lunedì 26 luglio 2010

Orgoglio coatto






1.428.411. È il numero delle volte in cui questo video è stato finora visualizzato.  Realizzato a Ostia, domenica 18 luglio, da Nicola Veschi e Antonello Cavaliere di SkyTg24, in una sola settimana è stato il più visto in India, Israele, Sudafrica, Spagna, Germania, Australia, Canada, Alaska: la cartina ne è testimonianza.


A realizzare i sottotitoli (inutili) è stato l’autore del video.
I deliranti componenti del Trio Medusa, nel programma del mattino su Radio Deejay hanno iniziato a parlarne fin da lunedì scorso e il tormentone, con le inevitabili parodie, in radio e in rete durerà tutta l’estate.
Le due protagoniste del video, ormai popolarissime (qualche ospitata televisiva non mancherà), si chiamano Debora Russo e Romina Olivi.  Difficile immaginare nomi diversi.
Un’amica della Capitale, cresciuta a pane e Roma (intesa come squadra di calcio) mi ha scritto: “Considera che esiste una fauna peggiore”.
Non so perché stia accadendo tutto questo.






mercoledì 21 luglio 2010

La dissoluzione di un impero (e di Cesare)


 




L’ometto si sta squagliando come il cerume con cui s’imbratta. Mancano le Idi di marzo e poi il ritratto di Cesare è a posto. Sono gli ultimi giorni dell’impero (e dell’imperatore). I più pericolosi, perché può accadere di tutto. Il colpo di mano di chi si vede ormai perduto e se Sansone deve perire, muoiano assieme a lui tutti i filistei.
I topi che hanno infestato la nave sono pronti a saltar giù appena comincerà ad imbarcare acqua, per impegnarsi ancora in quel trasformismo, autentico carattere di un pessimo italiano medio. Facciamo attenzione a coloro che oggi sono servi, ascari, complici e conniventi; facciamo attenzione a quell’associazione a delinquere, che per convenzione si usa definire “governo” e che domani, o al massimo dopodomani, si scioglierà per andare a formarne un’altra e da un’altra parte, perché un titolo di commendatore o di cavaliere (ehm) non si nega a nessuno e poi si tratta di passare ad una cloaca meno fetida e meno profonda.
Su “la Repubblica” di ieri Francesco Merlo ha scritto un pezzo strepitoso sulle ossessioni dell’ometto. La memoria mi ha guidato alla ricerca di altri exploit del commentatore di “Repubblica”: ne ricordavo un paio , un altro si è agganciato di conseguenza.
Già nel lontano 2003, questa volta sul “Corriere della Sera”, Francesco Merlo aveva messo in risalto le sue doti di giornalista e la pochezza esistenziale (mi verrebbe da dire: inutilità) dell’ometto che, una parte di nostri connazionali, ha sciaguratamente contribuito a piazzare al potere. Dovranno essere costoro, più che il papi, a renderci conto di questa mostruosità. Almeno chiedendoci scusa. Per il disturbo.
E poi che se ne vadano a Piazzale Loreto.


 
 

IL COMMENTO

La Bindi ossessione del Cavaliere
 
di FRANCESCO MERLO
 
La prima volta che insultò la Bindi ho scritto che era maleducato. Ma adesso è diventato un problema di farmacia. Berlusconi che insolentisce ancora Rosy Bindi, ossessivamente e con la stessa litania, non è più un avvenimento che può essere affrontato da un polemista.
Ci vuole qualche pillola per tenerlo a bada. E non è più il caso di mostragli uno specchio o di ricordare cosa raccontano quelli che hanno avuto l'avventura di incontralo di mattina presto, con il viso sfatto, senza cerone e senza trucco, piccolo, rotondo e cadente, con la pelata in libertà e l'alito guasto... No, Berlusconi non ha più bisogno di qualcuno che gli rammenti la sua verità estetica. Ha invece necessità di una terapia. E infatti non mi viene più in mente che si tratta di volgarità e non gli consiglio più qualche buona lettura, il bon ton, il galateo e neppure di ritornare ai comportamenti antichi, a rimettere in campo quella cavalleria maschile che ai tempi della sua formazione e nel suo ambiente era un valore.
Il fatto è che un premier che racconta barzellette salaci e fa battute oltraggiose va biasimato e magari anche stroncato. Ma suscita una sincera pietà un premier che si riduce a raccontare sempre la stessa barzelletta, un uomo potente che si degrada all'impotenza di ripetere sempre la stessa battuta, e ogni volta ingiuria, sempre con le stesse parole, la stessa signora che, fra l'altro, non è il capo dell'opposizione, non è il suo avversario diretto, non è neppure il vigile del quartiere che gli fa le multe, non ha una presenza invasiva nei suoi ambienti, non è la più esagitata dei suoi nemici politici, ma è invece una donna tranquilla, anche nell'aspetto, che dice le cose tranquillamente anche quando polemizza e punge. Ecco: aggredire gratuitamente Rosy Bindi sempre e solo sul piano estetico è un invasamento paranoico.
E non è possibile che Berlusconi ieri, nel visitare un’università, non sapesse di commettere una mascalzonata tirando in ballo Rosy Bindi e villanamente offendendola, senza ragione apparente, a freddo, non più da gaglioffo smanioso di mordacità ma da povero uomo ormai basito e patetico. È insomma probabile che egli creda di avere messo in atto un diversivo e abbia dunque ricicciato la sua malsana ostinazione pensando di distrarre gli italiani dalla cricca, dalla P3, dalle malefatte nel nome di Cesare... Ebbene, se è così è ancora più straziante vedere quell'uomo che, comunque è stato corpacciuto e soddisfatto di sé, diventare goffo e sconnesso. Nessuno, neppure il più feroce dei suoi detrattori, può oggi godere dinanzi allo spettacolo di un vecchio imperatore tenuto in piedi da una rabbia tristissima.
Qui infatti non c'è la disperazione che presuppone una forza, non c'è l'inventiva delle vecchie genialità che gli permisero di rilanciare, di spostare il campo da gioco. Ridire, rifare, ripetere, reiterare sempre lo stesso insulto è patologia affliggente e mesta, è un comportamento smisurato e al tempo stesso striminzito. Sono infatti diventate un unico tic villano le famose trovate spiazzanti, la nave e la bandana, il lifting e le corna... Non c'è più la creatività e non c'è la fantasia della diplomazia del cucù. C'è invece quel folle desiderio di farcela che a volte assale i vecchi e i malati terminali. Roba straziante. Verrebbe quasi voglia di aiutarlo. Suscita un'illogica solidarietà. Come una candela che si spegne.
Più significativo di cento consigli dei ministri, più illuminante della battaglia contro Fini e delle cene nella casa-covo di Bruno Vespa, questo lungo insulto alla Bindi è l'ululato di un leader che si sta sfinendo lontano dalla Storia.  
(20 luglio 2010)
 
 
 


