domenica 24 gennaio 2010

Caleidoscopio campano






Quando arrivo a Napoli il 31 dicembre, a metà pomeriggio, la guerra è già iniziata. Lo scoppio dei mortaretti si unisce al quotidiano strombazzare di clacson, all’incessante traffico di auto, scooter, autobus e suv (neanche fossimo nel deserto del Sahara), in uno strepito assordante. Mi avvio verso il centro accompagnato da questa colonna sonora e più mi spingo verso i quartieri popolari e maggiore è il rimbombo dei botti.




I “bancarielli” lungo la strada mettono in mostra, penso volutamente, pochi prodotti, verosimilmente di copertura per lo smercio di materiale illegale. Le persone stazionano lì attorno, non acquistano, ma discutono, forse contrattano. A terra ci sono i segni della battaglia da poco cominciata.


C’è puzza nell’aria e, dalle nove in poi, si susseguono esplosioni di petardi senza soluzione di continuità, con un crescendo rossiniano di boati. Autentiche detonazioni che scuotono le pareti, mentre lunghe volute di fumo grigiastro salgono verso il cielo. Nelle narici si insinua un nauseante puzzo di polvere da sparo.


Napoli è una città che non dormirà questa notte, anche se il frastuono non esorcizzerà i mali che la stanno affossando.




Pensare di andare sulla penisola sorrentina, il mattino dopo, è un’ottima idea, perché il traffico sarà scarso lungo strade intasate per buona parte dell’anno. Il cielo annuncia pioggia, ma il 2010 deve iniziare con il giusto passo.


Il profilo del paesaggio muta più volte, ora dolce tal’altra e spesso, selvaggio. La giornata grigia non lascia neppure intuire il caos che s’impadronisce di luoghi devastati in maniera impressionante dal passaggio umano. Ma è una fortuna, perché si può ammirare il poderoso impeto del mare che, infrangendosi sugli scogli, crea una schiuma bianca che incorona le rocce. 





Lo sguardo si perde nell’infinito e il contrasto, con la montagna a sinistra che sembra voler quasi soffocare ogni curva e il mare a destra, è di stordente bellezza. Obbligatorio scendere, fermarsi. E ammirare il seducente panorama, mentre si deplora l’irragionevole stupidità umana che adora il dio cemento e lo santifica ovunque, deturpando un patrimonio che dovrebbe essere di tutti.






I toni chiaroscuri della mattinata vengono dissolti dalla fantasia di colori di un fruttivendolo che ha sapientemente disposto il suo raccolto. È ciò che offre la terra campana. Sarà un peccato quando questa policromia verrà offuscata.










Si arriva ad Amalfi immersi nel caos. La costiera si è svegliata, impossibile parcheggiare e mentre comincia a cadere qualche goccia di pioggia si fa marcia indietro. Il duomo sarà per la prossima volta. Una deviazione ad Atrani, il giorno prima che accada una tragedia tristemente annunciata, quando la pioggia diventa insistente e il traffico collassa.


Sulla strada del ritorno l’arcobaleno è una gioia per gli occhi, la deviazione ad Agerola, per fare rifornimento di latticini, si rivelerà successivamente una delizia per il palato.






A incuriosire era stato un episodio raccontato nel bel reportage sui beni culturali, girato dagli ottimi giornalisti di “Presa diretta” (dal 31 gennaio il programma ricomincia su RaiTre). Precisamente l’esistenza di una piscina romana affidata, per le visite, al buon cuore di una donna che ha l’abitazione adiacente. Siamo a Miseno, nell’immediato entroterra partenopeo, punteggiato da una miriade di graziose località quasi tutte mortificate dall’eterno problema del decoro urbano. Ma questa di un sito archeologico, affidato ad un privato, è troppo grossa ed inconcepibile. Eppure tutto corrisponde alla paradossale realtà.




La piscina mirabilis  è un’opera imponente che lascia stupefatti per l’abilità ingegneristica dei Romani. Si può intravedere anche nello spot che celebra la Campania. L’ingresso nella cisterna è un’immersione nella Storia. Magari una volta c’erano i centurioni a presidiarla e vien da sorridere, anche amaramente, pensando alla differenza odierna. Senza nulla togliere alla “guardiana” del secolo ventunesimo.


A Bacoli le bancarelle del mercato di ortofrutta stanno smobilitando. Le clementine a 80 centesimi sono un’occasione golosa, il fruttivendolo chiede se può aggiungere un paio di zucchine (che hanno lo stesso prezzo) altrimenti andrebbero perse e alla risposta, naturalmente affermativa, le moltiplica per sei. Ma si fa pagare solo gli agrumi, succosi e profumati. Sono i calori e i colori di Napoli.






 



 

mercoledì 13 gennaio 2010

Quando eravamo noi i maledetti






Enzo Barnabà


Morte agli Italiani!

Il massacro di Aigues-Mortes
- 1893

Prefazione di Gian Antonio Stella

Introduzione di Alessandro Natta




© Copyright Infinito edizioni, 2008

Prima edizione: ottobre 2008

Infinito edizioni S.r.l.

Castel Gandolfo (Roma)

Posta elettronica: info@infinitoedizioni.it

Sito Internet: http://www.infinitoedizioni.it

ISBN 9788889602423




 




Prefazione

di Gian Antonio Stella¹



Acque-Morte ci addita l’orrenda

Ecatombe di vittime multe!

No, jamais, sì ferale tregenda

In Italia obliata sarà

tuona indignata la poesia Il grido d’Italia per le stragi di Aigues-Mortes, scritta di getto da Alessandro Pagliari, nel 1893, a ridosso del massacro.

