dei prezzi non può essere imputata, a ben vedere, al calo della produzione: nel 2007, nonostante i danni della siccità o delle piogge, è aumentata dello 0.8%. Gira e rigira, si arriva all'etanolo, bio-combustibile (quindi «naturale» e «pulito») per Bush e Lula, agro-combustibile (derivato dai frutti della terra che dovrebbero servire a dare cibo e lavoro) per Stedile; «necro-combustibile» per frei Betto.


In pochi mesi il chicco da «verde» è diventato d'oro. D'oro in tutti i sensi mentre quello spacciato per « verde» non era affatto verde. Nell'aprile scorso, dopo il grande lancio mondiale delle fonti di energia «non inquinanti e rinnovabili» da parte di Lula e Bush a San Paolo, due autorevoli economisti dell'università del Minnesota hanno pubblicato sull'influente rivista Foreign Affairs un articolo che arriva alle stesse conclusioni degli estremisti Fidel, Stedile e Chavez. Nel loro articolo, intitolato «Come i bio-combustibili possono affamare i poveri», i professori C. Ford Runge e Benjamin Senauer, sostengono che «affidarsi ai bio-combustibili con ogni probabilità significa esacerbare la fame mondiale» e che se il programma americano di una produzione massiccia di etanolo da grano (quello made in Usa, da canna da zucchero quello brasiliano) andrà avanti, 1.2 miliardi di persone potrebbero soffrire di «fame cronica» entro il 2025. Non basta? La «sorprendente» impennata dei prezzi mondiali dei cereali di questi ultimi mesi «si spiega da un lato con la domanda di cibo dei paesi emergenti e dall'altro con i prezzi del bio-etanolo negli Usa e i pesanti riflessi sui prezzi del mais messicano». Parola di Simon Johnson, capo-economista del Fondo monetario internazionale.


Dopo la privatizzazione dell’acqua, autentico oro blu (chiedere a La Rocchetta, quella che fa “plin plin”, per esempio e tanto per restare in Italia e a W l’Italia, di Rai Tre del 14 agosto scorso), adesso il business mondiale si concentra sul grano. Perde quota il petrolio, che però rivendica a sé il primato più sanguinario (le cifre, sulla guerra in Iraq, fornite ieri sera nel programma di Riccardo Icona, beneamati, sono impressionanti). Mettere le mani sul grano, non significa tanto avere le mani in pasta, ma condannare alla fame una parte dei poveri del mondo e porre qualche problema in più anche a noi, nati per caso nella parte più florida della Terra. Gli aumenti, lungamente annunciati, di pane e pasta, creeranno difficoltà a chi già stenta di suo, perché si tratta di alimenti-base della nutrizione. Ma la forsennata speculazione e le leggi del mercato stanno imbarbarendo il nostro modello di vita, inquinando le relazioni sociali e dissolvendo la solidarietà. Nel “Padre nostro” che, per i cattolici è la preghiera più bella, rischia di restare senza risposta quell’invocazione che è anche speranza: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. È sbagliato il destinatario.

lunedì 27 agosto 2007

La giusta causa

New York Times: livello record della produzione dell'oppio in Afghanistan

La produzione di oppio in Afghanistan ha raggiunto quest'anno un livello record per il secondo anno di seguito registrando un'impennata del 45% nella provincia meridionale di Helmand, roccaforte dei talebani. È quanto scrive il New York Times citando un rapporto delle Nazioni Unite che sarà pubblicato lunedì e che rischia di alimentare le polemiche sul programma statunitense di lotta alle coltivazioni di papavero che ogni anno costa ai contribuenti americani 600 milioni di dollari. Nelle aree controllate dagli ex studenti coranici, scrive il Times, nel 2007 sono stati aperti 20 nuovi laboratori per la produzione di eroina portando il totale a 50. Su base nazionale, malgrado l'impennata di Helmand, il crollo del produzione a nord farà si che la crescita annuale sarà più bassa rispetto al picco raggiunto lo scorso anno quando un 160% di aumento della produzione nella province governate di fatto dai Talebani portò l'incremento totale al 50%. Nel 2006 in Afghanistan vennero raccolte 6.100 tonnellate di oppio pari al 92% della produzione mondiale.

http://www.rainews24.rai.it/notizia.asp?newsid=73205 (26 agosto 2007)

E se invece di dare la caccia al fantasma di bin Laden, all’altrettanto improbabile mullah Omar oppure di uccidere, sempre per errore s’intende, i civili, donne e bambini compresi, i tanti soldatini armati di tutto punto si dedicassero allo sterminio del papavero? O che almeno gli italiani si occupassero di questo, giustificando così gli stanziamenti sempre pronti per la loro missione. Per una volta sarei dalla parte dei militari e, sul serio, si potrebbero ringraziare i “nostri ragazzi” senza che diventino necessariamente eroi.