LA POLEMICA

L'insulto speculare
 

di FRANCESCO MERLO
 
Chi di specchio ferisce di specchio perisce. Un amico che fa il direttore di un grande albergo (non ne farò il nome neppure se torturato) mi ha raccontato di avere visto Berlusconi alle 4 del mattino nel corridoio dell'hotel. Gli si è presentato dinanzi, per uno di quei contrattempi che a volte accadono nel suo mestiere, un vecchietto rotondo e basso, non calvo ma spelacchiato, scolorito e stinto, la pelle tostata e avvizzita... Ebbene, il mio amico lo ha trovato, proprio in quell'occasione, pietosamente umano. Perché la verità, ha aggiunto, non è lo specchio magico che deforma i tratti altrui ed esalta quelli propri, non è devastata dai truccatori, non è di comodo.
Ecco: Berlusconi ieri a Torino ha insolentito il governatore Mercedes Bresso, la quale governa bene un pezzo dell'Europa che conta, non solo perché è una signora e non una velina. Contro la Bresso ha evocato lo specchio non solo perché identifica le donne con le mutandine e al pennone della sua bandiera sventola un tanga. Ma perché lui non si specchia mai. Davvero Berlusconi non riuscirebbe a sostenere il giudizio severo dello specchio. Com'è noto, preferisce specchiarsi in Bonaiuti e negli occhi degli amori mercenari che lo esaltano in proporzione alla dazione. Cesare Pavese ha cantata così l'immagine insopportabile che girava nel corridoio di quell'albergo: "Come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo. I tuoi occhi/ saranno una vana parola / un grido taciuto/ un silenzio. Così li vedi ogni mattina/ quando su te solo ti pieghi / nello specchio...".
Insomma non c'è soltanto l'idea fissa del satiro senile nella seguente volgarità sputata contro il governatore del Piemonte: "Cosa fa la Bresso al mattino? Si guarda allo specchio e cosa vede? Vede la Bresso e si è già rovinata la giornata". Dire che la Bresso non è una cubista e non è una escort è infatti una ovvietà. Ma solo Berlusconi ne deduce che la Bresso non piace a se stessa. E ha cercato di convincere i piemontesi a non votarla perché non scodinzola e non miagola davanti allo specchio. Lui non sosterrebbe mai una signora sobria, discreta e responsabile che ragiona con la testa e non con la guepiere.
Ma il vero dramma non si coglie in superficie. Berlusconi crede che lo specchio sia un suo alleato, un suo ministro, un La Russa o un Gasparri. Pensa di essere bello, intelligente, alto e biondo proprio perché evita lo specchio vero. Non capisce che la gente normale non colleziona specchi e la mattina, alzandosi alla guerra con il mondo, non corre a cercare uno specchio ma si ritrova e si perde nei problemi di ogni giorno: gli stipendi, l'affitto, i figli a scuola, la pensione, il lavoro e ovviamente, se è italiano, la sventura di avere Berlusconi.
Alla fine, dietro la scemenza sullo specchio, che Berlusconi peraltro aveva già recitato, non c'è la Bresso e non c'è neppure la campagna elettorale che invece c'è negli immancabili insulti ai giudici e, questa volta, anche ai colleghi della Stampa di Torino. C'è, invece, nel Berlusconi che si arrampica e scivola nello specchio, un disperato e malcelato bisogno di fissità. C'è la paura di incontrare se stesso nel corridoio di un albergo, di vedersi, appunto, allo specchio che è un tribunale senza Ghedini. È questo l'epilogo del Berlusconi che si sta disfacendo: dopo avere in ogni modo truccato se stesso, adesso  -  al mattino a mezzogiorno e a sera  -  trucca gli specchi, lucida la superficie convessa dei suoi Minzolini.
(24 marzo 2010)



 




OLTRE IL LIMITE


Francesco Merlo



 
Troppe volte ci capita di pensare che Berlusconi faccia la satira di se stesso e si autoriduca a macchietta. Almeno due volte la settimana infatti si caricaturizza da solo con involontarie autodenigrazioni. Se continua così, in mancanza di riforme, di grandi opere, di efficienti scuole di Stato, di rilancio dell' economia, di sport e di talento, presto di lui potrebbe restare, come materia di studio e di pietas, solo un modello di autoannichilimento. Insomma sta accadendo quel che Montanelli aveva preannunciato sul Corriere: Berlusconi si sta consumando e sbriciolando da sé. Ecco perché, nel giorno in cui Berlusconi ha detto che i giudici sono matti e ha aggiunto che Montanelli e Biagi sono stati sempre invidiosi di lui, la cosa che più ci manca è la risposta di Montanelli. Ci manca la sapienza di chi comprende che l' insulto insensato e l' ingiuria sguaiata nascondono sempre debolezza, malessere, inadeguatezza, forse tragedia. Nessuno di noi conosce Berlusconi come lo conosceva Montanelli. Solo lui avrebbe capito, allarmato, da quale pozzo di disperazione affiori l' idea infantile che un re invidi un valletto, un gigante un nano, che un monumento della storia d' Italia, il quale aveva rifiutato anche il seggio di senatore a vita, abbia desiderato, fosse pure una volta, di indossare i tacchi e la pelata di un parvenu della politica. E perché mai Enzo Biagi dovrebbe invidiare un improvvisatore del quale non si possono invidiare né la cultura né l' intelligenza né l' eleganza ma solo il danaro, problematicamente accumulato? Secondo noi, Montanelli oggi non rimprovererebbe a Berlusconi neppure il cattivo gusto di avere insultato un morto. Berlusconi infatti - ci perdonino tutti i suoi forsennati detrattori che tanto gli somigliano - sicuramente non è una iena, ma un visionario, la cui originaria naïveté e la cui proverbiale leggerezza stanno degradandosi in grottesco, come il trucco sfatto sul viso di un clown. Dunque Berlusconi attacca il morto perché lo vede vivo, lo teme vivo e, di nuovo, confonde la libertà di giudizio con l' invidia. Anche l' idea che i giudici siano matti, oltre che un' ossessione da imputato, è un autogol da imputato. Il giudice matto non esiste, e la convinzione che ci sia una tabe psichica che motivi i dottori in Legge verso la magistratura non è buona neppure per la letteratura da «scemeggiato» tv. Si conoscono infatti giudici corrotti, moralmente o politicamente, giudici eroi, giudici per bene, giudici quaquaraquà, ma il giudice pazzo è una categoria solo berlusconiana, come appunto l' invidia di Biagi e Montanelli; è una categoria che rimanda ad altro, che significa altro. Significa che per Berlusconi il Diritto frequenta, o meglio - viste le precisazioni del disperato portavoce Bonaiuti - costeggia la follia. Una persona che informa la sua vita al rispetto del Diritto non è normale, come pensa di essere Berlusconi, ma folle o quanto meno maniaco, come non pensa di essere Berlusconi. La legge è fatta per essere amministrata da dissennati e gli italiani che si fidano dei giudici pazzi sono poveri idioti. Come si vede, siamo oltre la satira più impietosa. Nessuna Sabina Guzzanti sarebbe arrivata a tanto. C' è una tale assenza di misura da spingerci non all' indignazione ma alla commiserazione, la stessa provata per Robert De Niro che, pugile per forza, dopo l' incontro si finisce dissanguandosi nelle toilettes.
(5 settembre 2003)     



 






Maggioranza in riga



MOLTI CAVALLI MA IL CAVALIERE E' UNO SOLO



Francesco Merlo


 