Invece è successo. L’Italia ha dimenticato quella feroce caccia all’italiano nelle saline della Camargue, alle foci del Rodano, che vide la morte di un numero ancora imprecisato di emigrati piemontesi, lombardi, liguri, toscani. Basti dire che, stando all’archivio del Corriere della Sera, le (rapide) citazioni della carneficina dal 1988 a oggi sui nostri principali quotidiani e settimanali sono state Otto. Per non dire degli articoli dedicati espressamente al tema:

due. Due articoli in venti anni. Contro i 57 riferimenti ad Adua, i 139 a EI Alamein, i 172 a Cefalonia...

Eppure, Dio sa quanto ci sarebbe bisogno, in Italia, di recuperare la memoria. Che cosa fu, Maurice Terras, il primo cittadino del paese, se non un «sindaco-sceriffo» che cercò non di calmare gli animi ma di cavalcare le proteste xenofobe dei manovali francesi contro gli «intrusi» italiani? Rileggiamo il suo primo comunicato, affisso sui muri dopo avere ottenuto che i padroni delle saline, sotto il crescente rumoreggiare della folla, licenziassero gli immigrati: «Il sindaco della città di Aigues-Mortes ha l’onore di portare a conoscenza dei suoi amministrati che la Compagnia ha privato di lavoro le persone di nazionalità italiana e che da domani i vari cantieri saranno aperti agli operai che si presenteranno. Il sindaco invita la popolazione alla calma e al mantenimento dell’ordine. Ogni disordine deve infatti cessare, dopo la decisione della Compagnia».

Per non dire del secondo manifesto che, affisso dopo la strage, toglie il fiato: «Gli operai francesi hanno avuto piena soddisfazione. Il sindaco della città di Aigues-Mortes invita tutta la popolazione a ritrovare la calma e a riprendere il lavoro, tralasciati per un momento. Cessiamo ogni manifestazione di strada per mostrarci degni della nostra patria; è col nostro atteggiamento calmo che faremo vedere quanto rimpiangiamo le deplorevoli conseguenze degli incidenti. Raccogliamoci per curare le nostre ferite e, recandoci tranquillamente al lavoro, dimostriamo come il nostro scopo sia stato raggiunto e le nostre rivendicazioni accolte. Viva la Francia! Viva Aigues-Mortes!».

E vero, grazie al cielo da noi non sono mai divampati pogrom razzisti contro gli immigrati neppure lontanamente paragonabili a quelle scatenati contro i nostri nonni. Non solo ad Aigues-Mortes ma a Palestro, un paese fondato tra Algeri e Costantina da una cinquantina di famiglie trentine e spazzato via nel 1871 da una sanguinosa rivolta dei Cabili. A Kalgoorlie, nel deserto a 600 chilometri da Perth, dove gli australiani decisero di “festeggiare” l’Australian Day del 1934 scatenando tre giorni di incendi, devastazioni, assalti contro i nostri emigrati. A Tandil, in Argentina, dove nel 1872 i gauchos furono protagonisti di una sanguinosa mattinata di sangue agli ordini di un santone che si faceva chiamare Tata Dios e il nostro ambasciatore Francesco Saverio Fava suggeriva (inascoltato) a Roma di tenere un conto mensile degli italiani uccisi per razzismo. Ma soprattutto negli Stati Uniti dove, dal massacro di New Orleans a quello di Tallulah, siamo stati i più linciati dopo i negri. Al punto che un giornale democratico, ironizzando amaro sui ridicoli risarcimenti concessi ai parenti dei morti, arrivò a pubblicare una vignetta in cui il segretario di Stato americano porgeva una borsa all’ambasciatore d’ Italia e commentava: «Costano tanto poco questi italiani che vale la pena di linciarli tutti».

E vero, da noi non sono mai state registrate esplosioni di violenza xenofoba così. E fuori discussione, però, che i germi dell’aggressività verbale che infettarono le teste e i cuori di quei francesi impazziti di odio nelle ore dell’eccidio somigliano maledettamente ai germi di aggressività verbale emersi in questi anni nel nostro Paese. Anzi, sembrano perfino più sobri.

Maurice Barrès scriveva nell’articolo Contre les étrangers su Le Figaro, che «il decremento della natalità e il processo di esaurimento della nostra energia (...) hanno portato all’invasione del nostro territorio da parte di elementi stranieri che s’adoprano per sottometterci». Umberto Bossi è andato più in là, barrendo al congresso della Lega di qualche anno fa: «Nei prossimi dieci anni vogliono portare in Padania tredici o quindici milioni di immigrati, per tenere nella colonia romano-congolese questa maledetta razza padana, razza pura, razza eletta».

Le Zl’Iémorial d’Aix scriveva che gli italiani «presto ci tratteranno come un Paese conquistato» e «fanno concorrenza alla manodopera francese e si accaparrano i nostri soldi». Il sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini ha tuonato che «gli immigrati annacquano la nostra civiltà e rovinano la razza Piave» e occorre «liberare l’Italia da queste orde selvagge che entrano da tutte le parti senza freni» per «rifare l’Italia, l’Italia sana, in modo che non ci sia più inquinamento».

Il quotidiano LeJour sosteneva che il governo di Parigi doveva proteggere i francesi «da questa merce nociva, e peraltro adulterata, che si chiama operaio italiano». Il berlusconiano Michele Bucci ha urlato che «i musulmani mettono a rischio la nostra purezza». E la Padania è arrivata al punto di pubblicare con grande risalto lo sfogo di un razzista (subito appoggiato dalla pasionaria leghista Rosy Mauro) che invocava: «Quando ci libererete dai negri, dalle puttane, dai criminali, dai ladri extracomunitari, dagli stupratori color nocciola e dagli zingari che infestano le nostre case, le nostre spiagge, le nostre vite, le nostre menti? Ne abbiamo le palle piene. A dir poco. Sbatteteli fuori questi maledetti».