Ieri e oggi-2


 


 


 


 


 


 


 


 



In una delle prime puntate del meritorio “Blob77” (un programma di RaiTre che merita di essere segnalato e seguito) ho rivisto con commozione e tenerezza (quell’uomo mi ispirava tenerezza) Enrico Berlinguer, citato per il suo discorso sull’austerità tenuto per la prima volta appunto 30 anni fa. Ne propongo alcuni stralci.


L'austerità, leva per trasformare l'Italia ed instaurare una cooperazione col Terzo mondo

L'austerità come leva di sviluppo (dai discorsi di Enrico Berlinguer al Teatro Eliseo di Roma (1977) e al Teatro Lirico di Milano (1979)  


(...) Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'Occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.


Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base. Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l'indigenza, né deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi.


Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo - ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio - quello di Instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova. Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un'opera di trasformazione sociale.


Proprio perché pensiamo questo, occorre riconoscere, a me sembra, che finora la politica di austerità non è stata presentata al paese, e ancor meno attuata, dentro tale spirito non di rassegnazione, ma di consapevolezza e di fiducia. E se possiamo ammettere - dobbiamo ammettere, anzi - che vi sono state e vi sono a questo proposito manchevolezze e oscillazioni del movimento operaio e anche del nostro partito, tuttavia le deficienze principali sono da imputare alle forze che dirigono il governo del paese. (...)


L'austerità è un imperativo a cui oggi non si può sfuggire. Certe obiezioni di qualche accademico ignorano dati elementari del mondo di oggi e dell'Italia di oggi. In sintesi, questi dati sono: innanzi tutto, il moto e l'avanzata dei popoli e paesi del Terzo mondo, che rifiutano e via via eliminano quelle condizioni di sudditanza e d'inferiorità, cui sono stati costretti, che sono state una delle basi fondamentali della prosperità dei paesi capitalistici sviluppati; in secondo luogo l'acuita concorrenza, la lotta senza esclusione di colpi fra questi stessi paesi capitalistici, della quale fanno sempre più le spese i paesi meno forti e sviluppati, fra i quali l'Italia; infine, la manifesta e ogni giorno più evidente insostenibilità economica e insopportabilità sociale, in questo mutato quadro mondiale, delle distorsioni che hanno caratterizzato lo sviluppo della società italiana negli ultimi venti-venticinque anni.


Da tempo noi comunisti cerchiamo di richiamare l'importanza e di far prendere coscienza di questi dati oggettivi della situazione del mondo e dell'Italia. Tuttavia, ancora oggi molti non si sono resi conto che adesso l'Italia si trova oramai - ma io credo, prima o poi, anche altri paesi economicamente più forti del nostro si troveranno - davanti a un dilemma drammatico: o ci si lascia vivere portati dal corso delle cose così come stanno andando, ma in tal modo si scenderà di gradino in gradino la scala della decadenza, dell'imbarbarimento della vita e quindi anche, prima o poi, di una involuzione politica reazionaria; oppure si guarda in faccia la realtà (e la si guarda a tempo) per non rassegnarsi a essa, e si cerca di trasformare una traversia così densa di pericoli e di minacce in una occasione di cambiamento, in un 'iniziativa che possa dar luogo anche a un balzo di civiltà, che sia dunque non una sconfitta ma una vittoria dell'uomo sulla storia e sulla natura.


Ecco perché diciamo che l'austerità è, si, una necessità, ma può essere anche un'occasione per rinnovare, per trasformare l'Italia: un'occasione, certo, come ha detto qui un compagno operaio, tutta da conquistare, ma quindi da non lasciarci sfuggire.

L'austerità per definizione comporta restrizioni di certe disponibilità a cui ci si è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità e della umanità della vita. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana. (...)


La politica di austerità quale è da noi intesa può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l'istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. "Lor signori", come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l'assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo, che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi venti-venticinque anni, e, insieme, di abbassare i salari.


Queste le parole che ieri adoperava un uomo di sinistra, tra l’altro di straordinaria attualità a conferma che la scomparsa di Enrico Berlinguer, ricordata da quella prima pagina nel giorno dei suoi funerali, ripubblicata dall’Unità alcuni giorni fa, ha lasciato un vuoto anche morale incolmabile. A maggior ragione se confrontiamo quelle parole con il lessico odierno dei moribondi Ds. Alcuni esempi tratti da la Repubblica del 21 luglio 2007.