Sembra più adatto alla politica che alla Lancia Thesis e ai suoi 230 cavalli lo spot televisivo della splendida Cucinotta: «Molti cavalli. E un solo cavaliere». Di sicuro l' idea, selvaggia e indecente, che un solo cavaliere domini tutti quei cavalli, 474 tra Camera e Senato, e addirittura li degradi a ronzini, è perfettamente adeguata alla giornata di martedì, quando la pur rissosa maggioranza di governo ha approvato, in un solo pomeriggio, ben due leggi che, alla fine, hanno un' unica sostanza, trattano la stessa materia: la tv di Berlusconi, l' interesse del padrone. Ormai è accertato che sulle televisioni, sul proprio patrimonio personale, sulla guerra ai magistrati che lo stanno processando e sui «lodi» che lo ibernano, Silvio Berlusconi tiene l' Italia in uno stato di eccitazione sentimentale, una specie di infiammazione uterina che ci riguarda tutti, sostenitori e oppositori. Ed è un'ossessione che, comunque vada a finire l' avventura, diventerà materia di studio politologico per la posterità. Da un lato bisognerà decifrare infatti la passione assatanata di questa maggioranza che si comporta come personale di servizio, dove tutti si azzuffano su tutto, ma poi come le api e come le mosche tutti vengono risucchiati sull' essudato. Dall' altro lato ogni volta che la maggioranza si compatta sulla pastura del biscione, nell' opposizione scatta subito l' intransigenza etica, dettata da codici lontani, ma nessuno sa mettere le mani nel pasto. E nessuno, nell' opposizione, sa modificare la ricetta, ridosare gli ingredienti in maniera più o meno surrettizia, entrista o troskista, di lotta e di governo. E difatti il presidente della Rai Lucia Annunziata promette le dimissioni, e a piazza Navona si gira in tondo, nelle feste dell' Unità si fanno spettacoli incandescenti, e i comici si candidano a leader della politica della risata e degli sfottò dove, come tutti capiscono, deriso e derisori sono sostanzialmente solidali. Al punto che il più intransigente degli oppositori, Nando Dalla Chiesa, è diventato, in teatro, il più fedele e il più applaudito imitatore di Berlusconi. Insomma non potendolo sfidare lo si ridicolizza amabilmente, come facevamo a scuola con l' odiato professore al quale riconoscevamo il monopolio del sapere, e lo sfottò era dunque l' unica licenza, l' estremo rifugio perché nessuno poteva contestargli l' abilità professionale, lui solo sapeva che l' aoristo di lambano era elabon, e la metrica di Virgilio e di Seneca, e l' esametro dattilico, una lunga e due brevi... Ebbene, come quel professore deteneva il monopolio del sapere così Berlusconi detiene l' iniziativa della politica italiana. E' infatti il solo che riesce a compattare e a mantenere uniti sia i secchioni e sia le birbe, la maggioranza dei diligenti e la minoranza dei monelli, ad assicurare insomma la disciplina in classe. Perciò alla fine ha ragione la Cucinotta, non meraviglia tanto il cavaliere: qui il problema sono i 474 cavalli della maggioranza ridotti a ronzini da un solo cavaliere. Silvio Berlusconi, per la verità, sa anche governarli con leggerezza questi suoi cavalli, lascia che scalpitino sulle pensioni o sull' immigrazione, permette a Fini di dare dell' arrogante a Tremonti, concede a Bossi di insolentire chi gli pare, e a Follini ha assegnato il ruolo più elegante, quello della discrezione al galoppo. La settimana scorsa, ricordate?, Berlusconi l' ha pure detto che i suoi cavalli «devono sfogarsi» ed è andato a comprarsi la villa di Zeffirelli a Positano: «Tanto, senza di me si suiciderebbero». Berlusconi del resto era stato molto liberale pure sulle quote latte, e aveva persino permesso ad An di votare con i comunisti di Rifondazione per bloccare la vendita dei beni immobili dello Stato. Sulla grazia a Sofri poi, tutti si sono ricordati di essere cavalli, e si sono persino imbizzarriti. Ma sulle televisioni no. Su tutti gli affari del presidente del Consiglio, imprenditore interessato, vale lo slogan della Cucinotta e il Parlamento diventa il bivacco di un solo cavaliere. Davvero dunque la giornata di martedì scorso è la giornata simbolo dell' infelicità di questa Italia che deve scegliere tra i ronzini e i goliardi. Nulla di più lontano dalla tradizione e della storia del Paese, fosse pure la più controversa, fosse pure la più cortigiana. Si sa, per esempio, che Fanfani dipingeva e magari teneva ai suoi quadri più che ai suoi progetti politici. Ma non ha mai creato il partito delle tele, non ha ridotto la Dc a un' accozzaglia di adulatori né il Parlamento ha mai legiferato per dare a Fanfani il monopolio della pittura. No, la strada sulla quale Berlusconi sta portando i suoi ronzini potrebbe presto diventare senza via d' uscita: presto, molto presto, quando la legge Gasparri sul riordino televisivo e la legge Frattini sul conflitto di interessi verranno definitivamente approvate. Svanirà così la possibilità che il presidente del Consiglio si liberi completamente del suo dominio televisivo e smonti da cavallo, che è l' unica soluzione, proprio l' unica, per fare di quella stalla un' aula parlamentare.
(24 luglio 2003)  



         
 



La vignetta di Marilena Nardi è stata pubblicata sulla prima pagina de "il Fatto Quotidiano" del 14 luglio 2010.



 


mercoledì 14 luglio 2010

Senza bavaglio




13 luglio 2010
31 Ottobre 2009, Paderno Dugnano (MI) Circolo Arci "Falcone e Borsellino". Queste immagini scioccanti mostrano il summit dei boss della 'ndrangheta in cui viene eletto Pasquale Zappia come referente per il Nord Italia delle cosche calabresi.



Un video sconcertante (sul sito ilfattoquotidiano.it) che sbatte in faccia, a chi ancora non si è svegliato, che le mafie si stanno impossessando dell’Italia e che Milano è la filiale al Nord della ‘ndrangheta. Notare il luogo dove si compie l’oscenità, i nomi che campeggiano sulla targa all’esterno. Da vomito.
Ma anche questa è informazione, quella che si vorrebbe ridimensionare prima e occultare poi. È l’informazione che preferisco naturalmente.
A seguire un pezzo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” (che per fortuna c’è) sulla crisi economica che ha il pregio non solo di parlar chiaro, ma anche smentire le mille balle azzurre che l’associazione a delinquere, incidentalmente chiamata “governo”, produce in quantità industriali ogni giorno di questi tempi infelici.
E la smentita anche sul tema caldissimo delle intercettazioni, ossia della loro cancellazione, attraverso due articoli apparsi, a distanza di un mese, su “la Repubblica”, il quotidiano schierato in prima fila nella tambureggiante campagna stampa per strappare il bavaglio, anzi non farselo proprio imporre.
Esempi, come tanti altri, che si possono portare a sostegno della tesi che senza bavaglio è meglio.
Almeno io la penso così.


           
Crisi, chi nega l’evidenza
Il governo insiste con un ottimismo assurdo e i giornali amici parlano di nuovo “boom” perché sbagliano (con dolo) nell’interpretare i dati: ma il disastro economico non è ancora alle spalle
di Mario Seminerio
 