Per non dire, appunto, del problema della criminalità. Quella dei nostri emigranti accecava i francesi che sul Memorial d’Aix denunciavano come «la presenza degli stranieri in Francia costituisce un pericolo permanente, spesso questi operai sono delle spie; generalmente sono di dubbia moralità, il tasso di criminalità è elevato: del 20%, mentre nei nostri non è che del 5». Quella degli immigrati in Italia, per quanto sia reale, fonte di legittime preoccupazioni e giusta motivazione al varo di leggi più severe, acceca certi italiani. Fino a spingere il futuro capogruppo al Senato del Popolo delle Libertà, Maurizio Gasparri, a sbraitare dopo il massacro di Erba parole allucinate contro il marito immigrato di una delle donne uccise: «Chi ha votato l’indulto ha contribuito a questo eccidio. Complimenti. Ha fruito di quel provvedimento anche il tunisino che ha massacrato il figlio di due anni, la moglie, la suocera e la vicina a Erba».

L’europarlamentare Mario Borghezio riuscì allora a essere perfino più volgare: «La spaventosa mattanza cui ha dato luogo a Erba un delinquente spacciatore marocchino ci prospetta quello che sarà, molte altre volte, uno scenario a cui dobbiamo abituarci. Al di là dell’”effetto indulto”, che qui come in altri casi dà la libertà a chi certo non la merita, vi è e resta in tutta la sua spaventosa pericolosità una situazione determinata da modi di agire e di reagire spazialmente lontani dalla nostra cultura e dalla nostra civiltà». Chi fossero gli assassini si è poi scoperto: Rosa Bassi e Olindo Romano, i vicini di casa xenofobi e razzisti. Del tutto inseriti, apparentemente, nella «nostra cultura e nella nostra civiltà».

Insistiamo: nessun paragone. Ma gelano il sangue certe parole usate in questi anni. Come un volantino nella bacheca di un’azienda di Pieve di Soligo: «Si comunica l’apertura della caccia per la seguente selvaggina migratoria: rumeni, albanesi, kosovari, zingari, talebani, afgani ed extracomunitari in genere. È consentito l’uso di fucili, carabine e pistole di grosso calibro. Si consiglia l’abbattimento di capi giovani per estinguere più rapidamente le razze». O la sfuriata del consigliere comunale trevisano Pierantonio Fanton: «Gli immigrati sono animali da tenere in un ghetto chiuso con la sbarra e lasciare che si ammazzino tra loro». O ancora la battuta del senatore leghista Piergiorgio Stiffoni a proposito della sistemazione degli extracomunitari a Treviso: «Gli immigrati? Peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto».

Per irridere amaramente a certi toni tesi a cavalcare l’odio e la paura, l’attore Antonio Albanese ha creato insieme con Michele Serra un personaggio ironicamente spaventoso: «Io sono il ministro della paura e come ben sapete senza la paura non si vive. (...) Una società senza paura è come una casa senza fondamenta. Per questo io starò sempre qua, nel mio ufficio bianco, alla mia scrivania bianca, di fronte al mio poster bianco. Con tre pulsanti, i miei attrezzi da lavoro: pulsante giallo, pulsante arancione, pulsante rosso. Rispettivamente poca paura, abbastanza paura, paurissima. E seguendo correntemente questo stato d’animo io aiuto il mondo a mantenere ordine». C’è da ridere, e si ride. Ma anche da spaventarsi. E ci si spaventa.

Ecco, in un contesto come questo, in cui perfino un presidente del consiglio come Silvio Berlusconi arriva a sbuffare a Porta a Porta sulla xenofobia imputata alla sua coalizione dicendo di non capire «perché questa parola dovrebbe avere un significato così negativo», il libro di Enzo Barnabà sul massacro dei nostri emigranti ad Aigues-Mortes è una boccata di ossigeno. Perché solo ricordando che siamo stati un popolo di emigranti vittime di odio razzista, come ha fatto il vescovo di Padova Antonio Mattiazzo denunciando «segni di paura e di insicurezza che talvolta rasentano il razzismo e la xenofobia, spesso cavalcati da correnti ideologiche e falsati da un’informazione che deforma la realtà», si può evitare che oggi, domani o dopodomani si ripetano altre cacce all’uomo. Mai più Aigues-Mortes. Mai più.

Gian Antonio Stella


¹ Editorialista e inviato di politica, economia e costume del Corriere della Sera. Vincitore di molti premi giornalistici, tra i suoi libri più noti figurano Schei (Mondadori, 1996), Dio Po. Gli uomini che fecero la Padania (Baldini & Castoldi, 1996), Lo spreco (Mondadori, 1998), Chic (Mondadori, 2000), L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi (Rizzoli, 2002), Tribù (Feltrinelli,2005), La casta (Rizzoli, 2007), La deriva (Rizzoli, 2008).




 





lunedì 11 gennaio 2010

La puzza del razzismo











C’è qualcosa di vecchio oggi nell’aria, miasmi velenosi la stanno ammorbando fino a renderla irrespirabile. C’è puzza di razzismo. Ed è nauseante.


Non avrei mai pensato di vedere qui in Italia, terra di migranti, nel 2010 anno di grazia (o del signore? Ma quale?) le atroci scene di caccia al nero da parte dei bianchi, la violenza dispensata a piene mani attraverso la forza eloquente delle immagini.