Ecco le telefonate che per il gip dimostrano la complicità nei reati compiuti durante le scalate del 2005. Il numero uno di Unipol informa costantemente i vertici dei Ds delle fasi dell'operazione. 9 luglio "Abbiamo il 51%" Passata la mezzanotte, Consorte viene svegliato da Fassino, al quale riferisce di essere stato alla Consob e di voler lanciare l'Opa solo dopo aver conseguito la maggioranza assoluta di Bnl. Consorte: "Oggi ho incontrato Cardia con tutti i dirigenti della Consob, gli ho spiegato tutto quello che vogliamo fare". [...] Fassino: "Il ratios l'avete guardato, ovviamente, siamo tranquilli su quel fronte lì" Consorte: "Il scusa?" Fassino. "Il ratios" Consorte: "Ah, ma noi lanciamo quando abbiamo in mano il 51%" 14 luglio "Prudenza nelle telefonate" Nel corso della telefonata Tra Consorte e D'Alema emergono le precauzioni che il leader Ds consiglia al manager dell'Unipol. Consorte: "Ciao Massimo, buongiorno". D'Alema: "Parlo con l'uomo del momento?". Consorte: "L'uomo del momento! Lo sfigato del momento... (ride)..." Consorte parla dell'Opa.



Consorte: "Lunedì la facciamo. Abbiamo finito". D'Alema: "Io poi ti devo dire una cosa... ah... se tu trovi un secondo... direttamente". Consorte: "Va bene... è vedere quando ci sei tu a Roma, perché so che sei molto in giro... Tu domenica sei a Roma? O mi devi parlare prima?" D'Alema: "Beh, volevo dirti... delle prudenze che devi avere. Forse...." Consorte: "Uhm" D'Alema: "Forse ti è arrivata la voce, diciamo". Consorte: "Uhm". D'Alema Devo farti l'elenco... delle prudenze che devi avere". Consorte: "Che devo... che devo avere. Uhm". D'Alema: "Sì, delle comunicazioni". 14 luglio La contropartita di Bonsignore In una telefonata tra Consorte e D'Alema, l'esponente dei Ds riferisce di una visita fattagli da Vito Bonsignore, contropattista, che per vendere la sua quota alla Unipol chiede una contropartita politica. D'Alema: "È venuto a trovarmi Vito Bonsignore, voleva sapere se io gli chiedo di fare quello che tu gli hai chiesto di fare, oppure no... che voleva altre cose a latere" Consorte: "Ecco immaginavo. Non era disinteressato" D'Alema: "A latere su un tavolo politico" Consorte: "Eh, eh" D'Alema: "Ti volevo informare che io ho regolato da parte mia" Consorte: "Eh" D'Alema: "Lui mi ha detto che resta, ha detto che resta..." Consorte: "Ah si uhm, bene" D'Alema: "È disposto a concordare con voi un anno, due anni... il tempo che vi serve" Consorte: "Sì, sì. No, ma io lì sono stato ... in effetti, ho detto: "Guardi, decida come ritiene meglio, se lei vuole uscire, noi onoreremo gli impegni subito come facciamo con gli altri, se lei rimane ci fa piacere"" D'Alema: "Eh Gianni, andiamo al sodo, se vi serve resta" Consorte: "Sì. E basta" D'Alema:"Poi noi non ci siamo parlati, eh?" 7 luglio "Di quanti soldi hai bisogno?" D'Alema senza troppi giri di parole in una telefonata chiede a Consorte quante risorse finanziarie gli servono per portare a termine l'operazione. Consorte: "Adesso mi manca un passaggio importante e fondamentale. Sto riunendo i cooperatori perché sono tutti gasati, entusiasti e moralmente contenti, gli ho detto: "però dovete darmi i soldi, non è che potete solo incoraggiarmi, perché il coraggio ce l'ho da solo, no? D'Alema: "Di quanti soldi hai bisogno ancora?" Consorte: "Mah, non di tantissimo, di qualche centinaia di milioni di euro". D'Alema: "E dopo di ché fate da soli?" Consorte: "Sì,sì facciamo da soli". [...] D'Alema: "Va bene, vai avanti, vai!" Consorte: "Massimo noi ce la mettiamo tutta" D'Alema: "Facci sognare! Vai!" 5 luglio "Son tutti falsi come Giuda" Consorte illustra i suoi piani a Fassino e parla della difficoltà di agganciare all'operazione l'immobiliarista Gaetano Caltagirone. Consorte: "Vuole fare il presidente della banca (Caltagirone, ndr), poi ha cominciato a dire che vuole le deleghe sulla comunicazione, e gli diamo le deleghe sulla comunicazione, poi vuole l'internal audit e gli diamo l'internal audit poi all'ultimo si è inventato, vorrebbe la gestione del patrimonio immobiliare. A questo punto gli abbiamo detto: "Caro, primo non è etico perché tu fai l'immobiliarista, secondo non abbiamo nessuna intenzione di bipartire la banca, quindi se tu con il 5% vuoi fare 'ste cose, fai una cosa, tu te la compri se te la fanno comprare e fai quel cazzo che ti pare... in più dulcis in fundo, perché non conosce la vergogna vuole una put ... gli ho detto, oh, c'hai rotto i coglioni, vendici le tue quote" Fassino: "Sì tra l'altro, lui, parliamoci chiaro, o vende o sta ai vostri accordi". Consorte: "Son tutti falsi come Giuda. Cioè Banca Intesa ho parlato con Fazio "ma, mi, mu, mi" parlo con Bazoli, eccetera c'hanno detto di no; Iozzo... eh... e soprattutto Modiano, col quale ho parlato, ha detto: "non se ne parla nemmeno". Unicredit niente. Capitalia... ha posto il veto Geronzi, eh! Bisogna ricordarsi poi, adesso finiamo sta vicenda... Fassino: "Ce ne ricordiamo tutti" 6 luglio La mafietta e i rapporti di potere Consorte è convinto che se non va in porto l'operazione Bnl, Unipol può da subito fare un'altra operazione alla faccia dell'intero sistema bancario italiano. Consorte: "Loro se lo pigliano nel culo, ecc. Ti volevo sottolineare che il dottor Profumo non m'ha dato una mano, il dottor Passera me l'ha cacciato nel culo e il dottor Modiano mi mandato affanculo" Latorre: "Sì. Sono schierati tutti con quelli..." Consorte: "No, non neutrali. In una fase in cui la neutralità, Nicola, non serve a niente perché sanno benissimo quello che stiamo facendo noi. Tutti! E tutti hanno paura che glielo mettiamo nel culo" Latorre: "Eh come vedi in questa storia gli immobiliaristi no c'entrano un cazzo" Consorte. "Niente. (...) Guarda Nicola, sono dei poveretti. Io gli ho parlato ieri per la prima volta, è vero solo una cosa di quello che hanno raccontato di sta gente, che con loro è impossibile avere rapporti di lavoro. Però al di là di questi sono dei poveretti. Qui dietro c'è una mafietta, Imi Sanpaolo, Unicredito, Banca Intesa e Capitalia che ci sta letteralmente impedendo di fare l'operazione". Latorre: "Ma non c'è dubbio su questo" [...] Consorte: "E poi ci sono delle teste di cazzo. Io alla fine, Nico', faremo la lista, perché questi stanno semplicemente lavorando, io vorrei che ti fosse chiaro, contro di noi come Ds, non contro di noi come Unipol". [...] Consorte: "Nicola, è una roba da matti! Se noi facciamo o non facciamo questa operazione, quello che non si rendono, io non uso mai frasi roboanti, ormai siamo troppo amici, sicuramente gli mettiamo una zeppa per i prossimi vent'anni" Latorre. "Ma scusa, ma secondo te" Consorte:" Ma manco se l'immaginavano ... ! Capito?" La Torre "Io non voglio sopravvalutarmi, io dall'inizio, questa è la motivazione per la quale io ho puntato tutto su questa..." Consorte: "È questa, è questa. Guarda io posso fare..." Latorre: "Se riesco a sconvolgergli gli equilibri di potere in questo Paese" [...] Consorte: "Nicò, ma per noi, per il nostro partito, per le cose che abbiamo sostenuto 20 anni. Capito?" Latorre: "Certo" Consorte: "Quindi io farò di tutto. Però, sai, io purtroppo ho a che fare con i Caltagirone che sono dei banditi. Dei banditi sono!"