Nel nostro paese esiste una mistica dell’ottimismo sullo stato dell’economia che va ben oltre il diritto ed il dovere di un esecutivo a trasmettere messaggi positivi sulla congiuntura, ovviamente dopo aver assunto e motivato le proprie scelte di policy ed aver ottenuto riscontri che la direzione intrapresa è quella corretta. In Italia, dall’inizio di questa crisi infinita, esiste invece un obbligo di ottimismo a oltranza (e oltranzista), trasmesso attraverso alcuni mantra fattualmente fallaci, ed amplificato da organi di informazione dimostratisi incapaci (per dolo o pura ignoranza) a cogliere il reale stato della congiuntura.
Qualche giorno fa l’Istat ha comunicato che, nel 2009, il nostro paese ha registrato un crollo degli investimenti, pari al 12,1 per cento, con punte del 14,9 per cento per il settore industriale. Non c’è nessuna “crisi alle spalle”: la crisi è qui, non si è mai allontanata, ma è mutata. Abbiamo avuto una fase di mini-rimbalzo, soprattutto dell’attività manifatturiera, legato sia al vigore delle economie emergenti (segnatamente la Cina), sia ad alcune iniziative di anticipazione della domanda futura per alcuni beni durevoli di consumo, come le auto, che hanno goduto di ampi e diffusi incentivi. Oggi, per contro, abbiamo diffusi timori di un nuovo rallentamento, indotti sia dal venir meno dello stimolo statunitense (che nel secondo semestre dovrebbe sottrarre crescita, per effetto-confronto col recente passato), sia per alcune evidenze di rallentamento della locomotiva cinese, che necessita di riconvertirsi dalle esportazioni alla domanda interna, ma che ha comunque ampi eccessi di capacità produttiva in molti settori.
Ebbene, l’intera evoluzione della crisi è stata finora gestita dall’esecutivo secondo una strategia di comunicazione che miscela l’ottimismo con la minimizzazione, l’enfasi su dati assai poco leggibili ed altrettanto poco robusti come capacità previsivae lo spostamento dello spin mediatico su temi diversi dall’economia, come la sicurezza e l’immigrazione. Né manca il tentativo di intestarsi politicamente quelli che sono tratti culturali delle famiglie italiane (come la propensione al risparmio), non il frutto di azioni di governo. Due anni addietro, il premier amava dire che avevamo di fronte soprattutto una crisi “psicologica”, che il nostro paese era esterno ed estraneo all’epicentro dei mutui subprime e dell’eccesso di indebitamento. È vera la seconda parte della proposizione, non certo la prima. Nessun paese è un’isola: esiste una cosa chiamata moltiplicatore del commercio estero che ci riguarda tutti, e trasmette crisi e crescita allo stesso modo. Gli italiani non consumano per timore, dicevano esponenti di governo e maggioranza. In realtà, gli italiani non consumano per progressiva riduzione di risparmio e reddito disponibile e per crescenti timori legati al terzo maggior debito pubblico del pianeta. Possiamo dar loro torto?
Poi venne la polemica con le banche: non accettano i Tremonti bond, che ci farebbero ripartire l’economia, si disse. Non era vero, naturalmente: le banche stringevano il credito per timori legati all’evoluzione della crisi ed all’incertezza circa la reale situazione dei bilanci. Insomma, una crisi à la carte, compare e scompare in funzione della prova di forza politica di turno.
Poi è stata la volta della finzione sul tasso di disoccupazione “più basso della media europea”. Neppure questo è vero, perché il dato non considera che l’Italia ha un tasso di partecipazione alla forza lavoro che è di nove punti inferiore alla media europea, circostanza che di per sé tende a frenare l’ascesa del tasso di disoccupazione. Ma soprattutto, nel dato non si considera il numero di cassintegrati, spesso in aziende clinicamente morte o con organici comunque sovradimensionati.
Oggi, lentamente ma inesorabilmente, emerge la verità: la crisi ci ha colpito quanto e più degli altri. Nel 2008 eravamo l’unico paese sviluppato Ocse (con il Giappone) ad essere in recessione prima che la crisi esplodesse, per eccesso di pressione fiscale (soprattutto sul lavoro). Nel 2009 siamo stati tra quanti hanno subito la maggiore contrazione del Pil, ma tutto è stato silenziato. Poi sono arrivati gli strafalcioni da matita blu. Quelli che portano i giornali a scrivere, a fronte di una crescita annuale della produzione industriale del 6,9 per cento, che siamo di fronte ad un “boom”, omettendo tuttavia che un progresso del 6,9 per cento su un indice di produzione che in precedenza si era ridotto del 30 per cento è il nulla, o quasi. Nessun riferimento alla perdita di cento trimestri di produzione industriale dall’inizio della crisi, e di 34 trimestri di Pil, come risulta da un paper della Banca d’Italia.
Oggi, in attesa degli eventi, siamo ancora allo stesso copione: noi ne usciremo meglio di altri, e comunque abbiamo un premier che salva il mondo, all’occorrenza. Chissà perché, non c’è motivo per sentirsi rassicurati.
(10 luglio 2010)




IL DOSSIER



Ecco l'Italia delle intercettazioni, sotto ascolto solo 26mila persone



Il premier: "Siamo tutti spiati". E calcola 7,5 milioni di persone nella rete degli ascolti. Ma i numeri raccontano una verità diversa. Gli addetti ai lavori in rivolta: "Dal governo cifre sballate, più facile vincere al lotto che finire ascoltati"



 
di PIERO COLAPRICO
 
MILANO -"Il tandem Berlusconi-Alfano sta raccontando del mondo delle intercettazioni un cumulo di menzogne. Purtroppo non possiamo dire esattamente quello che pensiamo con nome e cognome, perché con questi ci dobbiamo lavorare. Aiutateci". La protesta sale ovunque. Ma è soprattutto al Nord, dove hanno sede le principali società specializzate in telefoni e microspie, che si trasecola. Ieri c'è chi è andato su Youtube, chi ha cercato le agenzie stampa, molti sono di centrodestra e non credevano alle loro orecchie nel sentire il premier che, tra gli applausi della Confcommercio,
raccontava che 1 "In Italia siamo tutti spiati. Vengono fuori sette milioni e mezzo di persone che possono essere ascoltate. Questa non è vera democrazia.".
Meno di 30 mila gli intercettati. I numeri reali smentiscono (pesantemente) la versione di Berlusconi. Il dato ufficiale diffuso dal ministero di Grazia e giustizia indica in 132.384 i "bersagli intercettati". Ma - attenzione - non sono persone e non sono case. Ogni "bersaglio", nel gergo usato da chi le intercettazioni le fa, corrisponde ad un numero di telefono. Dunque, spiega Elio Cattaneo della Sios, una delle società d'intercettazioni più attive, "se si conta che un italiano medio dispone di un telefono cellulare personale, più uno aziendale, più uno fisso a casa, più parenti stretti eccetera, noi calcoliamo che intercettare una persona vuol dire mettere sotto controllo un numero di 5,3 telefoni/bersaglio. Inoltre, se si intercetta uno straniero o un mafioso che delinque utilizzando anche telefoni esteri, la media bersagli che riguardano uno stesso soggetto sale a dieci, dodici".
Quindi, se si fanno come alle elementari i conti che Silvio Berlusconi e il centrodestra, decisi ad affossare questo strumento d'indagine, non hanno fatto, il risultato è all'opposto dei milioni di "ascoltati". Prendiamo le persone che abitano in Italia: circa 60 milioni. Le dividiamo per i 132.384 bersagli, divisi a loro volta per una media di circa 5 telefoni a bersaglio: il risultato porta (siamo larghi) a circa 27 mila persone intercettate, vale a dire, lo 0,045%, una persona ogni 2.200 abitanti. Secondo l'avvocato e senatore Luigi Li Gotti, gli intercettati sono ancora meno, tra i 20 e i 23mila. "E' più facile vincere al lotto che essere ascoltati", continua l'imprenditore brianzolo Cattaneo.
Dodici euro al giorno. "I costi delle intercettazioni sono altissimi, non ce li possiamo permettere", tuonano sempre dal centrodestra. Invece, tenere sotto controllo oggi il telefono di un narcotrafficante "costa circa 12 euro al giorno di media per telefono, mentre pedinarlo - spiegano gli esperti - significa impiegare almeno sei uomini, mandarli in trasferta, spendere in benzina e alberghi". E dunque, secondo un esperto dell'antimafia, il costo sarebbe di circa 2.500 euro al giorno.
L'intercettatore senza divisa. Un bandito entra nella sua auto, posteggiata nel box blindato.
Esce, incontra un socio e comincia a parlare dei suoi traffici, ma viene intercettato e, prima o poi, sarà catturato. Chi è riuscito a eludere i sistemi d'allarme, aprire l'auto e piazzare la microspia? Un carabiniere, un poliziotto, un finanziere, direbbero molti, "vittime" delle fiction tv. E sarebbe uno sbaglio: a installare la cimice elettronica è quasi sempre un consulente esterno (della Procura e dei detective). E' un ingegnere, un elettricista, un perito, o anche un ex-detective che ha mollato la divisa: è quest'uomo "senza volto" che fa il lavoro difficile, dalla strage di Capaci a quella di via D'Amelio, dal terrorista islamico al faccendiere di partito.