Ho dovuto comprimere la commozione ribollente ascoltando le frasi smozzicate di uomini, prima ridotti in schiavitù e poi colpevoli. E se ci sono riuscito è perché ha prevalso in me la rabbia verso l’indegnità di uno Stato colpevole e latitante, connivente con la mafia calabrese che si chiama 'ndrangheta e capace solo di lamentare il troppo buonismo. Verso chi? Certo verso i criminali che, attraverso la forma miserevole del caporalato, sfruttano questa umanità che da ben altri inferni deve essere fuggita per vedere il paradiso nei manufatti industriali abbandonati, abitare in baracche fatiscenti, prive di qualunque servizio igienico, al freddo e al gelo (ci fu un precedente duemila anni fa), accettando di dormire sulla nuda terra dopo giornate disumane trascorse a lavorare nei campi. Migranti che non sono stati più in grado di contenere le loro giuste rivendicazioni, persino ovvie in un Paese normale, ma che in questa Italia guidata da bande di cialtroni, avventuristi, erotomani, avvinazzati e piduisti vengono invece considerate come esorbitanti ed eccessive. “Pretendono di comandare da noi” è uno dei commenti più idioti.


Oggi pomeriggio mi sono sorbito quasi mezz’ora di ragli, in salsa razzista, della somara unica, nell’omonima trasmissione condotta da Lucia Annunziata. E se sono durati meno dei trenta canonici minuti previsti è stato grazie all’intervento di Antonello Mangano interpellato come autore del libro: "Gli africani salveranno Rosarno"  scritto nel febbraio 2009. Con facile preveggenza da parte di chi vive in quelle terre. Ma non delle istituzioni, sempre più identificabili nelle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano.


Cosa sia la ‘ndrangheta e di quale potenza economica disponga (è la più ricca delle mafie italiane), lo ha scritto eloquentemente Roberto Saviano, alcuni giorni fa. Per tale motivo il razzismo mafioso fa ancora più paura, favorito dall’ignavia della casta.


Il post è lungo, lo so bene, però non conosco un differente modo di sfogarmi e smaltire la rabbia per questo declino inesorabile dei principi fondanti del vivere civile, prima ancora che della disapplicazione della Carta Costituzionale (articoli 3 e 10, per esempio).


La domenica giornalistica è tradizionalmente il giorno riservato agli editoriali impegnativi e puntualmente, sia Eugenio Scalfari che Barbara Spinelli, hanno affrontato con la consueta impeccabile lucidità l’argomento Rosarno. L’articolo dell’opinionista de “La Stampa”, in particolare, è splendido e dovrebbe essere letto in tutte le scuole, di ogni ordine e grado del regno. E giusto ieri anche Michele Serra, nella sua rubrica quotidiana, aveva adoperato espressioni eloquenti e pesanti sull’argomento razzismo.


Perché ci siamo dentro fino al collo.


 