EMILIO RANDACIO e WALTER GALBIATI


 

giovedì 23 agosto 2007

La rosa e le sue spine


Accade nel cuore della notte. All’improvviso. Apro gli occhi: le 2:53. Acqua da emettere e immettere. Mi reco verso i luoghi obbligati. Cammino in silenzio, brancolando un po’ nel buio prima di farci l’abitudine. Il percorso inverso per tornare a letto, sempre piano piano. Adesso so che viene il difficile: ritrovare la posizione giusta per riprendere il sonno interrotto. La sensazione è simile a quella che accompagna il primo sorso di birra: ti senti bene, rilassato, in armonia con il mondo sebbene l’impressione sia fugace.


Chiudo gli occhi, accompagnato dal frinire ininterrotto della cicala. Quanto amo, invece, la formica silente ed operosa. Utile ed avveduta. Ma è estate e la cicala si gode i suoi momenti di gloria effimera. Il motore di un’auto che si avvia: ma dove va a quest’ora? Lavoro? Anche per il divertimento è ormai troppo tardi. Il pigro rumore di avviamento par quasi propendere per la prima ipotesi. Una serranda che si alza. Questo è M. che rientra a casa e ha il garage di fronte. L’automobile sembra muoversi con il silenziatore. Qualche minuto di attesa e poi la serranda si riabbassa.