Questa la realtà oggettiva che viene "omissata" dai dibattiti parlamentari e televisivi. In Italia la magistratura e le forze dell'ordine "non" possiedono la tecnologia delle microspie (e nemmeno gli strumenti minimi). E più i software dei computer, dei telefonini, delle trasmissioni radio e delle "memorie" elettroniche diventavano complessi, più la nostra polizia giudiziaria si è affidata ai tecnici esterni: era ritenuto l'unico modo per stare all'avanguardia e fronteggiare un crimine sempre più internazionale e inafferrabile. Ogni Procura, in assenza di leggi, s'è data dei criteri di trasparenza più o meno efficienti e i vari ministri della Giustizia hanno lasciato fare.
Centocinquanta società strutturate. Oggi in Italia, nel settore delle "cimici" elettroniche e delle deviazioni dei flussi telefonici e informatici, esistono quasi 150 società ben strutturate. Le più solide aziende del settore sono "nascoste" tra Milano, Lecco e Como (come Area, Rcs, Sio e Radiotrevisan), più c'è la Innova di Trieste: da sole hanno assunto a tempo indeterminato circa 400 dipendenti e avevano fatturati che superano i 30 milioni. Una cinquantina di società, da due anni, si sono riunite nell'Iliia, con sede a Milano. Se si contano però anche gli ex marescialli che entrano nel settore quando vanno in pensione, o tantissimi sub-appaltatori, si arriva a circa 400 partite Iva. I dipendenti assunti regolarmente in Italia da queste ditte superano quota mille. Se si fermano loro, si fermano le intercettazioni.
E il ministro Alfano non paga il conto. Nel 2006, con l'idea di tenere maggiormente sotto controllo i conti dello Stato, il centrosinistra toglie alle Poste il compito di "fare da banca" allo Stato. Da allora, per farsi pagare le fatture dei lavori svolti, le varie società d'intercettazione devono presentare il conto non più agli uffici postali, ma direttamente a Roma, al ministero di Grazia e giustizia: dov'è nel frattempo arrivato dalla Sicilia Angiolino Alfano, ex segretario di Silvio Berlusconi.
E il ministero che fa? "Fa né più né meno come quei clienti che fuggono dal ristorante dopo aver mangiato: non paga il conto", spiegano dall'interno di queste società. Nell'autunno 2008, ormai strangolati, le aziende d'intercettazione mandano i loro amministratori a Roma: "Non arriviamo alla fine del mese, se non ci pagate chiudiamo, licenziamo, buttiamo a mare indagini delicatissime".

Preso in contropiede, il ministro di un governo che ha basato la sua campagna elettorale perenne sulla sicurezza pubblica, prova a metterci una toppa. E con aria trionfante, (tra lo sconcerto muto e preoccupato di chi lavora nelle intercettazioni) fa un annuncio all'inaugurazione di quest'anno giudiziario: "L'immediata azione del mio dicastero (...) ha fatto sì che i debiti pregressi fossero onorati".
I conti del ministero i conti della realtà. Onorati è una parola fuori luogo. I debiti nel 2008 erano circa 450 milioni. Nel 2009 - anno in cui Alfano comincia a parlare del tema, dopo aver lasciato incancrenire la situazione - queste società hanno continuato a lavorare, fatturando altri 250 milioni circa di euro, Iva compresa. Sempre nel 2009 le varie procure, con i fondi del ministero, hanno pagato agli intercettatori un acconto sul debito post 2006 di circa 120 milioni. Dopo di che, sempre nel 2009, e sempre con la transazione del ministero di Alfano (che ha imposto uno sconto del dieci per cento e ha semplicemente azzerato gli interessi), sono arrivati alle società altri 100 milioni.

Quindi, ricapitoliamo i conti: 450 milioni di debito sino al 2008, più 250 di debito nel 2009, meno 120, meno ancora 100, porta a un totale di 480 milioni: è ancora questo, al 31 dicembre 2009, il debito Iva compresa che lo Stato ha nei confronti di queste società. Come può dunque il ministro vantarsi di aver "onorato" il debito? Dalla Sios di Cantù, il titolare ieri protestava, amareggiato: "Uno lavora una vita e poi vede la sua inventiva e le sue energie buttate a mare solo perché la politica ha deciso di fare la guerra ai magistrati e così, per colpire loro, calpesta noi e i nostri diritti. Al ministero sanno che se non ci fossero le risorse personali di noi imprenditori, e le banche che ancora ci sostengono, saremmo già chiusi. E così ci sarebbero zero intercettazioni, senza nemmeno il bisogno della legge-bavaglio".
(17 giugno 2010)


IL CASO
 
I veri intercettati sono solo seimila
 
di PIERO COLAPRICO
 
MILANO E se oggi - proprio oggi sabato 10 luglio che leggiamo questo articolo - in tutta Italia ci fossero, ad esagerare, non più di seimila persone intercettate? Prima di definire alcuni calcoli che sinora nessuno aveva fatto, è necessaria una premessa «storica». In questi anni, vari magistrati hanno ascoltato la viva voce di Silvio Berlusconi al telefono. Lo si è sentito raccomandare alcune attrici con l' ex manager Rai Agostino Saccà. Ragionare su feste e ragazze con un imprenditore barese. Prendersela con un commissario dell' Autorità garante delle telecomunicazioni, trattato peggio di un cameriere pelandrone. E tante volte sono state registrate conversazioni che riguardavano il premier, o i suoi più stretti collaboratori.
E' su questo scenario di «frasi rubate» e «poteri forti» che è cominciata una guerra di numeri. Sono dunque milioni, questi intercettati italiani, come vuole la versione del premier diffusa (senza verifiche) urbi et orbi dai tg? Oppure bisogna entrare nell' ordine di grandezza delle migliaia, come sostengono quelli che con le intercettazioni ci lavorano?
Il calcolo è lineare. Le procure, come si sa, per intercettare si affidano a società private esterne. Quindi, per conoscere il numero dei telefoni sotto controllo, invece di domandare alle lente burocrazie delle varie corti d'appello, è più semplice chiedere dettagli ai pochi «operatori» che servono tutte le procure italiane. In questi giorni, i vari amministratori delegati hanno svolto una verifica dei «lavori in corso». Ed ecco quello che, tra loro, si sono detti.
La società Area ha sotto controllo 5.200 «bersagli», e cioè - attenzione - telefoni e telefonini, non persone fisiche. La società Rcs ne ha 4.500. La Sio 1.500. Radio Trevisan circa mille. Innova, con sede a Trieste, 3 mila numeri. Le società più piccole sommano altri 3.500 «bersagli». Sommando tutto, oggi in Italia sono sotto controllo meno di 19mila apparecchi.
Non è finita. E' stato calcolato che quando si «sta dietro» ai colletti bianchi degli appalti sporchi o ai criminali grandi e piccoli, ognuno ha a disposizione varie utenze. Quindi, tra gli intercettatori, si è stabilito un cosiddetto "coefficiente 5,3": per tracciare le conversazioni di un indagato si «mettono sotto» almeno cinque numeri. Se dividiamo per il coefficiente 5 - stiamo larghi e arrotondiamo - ventimila bersagli, abbiamo non più di quattromila intercettati. E, volendo arrotondare ancora di più, ad abundantiam, di un' altra bella metà, arriviamo a non più di seimila intercettati.
Questo 0,0001% della popolazione italiana parlerà certo con altre persone, ma si usa una dizione, «conversazione non rilevante», che fa buttare nel cestino le chiamate a amici e parenti e a chiunque non parli con l' intercettato di fatti di reato o di argomenti che «raccontano» gli intrecci personali, le «opacità». Ancora qualche dettaglio, sempre proveniente, dal mondo di queste società di intercettatori, può essere utile: ogni intercettato per reati non di mafia viene ascoltato in media per non più di 35 giorni, per reati di mafia sui 100 giorni e solo nei casi dei latitanti - come l'ultimo arresto a Napoli - le persone vengono ascoltate anche per due anni. E forse non ne vale la pena?