Saviano: perché la ' ndrangheta scende in guerra contro i pm





Chi parla di mafia diffama il Paese? Chi parla di mafia difende il Paese. Le organizzazioni criminali contano molto: solo con la coca i clan fatturano sessanta volte quanto fattura la Fiat. Calabria e Campania forniscono i più grandi mediatori mondiali per il traffico di cocaina. Si arriva a calcolare che ' ndrangheta e camorra trattano circa 600 tonnellate di coca l' anno, ed è una stima per difetto. La ' ndrangheta - come dimostrano le inchieste di Nicola Gratteri - compra coca a 2.400 euro al kilo e la rivende a 60 euro al grammo , guadagnando 60.000 euro. Quindi con meno di 2.400 euro di investimento iniziale, percepisce un’entrata pulita di 57.600 euro. Basta moltiplicare questa cifra per le tonnellate di coca acquistate e distribuite da tutte le mafie italiane e diventa facile capire la quantità di denaro di cui dispongono, al netto di cemento ed estorsioni. E raffrontarla con il peso industriale delle imprese leader - che hanno molti meno profitti - per comprendere il potere che oggi hanno realmente nel paese e in Europa le organizzazioni criminali. Proprio dinanzi a fatti come l'attentato di Reggio Calabria diventa imperativa la necessità di capire. È la conoscenza che permette di capire cosa stia accadendo. E non raccontare questa azione come un episodio avvenuto in un altro mondo, in un altro paese. Un paese di quelli lontani dove una bomba o un morto rientrano nel quotidiano. Le organizzazioni criminali italiane quando agiscono e quando decidono di mandare un segnale, sanno perfettamente cosa fanno e dove vogliono arrivare. La bomba non è stata messa davanti a una caserma, né alla sede della Direzione Antimafia, ma alla Procura generale. Il messaggio, dunque, è rivolto alla Procura Generale. E forse - ma qui si è ancora nel territorio delle ipotesi - a Salvatore Di Landro, da poco più di un mese divenuto Procuratore generale. Da quando si è insediato, il clima non è più quello che le 'ndrine reggine conoscevano. Le cose stanno cambiando e le 'ndrine non apprezzano questo cambiamento. Preferirebbero magari che le difficoltà burocratiche e certe gestioni non proprio coraggiose del passato possano continuare. Le mafie sanno che la giustizia italiana è complicata e spesso così lenta che è come se un bambino rompesse un vaso a sei anni e la madre gli desse uno schiaffo quando ne ha compiuti trenta. Se volessero, le cosche potrebbero far saltare in aria tutta Reggio Calabria. La 'ndrangheta possiede esplosivo c3 e c4. Decine di bazooka. Perché, allora, far esplodere una bomba artigianale davanti alla Procura, quasi fosse una lettera da imbucare? Evidentemente non volevano colpire duramente, ma lanciare un primo segnale, dare inizio a un "confronto militare". Anche l'operatività potrebbe essere stata di una sola famiglia, con una sorta di silenzio-assenso delle altre che in questo modo hanno reso il gesto collettivo. Ora bisogna accendere una luce su ogni angolo della Procura generale, stare al fianco di chi sta attuando questo cambiamento. Capire se le 'ndrine vogliono che una corrente prevalga sull'altra. Capire, parlarne, dare visibilità alla Calabria, alle dinamiche che legano imprenditoria, criminalità, massoneria, politica in un intreccio che fattura miliardi di euro di cui nessuno viene investito in Calabria e tutti fuori. Da Montreal a Sidney. E alla solita idiozia che verrà ripetuta a chi scrive di questi temi, ossia di essere "professionisti dell'antimafia", occorre rispondere che il vero problema è che esistono troppi "dilettanti" dell'antimafia. Le mafie stanno alzando il tiro. O almeno, si sente in diversi territori una forte tensione. Dovuta a diversi motivi, non ultima la chiusura di importanti processi, come il terzo grado del processo Spartacus di cui fra pochi giorni verrà pronunciata la sentenza. I Casalesi potrebbero agire militarmente dopo una condanna definitiva. Avevano nei loro referenti politici una sorta di garanzia che si sarebbero occupati dei loro processi. In caso di ergastoli, gli inquirenti temono risposte e l' attenzione mediatica dovrebbe essere massima, ma non lo è. A Reggio Calabria l'arresto di Pasquale Condello, nel giugno dell' anno scorso, fatto dai Carabinieri comandati da una leggenda del contrasto alle ' ndrine, il colonnello Valerio Giardina, ha rotto gli equilibri di pace. Pasquale Condello detto "il supremo" era riuscito a mettere pace tra le ' ndrine di Reggio dopo una faida tra 1985 e il 1991 tra i De Stefano-Tegano e Condello-Imerti che aveva portato ad una mattanza di più di mille persone. Condello faceva affari ovunque: senza un suo si o un suo no nulla sarebbe potuto accadere a Reggio. Quindi è anche alla sua famiglia che bisogna guardare per capire da dove è partito l' ordine della bomba. La sua capacità di aprire verticalmente e orizzontalmente i propri affari era la garanzia di pace. All'inizio di ottobre, la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione di Benedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposi Caterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia di Pasquale; il secondo, il figlio di Alfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. «Increscioso e deplorevole» ha definito l'episodio il settimanale diocesano l' Avvenire di Calabria. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all' ufficio matrimoni della Curia. Non è il telegramma a destare scandalo quanto piuttosto il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima 'ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo. Il clan Condello da oltre 25 anni ha comandato a Reggio. I matrimoni dovrebbero essere molto controllati e i preti dovrebbero davvero interessarsi alla motivazione delle unioni. Nel 2003 fu sequestrata una lettera a Cesena a casa di Alfredo Ionetti, lettera scritta dalla moglie del Supremo, Maria Morabito. In questa lettera spedita a un' amica si parlava dell' altra figlia femmina, Angela: «Cara Anna (...) mia figlia ha dovuto lasciare un bel ragazzo solamente perché, nel passato, alcuni suoi parenti erano nemici di mio marito (...) Non c' è stato niente da fare, hanno dovuto smettere (...) Avevo sperato in un futuro migliore per mia figlia, che sarebbero stati bene insieme. (...) Ma dobbiamo portare la nostra croce...». Le famiglie di Reggio vivono di questi vincoli, e spesso le prime vittime sono i familiari. In questo contesto, rompere il ruolo del sacramento religioso come patto di sangue tra mafiosi è qualcosa che solo i sacerdoti coraggiosi - e per fortuna ce ne sono - possono fare. È importante che le istituzioni diano una risposta forte dopo la vicenda dell' attentato in Calabria. Quindi è bene che Maroni visiti Reggio, ma dovrebbe farlo anche il Ministro della Giustizia. Ai messaggi mafiosi bisogna rispondere subito, duramente, e soprattutto comprendendoli e non lasciandoli passare come un generico assalto alle istituzioni. Le mafie sanno che la più grande tragedia e la più grande festa non durano per più di cinque giorni. Quindi l'attenzione si abbassa, il giunco si cala e passa la china. Oggi la situazione storica sembra pericolosamente somigliare a quella già passata in Sicilia. Non è questo un governo con la priorità antimafia, non è questa un' opposizione con una priorità antimafia. Nonostante gli sforzi degli arresti. Ad esempio: la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diviene talmente difficile poterle fare e ancora più poterle far proseguire per un tempo adeguato per ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, rallentata. Si rischia di privare gli inquirenti dell' unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno per continuare a fare i propri interessi. Se i magistrati si trovano davanti a grossissime limitazioni nell'uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppetto contro chi possiede nel proprio armamentario ogni sofisticato dispositivo tecnologico. L'altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così - fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici - va a finire che spesso un boss può cavarsela con cinque anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul processo breve cambia, ma solo in peggio. Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena deve essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento. Non si tratta di giustizialismo, ma semplicemente dell' esigenza che una condanna equa scaturisca da un processo fatto come si deve. Questo governo agisce soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti, che divengono l' unica prova dell' efficacia della lotta alla mafia. Ma l' esecutivo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica. Sì certo, i sequestri di beni ci sono, ma i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo reimmettere all' asta i beni dei mafiosi. Li acquisterebbero di nuovo. Lo scudo fiscale per le mafie è un favore. E questa è la valutazione di moltissimi investigatori antimafia. Bisogna fare invece altro. Intervenire sul piano legislativo altrove. Cominciare col mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata. Ma bisogna anche smettere una volta per tutte di definire "diffamatori" coloro che accendono una luce sui fenomeni di mafia. Anche perché non è purtroppo con l' episodio di Reggio che si chiude una vicenda. Questo è soltanto l' inizio.