Mi giro dall’altra parte. Ci sono lei e il suo respiro. Calmo, regolare. Ne intravedo al buio le forme che solo poche ore prima erano ben visibili strette a me. La tentazione di allungare un braccio, anche solo per sfiorarla, è forte, ma le piacevoli fatiche dell’amore fiaccano il fisico, esigono riposo ed è giusto che il suo seno si alzi e si abbassi tranquillamente, senza sussulti. Io dovrei tenere gli occhi chiusi, per riaddormentarmi, ma non mi riesce.


La cicala ha terminato il suo verso stridente e prolungato. Nessun mezzo passa più. Il silenzio impera. Ecco che si gira, cambia posizione. Temo (o spero?) che mi abbia sentito. Il rumore dei pensieri, che ricorda gli orgasmi recenti, è forse così rumoroso da averla svegliata? No. Ha solo allungato le gambe e, nel movimento, la microtunica che indossa la lascia adesso completamente scoperta fino all’inguine. La accarezzo con la mente, seguendo il profilo del suo corpo. E’ facile. Non solo perché gli occhi si sono abituati all’oscurità.  E penso a come organizzare la giornata. Alla colazione innanzitutto. A quello che potremo fare prima della colazione. Al suo profumo (non della colazione).


Ma ecco che un tuono mi sveglia. La luce filtra tra le imposte. Mi giro a sinistra e vedo il letto vuoto. Se n’è andata. Ieri l’ho riaccompagnata a casa. Ieri? Oppure è stato un mese fa? Ma tutto questo tempo è già passato? Si trattava, dunque, soltanto del sogno di una notte di mezza estate? Forse si è alzata prima di me, azzardo in un velleitario tentativo, però non arriva dalla cucina l’aroma inconfondibile del caffè e neppure vedo i suoi abiti sparsi attorno. No, non l’ho immaginata. Lei era qui accanto a me e sto accarezzando le lenzuola che l’avvolgevano, mentre affondo la testa in mezzo al cuscino che ha conservato un suo lungo capello. E l’odore inconfondibile di lei.


Ma sono passati solo giorni, oppure settimane, mesi? È lacerante un legame che s’interrompe quando ciò non significa certo la sua fine. Un intervallo di tempo tra una visita e l’altra: è questo il panorama che appare chiaro, ma ingiusto, perfino umiliante per i sentimenti. Perché la distanza sottrae attimi preziosi, la mancata condivisione accresce il rimpianto. Se due persone si vogliono bene non devono (non possono) alimentare a strappi le reciproche trepidazioni, centellinando emozioni. Va vissuto tutto assieme in modo che le speranze diventino la realtà quotidiana e non ci si debba più svegliare con la ruvida sensazione di aver sognato. Forse.


Il letto adesso è vuoto, devo tirarmi su definitivamente. Il caffè stamattina lo preparo io. Come sempre.


 

martedì 7 agosto 2007

Ieri e oggi



La data è quella del 22 febbraio 1985 su un vecchio ritaglio di giornale che mi ritrovo tra le mani in maniera sorprendente. Inutile che mi chieda come e per quale motivo l’abbia conservato in mezzo ad un libro, non soltanto a causa del tempo trascorso, ma anche perché non mi pare ci sia nulla di significativo. Destinazione cestino assicurata, sebbene con ritardo, quando colpisce la mia attenzione il palinsesto delle trasmissioni Rai di quel giorno. E così la curiosità si accende di colpo. Non è infatti usuale trovare i programmi tv del passato, il normale consumatore usa e poi getta. Personalmente lo faccio di venerdì in venerdì con le pagine strappate dall’omonimo supplemento de “la Repubblica”. Ecco perciò che scatta un “cosa vedevamo” alla metà degli anni ’80, nel pieno della stagione Auditel.


La prima osservazione riguarda la sobrietà, sì perché i programmi - ancora lontani dalla bulimia attuale - iniziavano alle 10,00 su Rai Uno e Due e alle 11,45 su Rai Tre con le pagine dimostrative di Televideo. Fa quasi tenerezza.


Rai Uno aveva da poco “inventato” la fascia di mezzogiorno, incarnata in Raffaella Carrà e nel suo “Pronto…Raffaella?” con il numero dei fagioli nel contenitore da indovinare (rivisto un frammento nel “Blob” di pochi giorni fa). Dopo il tg istituzionale e l’ultima telefonata, andava in onda “Antologia di Quark” curata da Piero Angela e, a seguire, “Primissima”, attualità culturali del Tg 1 a cura di Gianni Raviele. Nomi di spicco, dunque e la sfilata di assi proseguiva alle 18,50: “Italia Sera”, fatti, persone e personaggi con Enrica Bonaccorti e Piero Badaloni. Alle 19,35, altra lacrimuccia per “Almanacco del giorno dopo”. Il pezzo forte della serata arrivava tardi, ma valeva la pena aspettare. Ore 23,00: “Linea diretta”, trenta minuti dentro la cronaca con Enzo Biagi. A chiudere (23,55) un programma del DSE (Dipartimento Scuola Educazione).