(10 luglio 2010)  
 

 




 

 

venerdì 9 luglio 2010

Il maschio omicida




Nomi: Debora, Maria, Roberta, Sonia.
Anni: 20, 36, 43, 42.
Abitanti a: Pandino (Cr), Riva di Chieri (To), Spinea (Ve), Rivolta d’Adda (Cr).
Una geografia lordata dal sangue e dalla violenza. Ad ogni età. Donne odiate e uccise da uomini che sono geneticamente incapaci di accettare il loro “no”, la fine di una relazione, atterriti che possano avere un’altra storia o che l’abbiano cominciata. E quando non ammazzano fisicamente, incrudeliscono in maniera spietata stuprandole, come è capitato ad una giovane donna di Ascoli Piceno, violentata per due volte dal suo ex, il quale mentre infieriva sul suo corpo e sulla sua anima,  le sibilava: “Ti metto incinta così sarai mia per sempre”.
E dove non arriva la rabbia del maschio vulnerato, ci pensa la stravaganza leguleia.

Cassazione. La moglie ha un carattere forte? Allora maltrattarla non è reato
Annullata la condanna a 8 mesi per un uomo accusato di aver maltrattato la coniuge per tre anni. A determinare la decisione della Corte il fatto che la donna non risultasse 'intimorita' dalla violenza del marito.


ALTRIMONDI
di Giorgio Dell’Arti
Come mai tutti questi uomini che uccidono le loro donne?
 
Siamo tutti impressionati dalla storia delle ultime due giovani donne ammazzate dai loro altrettanto giovani uomini, a cui pareva impossibile di essere abbandonati. Ma ancora più impressionante è la sequenza degli ultimi delitti di cui si sono occupati i giornali, parlo dei delitti in cui l’assassino è un italiano.
 
Sono molti?
Quindici giorni fa a Cerignola, in provincia di Foggia, un Vito Calefato di 33 anni, precedenti per spaccio, si sente dire dalla sua fidanzatina polacca (17 anni) che ha trovato lavoro in un’azienda ortofrutticola di San Ferdinando di Puglia, questo significa che potrà uscire di casa da sola, la cosa gli pare intollerabile e quindi la ammazza nel garage di casa con un colpo di 7,65 e poi si spara alla testa. Il giorno dopo si viene a sapere la storia incredibile di Gaetano DeCarlo, 55 anni, pugliese anche lui, ma attivo a Bergamo. Un professionista dello stalking, che non ammettendo di essere stato piantato va a cercare due sue ex amanti e le ammazza tutte e due, a poche ore di distanza, e si toglie poi la vita. C’è poi la storia terribile di Ugento, Lecce: un giovane di 25 anni, Gianpiero Mele, fresco di laurea in Economia, ha sgozzato il figlio di due anni per vendicarsi della madre del bimbo che lo aveva lasciato. E che dire del tizio di Catania, che non sopportando di essere sfottuto per delle pretese corna, riduce in fin di vita due persone? Infine il doppio delitto dell’altro giorno, due ragazzi di 28 anni che hanno ammazzato le loro donne perché non sopportavano di essere abbandonati.
Non ci sono storie alla rovescia, cioè uomini che lasciano donne e queste si vendicano uccidendoli?
Negli ultimi quindici giorni non ci sono donne che abbiano ammazzato uomini. Gli unici casi in cui ci sono delle vittime-maschio sono dei suicidi. Anzi: nel periodo considerato (dal 17 giugno a oggi) non risultano – almenosulla grande stampa – suicidi femminili. Questa piccola ricerca, per nulla scientifica, trova conferma però nei dati nazionali: negli assassinii sette volte su dieci le vittime sono donne e l’omicida è il loro partner o comunque un parente. Le statistiche ci dicono anche che la maggior parte dei delitti in famiglia avviene al Nord, in comuni piccoli e medi (dati Eures-Ansa). I due ultimi casi confermano.
Dove sono successi?
Il primo a Oleggio, in provincia di Novara. Simona Melchionda esce di casa domenica 6 giugno, verso le 23-30, e non ritorna più. I genitori fanno affiggere manifesti sui muri della città, i carabinieri interrogano tutti, interviene anche Chi l’ha visto?, ma del mistero non si viene a capo. Si scopre dopo un mese che l’ha ammazzata il fidanzato, un carabiniere in servizio di nome Luca Sainaghi, ventottenne. Costui aveva fatto un figlio con un’altra donna. Simona, saputa la cosa, l’aveva piantato immediatamente. Sainaghi – un uomo di carattere debole, che faceva sempre quel che gli dicevano le sue due donne – è uscito dal tormento sparando a quella che aveva deciso di chiudere.
E l’altro caso?
A Pandino, vicino a Cremona. Un Riccardo Ragazzetti, anche lui ventottenne, autista in un’azienda alimentare, lasciato a marzo dalla sua Debora (Debora Palazzo, 25 anni) prima finge con tutti che il fatto non sia avvenuto e mostra persino la casa dove presto andrà a vivere con il suo amore. Poi, dato che lei non cambia idea, pianifica la morte di entrambi: lascia una lettera ai genitori in cui spiega che cosa si dovrà fare, dopo, dell’auto, dei mobili di casa, dei conti da saldare; va a comprare una Glock calibro 9; cena in famiglia e prima di uscire prega di svegliarlo l’indomani alle sette; va infine ad aspettare Debora sotto la casa di un’amica. Quando è tutto finito, telefona al fratello: «Ho combinato un casino, non dire niente a mamma». E si spara, vicino alla donna che ha ucciso con un colpo in testa.
Non sono storie antiche? Non è sempre successo, che si uccidesse e ci si uccidesse per amore? 
Si sperava che intanto il maschio italiano fosse cresciuto. Che l’emancipazione femminile, cioè la libertà della donna di vivere la propria vita come le sembra giusto e di lasciare gli uomini di cui si è stancata, non avrebbe provocato, in tanti uomini, una perdita così totale di se stessi, un abbandono così tragico (e quando non è tragico, è ridicolo) alla disperazione. I dati sullo stalking, una pratica 8 volte su 10 tutta maschile – valgono più di qualsiasi commento.
(5 luglio 2010)


Uomini che odiano le donne
di Silvia Ballestra
 
Due elementi colpiscono nell’ennesima giornata di follia omicida contro le donne. Il fatto che Gaetano De Carlo, a poche ore l’una dall’altra, abbia ucciso ben due ex fidanzate, e che l’assassino fosse uno “stalker” conclamato. Non un raptus, non qualcosa di inatteso. Con Maria Montanaro la relazione era finita da poco, Livia Balcone, invece, sua compagna in un passato non vicinissimo, era già da un po’ vittima delle sue persecuzioni. Minacce, molestie e anche un’aggressione, che l’avevano spinta a depositare ben sette denunce contro quest’uomo pericoloso, fargli togliere il porto d’armi. C’era in corso un processo che però non è bastato a fermarlo, così al dolore di amici e parenti delle vittime si aggiunge la frustrazione. Un’impotenza che coglie anche chi si occupa di queste questioni da tempo poiché si ha la sensazione che, nonostante la presa di coscienza del problema “femminicidio” di questi ultimi anni, le cifre della cronaca sembrano inarrestabili.
La legge sullo stalking, da noi, è recente ed è presto per fare bilanci ma è certamente un passo avanti, il riconoscimento di un problema, l’ultimo campanello d’allarme. Ora, è vero che, sebbene sembrino rispondere a un copione, a un preciso profilo criminale, questi delitti hanno a che fare con specifiche patologie, dinamiche, rapporti. Solitudini, ossessioni, desideri insoddisfatti. Ma non dipendono solo dalle singole storie personali e familiari: chiamano in causa anche la condizione socio-culturale, e dunque politica, di un Paese intero.
Da tempo, ormai, da più parti, si sottolinea come il corpo delle donne sia oggetto delle più diverse forme di violenza e sopruso. Ciò che solo qualche anno fa sembrava indicibile, liquidato come argomento polveroso e “vetero”, ci è stato ora raccontato e mostrato, analizzato e denunciato anche nella sua versione più attuale: la mercificazione continua del corpo della donna – buono per vendere di tutto – è talmente martellante e presente da non poter più essere negata o liquidata con argomentazioni leggere da commedia all’italiana. Da anni si parla di veline e velinismo, si parla di monnezza sottoculturale, di modelli deleteri, di certe trasmissioni orrende che sviliscono le donne, ma da quel versante nulla cambia. Pupe, veline e bonazze in costume continuano a occupare l’etere e lo spazio con ammiccamenti e promesse irraggiungibili.
Ci siamo indignate, indignati, abbiamo scritto che tutto si tiene, che considerare le donne come merci da possedere e esibire non è dignitoso per nessuno e non può restare senza conseguenze. Nel frattempo abbiamo scoperto che da noi le donne sono usate anche come benefit nella corruzione dei potenti. Chissà allora se una legge sulle persecuzioni può bastare o non servirebbe, pure, un cambiamento più generale, uno scatto d’orgoglio.
Una recente classifica della qualità della vita nelle città, accanto a qualità, quantità e efficienza dei servizi, livello dell’offerta culturale, ha posto come parametro anche il numero di omicidi e violenze domestiche: non sarà un caso che fra le prime venticinque non c'è nessuna città italiana.
(2 luglio 2010)