ROBERTO SAVIANO


(5 gennaio 2010)  


 


 


L' AMACA


Se fossi Mario Balotelli me ne andrei a giocare in Inghilterra. Lo dico a malincuore, e a scapito di quel micidiale ricatto emotivo che è il tifo (sono interista, e Balotelli sarà presto uno dei migliori attaccanti di tutti i tempi). No, questo paese non è pronto per i "negri italiani". Non è pronto a trattare i braccianti immigrati da lavoratori e non da schiavi, non è pronto a chiamare razzisti i razzisti, non è pronto a restituire il calcio ai cittadini civili e inermi levandolo dalla morsa bellica (e mafiosa) degli ultras. Che non sia pronto, il nostro Paese, lo si capisce dagli alibi dietro i quali si nasconde. Nessun paese, nessuna comunità è esente da vizi, traumi, impedimenti civili. Ma una comunità adulta conosce le proprie malattie, le chiama con il loro nome. Negli Usa la questione razziale è annosa e grave, ma si chiama "questione razziale". Nei paesi europei l' immigrazione ha prodotto la nascita di molti partiti xenofobi, ma li chiamano "partiti xenofobi". Da noi l'ipocrisia e più ancora la vocazione autoassolutoria che è tipica dei bambini, impedisce di guardarsi allo specchio. In molti, calciatori, dirigenti, politici, opinionisti, dicono che Balotelli viene contestato perché è antipatico, non perché è nero. Forse il razzismo è una faccenda troppo seria perché gli italiani se ne sentano all'altezza.


MICHELE SERRA


(9 gennaio 2010)  


 


L'EDITORIALE


L'inferno di Rosarno e i suoi responsabili


di EUGENIO SCALFARI


 


A ROSARNO ha infuriato per due giorni e due notti prima una sommossa e poi una caccia al "negro" con ronde armate che sparano a pallettoni per ferire e ammazzare. Nel terzo giorno, cioè ieri, gran parte degli immigrati è stata portata via dalla polizia nei centri di concentramento chiamati centri di accoglienza, sulla costa jonica della Calabria, ma la caccia al "negro" continua contro i pochi dispersi che vagano ancora nella piana di Gioia Tauro. Un incidente mortale potrebbe ancora accadere, visto lo stato d´animo dei "cacciatori" che ricorda quello degli aderenti al "Ku Klux Klan" nell´America degli anni Sessanta. Siamo arrivati a questo? Perché ci siamo arrivati?


I calabresi hanno difetti e virtù, come dovunque in Italia e nel mondo. Fra le virtù più radicate c´è quella dell´ospitalità, che ha un che di antico ed è tipica della civiltà contadina. Ma anche l´ospitalità si è logorata col passare del tempo e il mutare delle condizioni sociali. E con l´arrivo della mafia.


Fino ai Sessanta non esisteva mafia in Calabria. Esisteva il brigantaggio nei boschi dell´Aspromonte e delle Serre. Esisteva da secoli, ma non la mafia. Ora, da quarant´anni, la mafia calabrese è diventata la più potente delle organizzazioni criminali che operano nel Sud d´Italia e la gestione degli immigrati è una delle sue attività, specie nella piana di Gioia Tauro, dove le "´ndrine" possiedono anche fertili terreni coltivati ad aranci. Il caporalato è diffuso e utilizza il lavoro dei clandestini.


Attualmente sono valutati a circa ventimila i braccianti destinati alla raccolta delle arance, dei mandarini e dei bergamotti. Ma non è un fenomeno recente, dura da quindici o vent´anni in qua. Riguarda solo i maschi, non ci sono femmine tra loro né famiglie. Sono maschi singoli, senza dimora, alloggiati in ovili diroccati, senz´acqua, senza luce, senza cessi. E vagano per quelle terre in cerca di lavoro giornaliero.


Vagano in Calabria, in Sicilia, in Basilicata, in Puglia. Secondo le stagioni raccolgono agrumi, olive, uva, pomodori. Il lavoro è in mano ai caporali, quasi tutti affiliati alle mafie locali. Dodici ore per venti o venticinque euro sui quali i caporali trattengono un pizzo di cinque e i camionisti che li trasportano sui campi un prezzo di due o tre euro.


«Cercavamo il paradiso abbiamo trovato l´inferno» ha detto ieri uno di loro avvicinato da un cronista. Eppure, se continuano a cercar lavoro in quell´inferno vuol dire che sono fuggiti da inferni ancora peggiori. Sono gli ultimi della Terra. Quelli ai quali Gesù di Nazareth nel discorso della Montagna promise che sarebbero stati i primi nel regno dei cieli. Alla fine dei tempi. Dodici ore di lavoro a 15 euro di paga. I tremila di Rosarno e gli altri come loro non hanno tempo di pregare, stramazzano in un sonno da cavalli o da maiali grufolosi. È questo l´amore, è questa l´ospitalità?