Anche le proposte di Rai Due non erano male. Alle 11,55 “Che fai, mangi?”, conduce Enza Sampò (un altro nume tutelare della tv garbata di un tempo che fu). Alle 13,25 un’appendice del notiziario che intenerisce: “Tg 2-Chip, appuntamento  con l’informatica”, un termine completamente astruso per quei tempi, un tentativo di alfabetizzazione del servizio pubblico. Cinque minuti appena e qui il cuore subisce un altro contraccolpo: “Capitol”, una delle prime serie televisive della Rai, giunta quel giorno alla puntata n°210. E di “Capitol” non perdetti una puntata, maledicendo gli ideatori che decisero ad un certo punto, era il giugno 1988, di far morire, con la fucilazione, la bellissima giornalista Sloan Denning, interpretata dall’incantevole Deborah Mullowney e chiudere così, dopo 584 episodi, la fortunata serie tv, capace di rivaleggiare con Dallas e Dynasty in popolarità. Dopo questo fagotto di emozioni rientriamo nel palinsesto pomeridiano. Alle 17,40 “Incontriamoci sul due”, condotto da Rita Dalla Chiesa. E, prima del tg delle 19,45, un’altra serie “cult” come “Cuore e batticuore”. La serata di Rai Due era a dir poco scoppiettante. Alle 20,30: “A boccaperta”, un programma di Gianfranco Funari, alle 21,50: “Hill Street giorno e notte”, secondo me la miglior serie poliziesca mai trasmessa in tv, un autentico mito. Alle 22,50, dopo il tiggì di mezza sera (altro termine di là da venire), “Viaggio tra i nostri figli” un programma di Nelo Risi. La quarta ed ultima puntata si occupava della famiglia e della coppia. La giornata si concludeva alle 24,00 con un avvenimento sportivo, in Eurovisione: Norvegia-Italia  valido per i campionati del mondo di pallamano.


Rai Tre disponeva di ambizioni più modeste, in linea con la sua penetrazione sul territorio. Lunghissima dimostrazione di Televideo (3 ore), due proposte del DSE, poi alle 17,15 “Galleria di Dadaumpa” proponeva Paolo Villaggio e il suo straordinario Giandomenico Fracchia. A seguire “L’’orecchiocchio”, un altro pezzo di tv "cult". La prima informazione della rete arrivava alle 19,00. Dieci minuti di tg nazionale e poi spazio alle cronache regionali che si prolungavano fino alle 20,00. Ancora una razione di DSE: “Il continente guida”, panorama dell’’Europa del XX secolo, con il commento di Peter Ustinov. Alle 20,30 la serata finale del concorso “Nati per la danza”, regista Eros Macchi. Quindi alle 22,45 “Stasera teatro: Fermata Etna” con Bruno Ganz. Si andava a nanna dopo il documentario “Cento città d’Italia: Reggio Emilia”.


Il confronto con la programmazione odierna, quella proposta quando la stagione è televisivamente calda, lo evito. Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Magari ne riparleremo il 22 febbraio 2008.


Dopo questo bagno di nostalgia chiudo il blog per alcuni giorni. Saluto, ringrazio coloro che hanno la pazienza di seguirmi e mi scuso con gli stessi per la poca attenzione nei loro confronti. Non lo si fa certo per cattiveria. Poi spengo la luce. Clic. Buone vacanze!


 


domenica 5 agosto 2007

Triste, solitario y final


La tristezza è come la nebbia, cala impalpabile, avvolge come un sudario e si insinua tra le contorte vie della mente succhiando come un idrovora ogni altro pensiero diverso, contrastante, magari (e paradossalmente) allegro o almeno improntato a schegge di ottimismo. E la tristezza, quando sopraggiunge, prende possesso di te, a lungo. Sembra non volersene mai andare e, analogamente alla nebbia, oscura l’orizzonte, rende invisibile ciò che si ha attorno e impedisce il cammino. Dev’essere stato per questo motivo che mai come venerdì mattina è stato impegnativo alzarsi per recarsi al lavoro, ultimo giorno prima delle ferie. E la compagna, che infilandosi nel tuo letto aveva pregiudicato l’umore, non si sarebbe più allontanata, anzi in un soprassalto di affetto si sarebbe stretta al tuo fianco quasi a voler urlare: “Quest’uomo è mio!”. L’orgasmo sarebbe poi sopraggiunto verso mezzogiorno.