 



giovedì 1 luglio 2010

Ustica, la verità negata





11 giugno 1989


Esiste un enorme buco nero, ricolmo di sangue, che ha inghiottito vittime inconsapevoli e innocenti, lacerando il tessuto sociale di questo Paese. Nel cratere sono precipitate la verità e la dignità di un popolo, il vuoto pneumatico di giustizia è stato riempito, da cialtroni e farabutti, da versioni omissive e di comodo.
La collusione di intere classi dirigenti con i burattinai di oscure Logge, che hanno animato il triste palcoscenico italiano, è un peccato collettivo imperdonabile. Il male non è stato estirpato alle radici: da quel buco nero senza fondo miasmi nocivi appestano l’aria. Da 30 anni. Almeno.
La notte della Repubblica iniziò a calare il 27 giugno 1980, sopra Ustica e con quel Dc9 precipitò nel mare anche la possibilità di conoscere, di sapere. Assieme agli 81 morti. Ed era solo l’anteprima di quel fiume di porpora che sarebbe stato generato alle 10,25 del 2 agosto alla stazione di Bologna. Una strage fascista.
Intere generazioni di giovani, per buona parte, sono state private di queste pagine di storia contemporanea, attraversata da generali felloni, da politici conniventi, da un Grande Vecchio, dal piduismo che non è una categoria mentale, ma una realtà che sta riproducendo già adesso il Piano di Rinascita Nazionale, dapprima teorizzato e poi attuato in maniera resistibile dal tesserato P2, n° 1816 e dai suoi scherani. Fulgido esempio di allievo che ha superato il maestro.
Anche per questo motivo ho recuperato dalla cartellina riservata ad Ustica la prima pagina originale de “la Repubblica”, quale esercizio di memoria e, allo stesso modo, ho scelto di raccontare attraverso il reportage di un settimanale, “Europeo”, ricomparso nelle edicole qualche anno fa mutato anche nella periodicità, una tra le storie più inquietanti legate a filo doppio e rosso sangue con la strage di Ustica: quella di dieci morti misteriose di militari e radaristi, di persone cioè che furono testimoni oculari di una verità spaventosa, sepolta assieme a loro. Attorno un muro di gomma.


Le dieci morti misteriose del dopo Ustica
Testimoni colpiti da infarto pochi giorni prima di essere interrogati dai magistrati. Militari vittime di incidenti stradali subito dopo aver detto di temere per la propria vita. Radaristi spaventati al punto di giungere al suicidio. Nella vicenda del Dc 9 dell’Itavia scomparso in mare dodici anni fa c’è un elenco impressionante di decessi sospetti
 
di DANIELE PROTTI e SANDRO PROVVISIONATO
 
Un elenco di dieci morti misteriose. La sensazione che scorrendo quei nomi si stia toccando con mano un macabro filo rosso sangue. Il sospetto che quelle morti siano tutte legate alla tragedia di Ustica e vadano quindi ad aggiungersi alle 81 persone uccise a bordo del Dc9 dell’Itavia il 27 giugno di 12 anni fa. L’angoscia che dei misteri di Ustica si possa anche morire: perché chi sa non parla e chi potrebbe parlare, deve tacere per sempre. Ma chi uccide i testimoni? Con un meticoloso lavoro di inchiesta Europeo ha ricostruito la storia di quelle dieci morti. Di quei dieci uomini venuti in contatto con i segreti di Ustica. Tutti morti in circostanze drammatiche. Tranne uno, sono tutti militari dell’Aeronautica, sette ufficiali e due sottufficiali. Inoltre la tragica fine di tutti loro si colloca geograficamente nei luoghi dove in questi anni si è dipanato il filo dell’inchiesta su quella maledetta strage.
I misteri di Poggio Ballone. Sono sei le morti che ruotano attorno ai misteri del «radar dimenticato» di Poggio Ballone, il centro dell’Aeronautica militare che sorge su una collina, pochi chilometri a nord di Grosseto. Per otto anni è stato nascosto ai magistrati che proprio quel radar puntato sul Tirreno aveva visto tutto la notte della strage. E quando nel 1988 i giudici Bucarelli e Santacroce, fino al 1990 titolari dell’inchiesta, chiesero l’elenco del personale in servizio la notte della tragedia, si accorsero che due nomi erano stati omessi: quelli del capitano Maurizio Gari e del maresciallo Alberto Mario Dettori. Entrambi erano in servizio la sera del 27 giugno 1980. Gari era il «master controller» nella sala radar di Poggio Ballone, cioè il responsabile della sala stessa. Dettori procedeva invece all’identificazione dei velivoli che solcavano il cielo. Entrambi sono morti: Maurizio Gari il 9 maggio 1981 è stato stroncato da un infarto, nonostante avesse soltanto 32 anni e, a detta dei familiari, godesse di ottima salute. Alberto Mario Dettori viene invece trovato impiccato ad un albero il 30 marzo 1987. La mattina dopo la strage di Ustica alla moglie e alla cognata il maresciallo era apparso molto scosso. «È successo un casino, per poco non scoppia la guerra», aveva confidato alle due donne, «siamo ancora in emergenza». Prima di morire Dettori era stato sei mesi in Francia, alla base di Montangel, per un corso di aggiornamento. Da lì era tornato nervoso e spaventato. Cosa avevano visto di tanto inconfessabile la notte di Ustica Gari e Dettori? Perché i loro nomi erano stati cancellati dall’elenco dei militari in servizio?