I calabresi di Rosarno non sono certo abitanti di un paradiso. Sono quindicimila di povera gente e vivono in un paese sotto il tacco della mafia. Il Comune fu sciolto per infiltrazioni (si fa per dire) mafiose ed è amministrato da un commissario prefettizio. Ma quando si faranno nuove elezioni vinceranno ancora le "´ndrine" perché in quella piana la mafia è un potere costituito, in attesa che lo Stato lo sconfigga. Speriamo che avvenga presto, ma se mi domandate quando sarò tentato di rispondervi: «alla fine dei tempi», quando verrà il regno dei giusti e il giudizio universale. Prima ci sarà stata l´Apocalisse. Che sembra già cominciata.


Qualche domanda però è di rigore. La rivolgiamo al ministro dell´Interno, a quello del Lavoro, a quello delle Attività produttive, a quello dell´Agricoltura, competenti e quindi politicamente responsabili di quell´inferno. Ma le rivolgiamo anche al Prefetto, al Questore, al Comandante dei carabinieri, al Governatore della Regione. Non sapevate? Non sapevate che la raccolta dei frutti di quelle terre è affidata a ventimila immigrati, in maggior parte clandestini, gestiti da caporali e pagati in nero? Non sapevate come vivevano? Non vi rendevate conto che si stava accumulando un materiale altamente infiammabile e che l´incendio poteva divampare da un momento all´altro? Non avevate l´obbligo di intervenire? Di attrezzare un´accoglienza decente? Di regolarizzare i clandestini e il loro lavoro, oppure di rimpatriarli ma sostituirli visto che gli italiani quel tipo di lavoro non sono disposti a farlo?


Maroni ha messo le mani avanti ed ha dichiarato l´altro ieri che c´è stata troppa tolleranza: bisognava cacciare i clandestini o processarli per il reato di clandestinità. Ma se di tolleranza si tratta, a chi è rivolta l´accusa di Maroni se non a se stesso? Non è lui che predica la sera e la mattina la tolleranza zero? Se ne scorda per le terre a sud del Garigliano? Oppure si rende conto che, clandestini o no, gli immigrati sono indispensabili all´economia italiana? E che la tolleranza zero ci ridurrebbe alla miseria?


Al Nord è diverso: la miriade di piccole imprese della Val Padana e del Nordest hanno bisogno degli immigrati e organizzano un´accoglienza decente, salvo poi dare i voti alla Lega a tutela dell´"integrità urbana", della separazione o dell´integrazione col contagocce. Si può capire: l´immigrazione in Italia è arrivata tardi ma in dieci anni siamo passati da un milione a quattro milioni di immigrati. Il tasso d´aumento è stato dunque molto alto ed ha determinato inevitabili tensioni sociali. La classe politica avrebbe dovuto gestire questo complesso processo; invece ha puntato le sue fortune sulla paura e ne ha ricavato consenso.


Nel Sud non poteva che andare peggio. Lì non c´è purgatorio ma inferno. Lì sono i volontari i soli che tentano di sfamare gli "ultimi" e dar loro una parvenza di riconoscimento. Maroni e Scajola e Zaia e Sacconi preferiscono far finta che non esistano. Aprono gli occhi solo quando scoppia la sommossa e poi la caccia al negro. Ma non hanno altra ricetta che l´espulsione, anche se ieri Maroni ha smentito che di questo si tratterà per i clandestini di Rosarno. Ma chi raccoglierà le arance, i pomodori, le olive? Chi attrezzerà l´accoglienza?


Il partito dell´amore dovrebbe materializzarsi in quelle terre dove regna invece la violenza mafiosa, i bulli di paese che si spassano giocando al tiro a segno con i fucili ad aria compressa e sparando sul negro per vincere la noia.


Noi aspettiamo risposte alle nostre domande, anche se sappiamo per esperienza che questo potere non ha l´abitudine di rispondere. (…)


(10 gennaio 2010)  


 




Se questi sono uomini


BARBARA SPINELLI


Il futuro in cui siamo già immersi comincia nella piana di Gioia Tauro: a Rosarno in provincia di Reggio Calabria (un’autentica guerriglia urbana è ancora in corso), come a Castel Volturno e a Reggio stessa, dove la ’ndrangheta ha voluto intimidire i magistrati con un attentato alla procura generale. Il futuro comincia a Rosarno perché i principali problemi della nostra civiltà si addensano qui: le fughe di intere popolazioni dalla povertà e dalle guerre (guerre spesso scatenate dagli occidentali, generatrici non di ordine ma di caos); le vaste paure che s’insediano come nebbie, intossicando la vita degli immigrati e dei locali; le cruente cacce al diverso; il dilagare di una mafia esperta in controllo mondializzato.


A ciò si aggiunga l’impossibilità di arrestare migrazioni divenute inarrestabili, perché da tempo non si trovano italiani e cittadini di Paesi ricchi disposti a fare, allo stesso salario, i lavori fatti da africani. Si aggiunga l’ipocrisia di chi crede che la risposta consista in un’identità monoculturale da ritrovare.

E la menzogna di chi non sopporta lo sguardo inquieto e assicura: abbiamo già praticamente vinto le mafie, Gomorra appartiene al passato, è «un vecchio film in bianco e nero», come dice Maroni. Non per ultimo, si aggiunga lo Stato che perde il controllo del territorio e il monopolio della violenza: i neri a Rosarno combattono contro ronde private di locali, infiltrate da ’ndrangheta e armate di fucili. Il pensiero della Lega è egemonico e le rivolte vengono associate, dal ministro Maroni, non alle mafie ma all’immigrazione clandestina che si promette di azzerare sanando ogni male. È inganno anche questo. Quando in Francia s’infiammarono le banlieue, nel novembre 2005, Romano Prodi disse che il fenomeno, mondiale, non avrebbe risparmiato l’Italia. Fu deriso e non creduto.