Fuor di metafora non mi era mai capitato di lasciare la scrivania, i colleghi e l’ufficio con un magone dentro, quasi un senso di smarrimento e soffocamento. Ultimo giorno di lavoro, certo, le tre settimane di ferie lì, dietro l’angolo. Finalmente il momento di staccare la spina e rilassarsi. Poi cominciare a scorrere mentalmente l’elenco delle attività a cui dedicarsi, la lista delle cose da fare: da quelle trascurate durante l’anno ad altre appena cominciate e da sviluppare. In condizioni normali l’atteggiamento sarebbe stato di serenità, molto simile a quello di un anno fa che sempre qui avevo raccontato. Ma queste non sono condizioni normali. Quella di eri mattina non era solo l’ultima in ufficio prima delle ferie. Era, anche e soprattutto altro. E l’Altro si chiama: mobilità, l’Altro si chiama: ritorno alla base per tre settimane e poi, a metà settembre, la comunicazione ad alcune decine di dipendenti che sì l’azienda ha accresciuto il suo fatturato negli ultimi 12 mesi, che è in crescita, che si è aggiudicata recentemente una commessa, ma che volete farci le regole della globalizzazione sono queste: prendere e lasciare (il posto di lavoro). Chi scrive è in pole position per la nuova condizione di “lavoratore mobile”. E dal mio reparto, che conta 10 addetti, ne verranno espulsi tre: singolare modo di corrispondere un premio di produzione, perché anche i 50 “esuberanti” hanno contribuito all’incremento dei ricavi, ma non va mai dimenticato che ci troviamo nel paese dell’incontrario e allora siamo in perfetta sintonia.


L’idea di perdere il lavoro è paralizzante, in effetti, se poi avviene in un’età in cui si potrebbe cominciare a pensare di smettere sì di lavorare, nei prossimi anni, andando in pensione, assume i connotati dello sberleffo. Esiste poi un altro aspetto, meno considerato, nella questione, ma di notevole valenza. Mi riferisco ai rapporti umani che cesseranno, troncati da una decisione arrogante e padronale. E quell’arrivederci alla prossima settimana che in genere caratterizza il venerdì, si tramuterà in un addio senza riserve. Un ritorno al passato, ma con meno risorse e tanta preoccupazione. Io poi che sto scarso a preoccupazioni dal 18 aprile.


Quella dei rapporti umani è una questione che riveste molta delicatezza, perché quando si trascorrono 17 anni dell’esistenza accanto ad altre persone hai ceduto molto a loro, come in un processo osmotico e altrettanto, a seconda dei casi, hai ricevuto: dall’incoraggiamento, alla battuta scherzosa, alla risoluzione di un problema, alla condivisione, all’ascolto, alla comprensione, ma anche al battibecco, alla tensione di certe giornate, ai mutismi, all’indifferenza, al gelo. Ormai mi capita sempre più frequentemente di chiedermi come mi alzerò quella mattina in cui non potrò più recarmi in ufficio, in quello mio solito almeno. Cosa accadrà, sotto questo punto di vista, nelle giornate e nelle settimane successive. In futuro. Possibile che tutto debba finire così? Hai percorso un lungo tratto di cammino con varie persone e poi la svolta, la diramazione, la curva e in breve i compagni di viaggio si defilano dall’orizzonte. Magari altri si approssimano e si dovrà ricominciare da zero.


Evito solo, prudentemente, di immaginare quel giorno. L’ultimo intendo. Mi farei solo del male. Sarebbe controproducente, disperderebbe energie proprio quando mi serve un’integrità nel morale assoluta o almeno abbastanza solida. Anche per reggere allo stillicidio delle attese sia che si tratti di una telefonata, di una convocazione, oppure di un’opportunità casuale. Perciò servono antenne ricettive molto potenti.


Così, con questo fardello, me ne vado in vacanza. Ad essere affollate sono le autostrade della mente dove si compiono sorpassi arditi e manovre spericolate, i crash sono normali, il bollino nero persistente. Resterò da queste parti ancora per qualche giorno, perchè stranamente le idee, gli spunti, sembrano zampillare anche in una fase così delicata. Leggo il comunicato emesso dopo il deludente incontro pomeridiano di venerdì tra Rsu e direzione aziendale, dove si parla “di disagio profondo dei lavoratori di fronte ad una situazione in progressivo deterioramento”. Arriva la tempesta. E saranno lacrime e sangue. “Quando cade la tristezza in fondo al cuore, come la neve non fa rumore” (Emozioni, Lucio Battisti).

giovedì 2 agosto 2007

A modo mio

 