Ma prima ancora un altro importante testimone era scomparso: l’8 agosto 1980, a neppure due mesi dalla strage, l’auto sulla quale, assieme alla moglie e ai due figli, viaggiava il colonnello Giorgio Teoldi si schianta lungo la via Aurelia. Teoldi era il comandante dell’aeroporto militare di Grosseto, competente sul sito radar di Poggio Ballone. Il colonnello porta nella tomba un altro mistero i cui contorni sono venuti alla luce solo di recente: la sera della strage di Ustica, proprio mentre il Dc9 è in volo, tre aerei da guerra, due TF 104 biposto e un F 104 monoposto, erano decollati proprio dall’aeroporto di Grosseto. Teoldi, in quanto responsabile delle piste di Grosseto, non poteva ignorare lo scopo delle loro missioni. Ma c’è di più. Proprio su uno dei TF 104 erano in volo i capitani Ivo Nutarelli e Mario Naldini, anch’essi morti, assieme all’altro capitano Giorgio Alessio, tutti e tre della pattuglia acrobatica delle Frecce Tricolori, il 28 agosto 1988 nella tragedia di Ramstein, in Germania, che provocò un’altra strage: 51 morti, oltre 400 feriti. La possibilità che esista un legame tra Ustica e Ramstein è incredibile anche se i Verdi tedeschi e alcune inchieste giornalistiche del quotidiano berlinese Tageszeitung e del settimanale Der Spiegel hanno recentemente parlato di sabotaggio degli aerei. Prove? Nessuna.
Ufficialmente la causa di questa tragedia è stata attribuita ad un errore di manovra del solista Ivo Nutarelli, un pilota per altro espertissimo, con 4.200 ore di volo, che avrebbe commesso un tragico sbaglio nell’esecuzione del cardioide, proprio quella che viene ritenuta una delle acrobazie più semplici. La coincidenza allarmante è che Nutarelli e Naldini sono morti una settimana prima della data fissata dai giudici che volevano interrogarli sulla loro missione la sera di Ustica. L’interrogativo è: i due ufficiali dell’Aeronautica videro o intuirono qualcosa che aveva a che fare col Dc9 dell’Itavia?
Sempre nella zona di Grosseto, nel 1984, ecco un altro misterioso incidente stradale. La vittima è Giovanni Finetti, sindaco di Grosseto. Poco dopo la strage di Ustica, Finetti raccolse le confidenze di alcuni militari della Vam (Vigilanza aeronautica militare) secondo le quali due caccia si erano levati in volo dalla base di Grosseto per inseguire ed abbattere un mig libico. Nella battaglia aerea sarebbe rimasto colpito il Dc9. Sulla base di queste voci, Finetti avrebbe preso ad interessarsi della strage di Ustica e sarebbe morto pochi giorni dopo aver detto in giro che era sua intenzione rivolgersi alla magistratura.
Un attentato anomalo.
Il 20 marzo 1987 muore a Roma, in un attentato terroristico, il generale dell’Aeronautica Licio Giorgieri. Due killer in moto lo freddano a bordo della sua auto. Giorgieri era il responsabile degli armamenti dell’aviazione e stava lavorando al progetto europeo delle «guerre stellari». Almeno è questo il motivo per cui le Unità combattenti comuniste (Ucc), nate da una scissione delle Brigate rosse, con un volantino rivendicano l’omicidio. Il delitto Giorgieri appare subito un delitto terrorista anomalo. Viene giudicato dagli esperti come il colpo di coda dell’eversione rossa. Siamo infatti in un periodo in cui i terroristi nostrani hanno ormai da tempo deposto le armi. Anche la moglie del generale fin da subito dichiara di non credere alla matrice dell’omicidio. La vicenda acquista contorni ancor più sospetti quando si apprende che a far sgominare la banda degli assassini del generale, al quale solo pochi giorni prima era stata negata la scorta, è un giovane terrorista che lavora come archivista al ministero dell’Interno. E fa molto clamore la decisione di un giudice di scarcerare gli assassini di Giorgieri, condannati a pene pesantissime, appena tre anni dopo il delitto.
Pochi sanno che all’epoca della strage di Ustica Giorgieri faceva parte dei vertici del Rai, il Registro aeronautico italiano, la struttura che per prima fu investita della tragedia, quando ancora si pensava che la caduta del Dc9 fosse da attribuire a un cedimento strutturale. E responsabile del Rai all’epoca era il generale Saverio Rana. Fu proprio Rana, pochi giorni dopo l’incidente, che ipotizzò al ministro dei Trasporti Rino Formica la presenza di un caccia accanto al Dc9. Rana, anch’egli morto d’infarto, aveva a disposizione tre fotocopie di tracciati radar. Da chi le aveva avute? Forse proprio da Giorgieri? Dell’omicidio Giorgieri si è occupato in passato anche il giudice Santacroce. Per quale motivo?
I morti della Calabria.Il giallo nel giallo di Ustica è rappresentato da un Mig libico, ufficialmente trovato il 18 luglio nel vallone di Timpa della Magara in provincia di Catanzaro. Sul fatto che quell’aereo da guerra straniero sia precipitato sulla Sila la stessa notte della caduta del Dc9 ormai non ci sono più dubbi. I resti di quel Mig 23, su incarico dei servizi segreti, vennero recuperati in tutta fretta e trasportati all’aeroporto di Pratica di Mare (Roma) dalla ditta fratelli Argento di Gizzeria Marina. E proprio a Gizzeria Marina muore il 14 agosto 1988 il maresciallo dell’Aeronautica Ugo Zammarelli. Stava camminando con un’amica sul lungomare quando entrambi vengono investiti ad altissima velocità da una Honda 600 con in sella due giovani tossicomani. È una strage. Ma mentre i corpi dei due ragazzi appaiono sfracellati, i cadaveri di Zammarelli e della sua amica sono perfettamente integri. Nessuna autopsia viene fatta. Ma stranamente i bagagli del maresciallo, che ufficialmente si trovava a Gizzeria in vacanza, spariscono dal suo albergo. Si scopre che Zammarelli, in forza alla base Nato di Decimomannu, in Sardegna, non era in Calabria per diletto, ma stava conducendo un’indagine proprio sul Mig libico caduto sulla Sila. Un suo amico, Gaetano Sconzo, giornalista dell‘Ora di Palermo, sul suo giornale riporta alcune confidenze di Zammarelli: stava indagando su Ustica, ma temeva per la sua vita.
Un altro maresciallo dell’Aeronautica, che forse aveva a che fare con la strage di Ustica, è misteriosamente morto di recente. A 39 anni Antonio Muzio è stato freddato con tre colpi di pistola al ventre il 1° febbraio del 1991 nella sua abitazione di Pizzo Calabro. Il fatto singolare è che la pistola era la sua, ma per gli inquirenti è escluso il suicidio. Fino al 1985 Muzio aveva lavorato all’aeroporto di Lamezia Terme, uno scalo direttamente coinvolto nella vicenda del Mig libico, del suo recupero sulla Sila e della sua restituzione a Gheddafi. E dove sono stati custoditi la scatola nera del Mig e i nastri di registrazione dei voli.
L’ultima vittima di Ustica?Il suo cadavere è stato appena sepolto. Sandro Marcucci, 47 anni, ex colonnello pilota della 46ªAerobrigata di stanza a Pisa, è precipitato con il suo Piper antincendio il 2 febbraio scorso. Marcucci era un pilota provetto. Eppure si schianta sulle Alpi Apuane come fosse un pivellino. L’aereo brucia, va in fumo. C’è chi giura di aver visto l’aereo perdere stranamente quota e all’improvviso. Poi, mistero nel mistero, nella sua bara viene trovato un pezzo del motore: è tutto fuso, tranne un tubicino di gomma. Il fuoco ha sciolto il metallo, ma non la gomma. Ma chi l’ha nascosto accanto alle sue spoglie?
Il Tirreno, quotidiano di Livorno, si ricorda di un’intervista. Marcucci soltanto cinque giorni prima aveva duramente attaccato il generale dell’Aeronautica Zeno Tascio, comandante dell’aeroporto di Pisa dal 1976 al 1979, responsabile dei servizi segreti dell’Aeronautica all’epoca di Ustica, oggi inquisito nell’inchiesta sul Dc 9.
Di Tascio, Marcucci, tra l’altro, aveva detto: «È sempre stato un uomo disponibile a fare dei favori a chi stava più in alto». Anche il colonnello Marcucci sapeva qualcosa di Ustica?
Daniele Protti  e Sandro Provvisionato
Ha collaborato Antonio Delfino

EUROPEO 9 /28 FEBBRAIO 1992