A costo di passare per cinico, ma non riesco proprio a provare pietà per buona parte dei morti in incidenti stradali. Nell’ultimo fine settimana sono state 39 le vittime di ogni genere ed età, ma i coglioni per cui è impossibile provare compassione sono, per esempio, quel trentaseienne che guidando ubriaco ha invaso la corsia opposta uccidendo una donna di 65 anni ( ad Anzola Emilia), mentre purtroppo lui è rimasto in vita. Meglio è andata nel bergamasco dove tre giovani di 26 anni, 24 e 16 anni, hanno perso la vita andando a sfracellarsi con la loro vettura, in un surplus di entusiasmo, contro un platano. Peccato per il platano, ma almeno non sono state coinvolte altre persone. Cosa dire poi di quell’altro fenomeno che a metà luglio, in Campania, ha tamponato un auto su cui viaggiavano tre bambini di 11, 10 e 6 anni morti sul colpo. L’omicida naturalmente l’ha scampata, rimediando la modesta imputazione di omicidio colposo plurimo. Evidentemente i liquori nel sangue garantiscono l’invulnerabilità e anche la possibilità di scampare ad un linciaggio, come stava per avvenire nel torinese dopo che un trentenne, ben fornito di alcol (nel sangue quattro volte il massimo fissato dalla legge), aveva travolto ed ucciso una sedicenne che stava attraversando la strada sulle strisce pedonali che, in Italia, sono un optional e un fastidiosissimo intralcio anche per molti automobilisti astemi. Peccato davvero che questi disgraziati continuino a vivere e muoiano persone inconsapevoli. E non capisco perché siano così deficitari i controlli su strade e autostrade, mentre s’invocano leggi più severe riecheggiando le famose “grida” manzoniane. Inevitabile poi una domanda, banale quanto si vuole, ma che resta ugualmente senza risposta: se il limite di velocità è fissato a 130 km all’ora, come mai si producono automobili che vanno ben oltre questo limite?


Ma ci sono tante cose che mi risultano incomprensibili. Prendiamo il recente protocollo d’intesa sul welfare. In base a quale stramberia dovrebbe garantire giovani ed occupazione? Il bislacco governo di centro sinistra, che ho sì votato pure io, ma non per perseguire negli orrori della destra, vuol abolire la tassazione dello straordinario, ma a favore di chi? Dei padroni visto che porterebbe solo ad un aumento dell’orario di lavoro (e pensare che alcuni anni fa si discuteva delle 35 ore…). E poi cos’è quest’altra brillante idea di mantenere in vita la legge 30 (che viene definita legge Biagi quando si vuol strumentalmente usare il nome del giuslavorista ucciso a Bologna per la sciatta colpevolezza del ministero dell’Interno, guidato da tal Scajola) che non solo si è rivelata un bluff, avendo aumentato la precarietà senza creare vero sviluppo, ma ha disatteso le promesse a vanvera macinate nella campagna elettorale.


Non comprendo poi, ma la colpa ne sono certo anche qui è mia, come mai si sia diffuso l’allarme, nei giorni scorsi, sulla cocaina-kiler, perché tagliata male, quasi che assumendola semplicemente “liscia” non si riveli analogamente letale. Deve forse subentrare l’abitudine ad ascoltare sciocchezze così mirabili?


Cosa dire poi della puntualità quasi disarmante con cui, arrivati ad un certo punto dell’anno, l’Italia comincia (o forse sarebbe meglio precisare: riprende) a bruciare? Eppure questa legge antincendio, spenta dai gettiti d’acqua delle furbate, delle speculazioni e dell’incuria totale, era stata promossa dalla Ue. La normativa, del novembre 2000 e considerata appunto una delle più innovative in Europa, affida ai Comuni e alle Regioni il compito di impedire speculazioni edilizie, ma solo il 24% dei Comuni è in grado di applicarla. Tra le Regioni più virtuose spiccano la Toscana, l’Umbria e la Campania. Non genera alcuna sorpresa, invece, trovare Calabria, Puglia e Sicilia tra quelle dove la legge risulta inapplicata.


Le parole non bastano più, ormai, anche nelle sanguinose ricorrenze che attraversano ogni  anno questo Paese, nel tentativo di preservarne brandelli di memoria. Come il 2 agosto 1980. 27 anni fa, la strage fascista alla stazione di Bologna. I morti sono reali, il mostro che li ha eruttati resta defilato e perciò verranno brandite ancora richieste di giustizia da quegli affamati di verità che ancora s’intestardiscono a chiedere, anzi di più, a pretendere. L’amarissima celebrazione di quel 2 agosto va al traino di giornate meste, attraversate da lutti come la scomparsa di due maestri del cinema come Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni e di un’altra morte, a Milano, di una figura prestigiosa come Giovanni Pesce, il mitico “Visone”, comandante dei Gap, medaglia d’oro della Resistenza, a ricordarci che muore una persona, ma non l’idea che l’antifascismo dovrà essere coltivato e tutelato da ogni tentativo di riscrittura storica. Più attuale e necessario che mai.


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