Non era menzogna invece. È vero che l’Italia ha da anni una reputazione cupa, e impaura a tal punto immigrati e fuggitivi da suscitare, nei loro animi, il senso di schifo di cui parla Balotelli. Gran parte dell’Europa ha una cupa reputazione, ma questo non scusa i nostri misfatti e silenzi: il silenzio del sindacato soprattutto, abituato a proteggere pensionati e operai delle grandi industrie (ormai dei privilegiati) e del tutto afasico sull’intreccio mafia, immigrati, sfruttamento. Il massimo della spudoratezza è raggiunto quando i nostri ministri citano Zapatero o Sarkozy, quasi che gli errori altrui nobilitassero i nostri. Quasi che non esistesse, in Italia, quel sovrappiù che è il potere malavitoso. Le rivolte di questi giorni discendono dal fallimento dello Stato e lo rivelano. È la conclusione cui giunge il prezioso libro di Antonello Mangano, scritto sui ventennali disastri di Rosarno e Castel Volturno. Il titolo è: Gli africani salveranno Rosarno - E, probabilmente, anche l’Italia (Terrelibere.org 2009).


Le rivolte odierne hanno infatti una storia alle spalle, occultata dai politici e da molti giornali. Coloro che a Rosarno hanno reagito con ira distruttiva a un’ennesima aggressione contro i lavoratori neri (due feriti a colpi di carabina, giovedì) sono gli stessi che nel dicembre 2008 si ribellarono alla ’ndrangheta. Erano stati feriti quattro immigrati, e gli africani fecero qualcosa che da anni gli italiani non fanno più. Scesero in piazza, chiedendo più Stato, più giustizia, più legalità. Contribuirono alle indagini dei magistrati con coraggio, rompendo l’omertà e rischiando molto.


Denunciarono gli aggressori a volto scoperto, pur non essendo protetti da permessi di soggiorno. È vero dunque: gli africani salveranno Rosarno e forse l’Italia, come scrive anche Roberto Saviano. Poco prima della rivolta a Rosarno si erano ribellati gli africani a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, rispondendo a una sparatoria di camorristi che aveva ammazzato sei immigrati.


Quel che è accaduto dopo è una sciagura prevedibile, e per rendersene conto basta vedere come vivono, gli africani dell’antimafia. Sono eloquenti più di altri i video di Medici senza Frontiere, che parlano di crisi umanitaria nella piana di Gioia Tauro. Il rapporto che Msf ha redatto nel 2008 ha un titolo ominoso: «Una stagione all’inferno», come il poema di Rimbaud. Difficile descrivere altrimenti gli africani che vivono in stabilimenti industriali abbandonati, come la cartiera «La Rognetta» a Rosarno, o l’oleificio dismesso presso Gioia Tauro. Dentro l’oblò del silos per l’olio: giacigli di stracci. Tutt’intorno, fuochi e soprattutto rifiuti, montagne di rifiuti tra cui vagano, tristi ombre, esseri umani che si costruiscono alloggi di cartone o tende senza sanitari. Vedere simili paesaggi ricorda Gaza, gli slum pachistani: non è vita primitiva ma l’osceno connubio tra architetture industriali moderne, indigenza estrema e apartheid. Un africano dice sorridendo a Medici senza Frontiere: «Tra l’una e le quattro di notte inutile provare a dormire. Troppo freddo».


Ci nutriamo volontariamente di menzogne, come il protagonista nel poema di Rimbaud, quando diciamo che quest’oscenità nasce dall’eccessiva tolleranza verso i clandestini. Abbiamo chiamato noi gli africani a raccogliere aranci, consci che nessuno lo farà a quel prezzo e per tante ore (25 euro per un giorno di 16-18 ore; 5 euro vanno a caporali mafiosi e autisti di pullman). E la tolleranza denunciata da Maroni non è verso i clandestini ma verso le condizioni in cui vivono clandestini o regolari.

Dopo aver tollerato tutto questo, e versato nella regione milioni di euro finiti in tasche sbagliate, ogni stupore è fuori luogo. I tumulti odierni non sorprendono: se questi africani non son uomini, come s’intuisce nei video, impossibile che non sboccino, prima o poi, i Frutti dell’Ira di John Steinbeck. Scritto nel ’39 durante la Grande depressione, il libro Furore poteva sperare, almeno, nel New Deal di Roosevelt che noi non abbiamo.


Ne abbiamo tuttavia bisogno, di un New Deal, che metta fine all’apartheid e non si limiti a spostare immigrati come mandrie da un posto all’altro. Perfino i poliziotti, spiega Antonello Mangano, dicono che la risposta non può essere solo punitiva, che gli africani sono una comunità mite, che le migrazioni continueranno. Con l’estendersi delle catastrofi climatiche saranno enormi, gli esodi. Non è vero che la questione della cittadinanza viene per ultima. Le grandi crisi si affrontano con grandi scommesse iniziali, fondatrici di nuove solidarietà. Non è vero neppure che i liberal e la Chiesa sono retrogradi, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere. Pensare in grande l’integrazione è preparare oggi il futuro.


Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato.


Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella ­ curiosa, accogliente, porosa ­ che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei - L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.


L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana. Le scuole non hanno bisogno delle quote del ministro Gelmini (non più di tre alunni su dieci per classe in tutta Italia, come se Gesù avesse imposto quote di accesso alla stalla di Betlemme: non più di tre Magi). Hanno bisogno di insegnare il mondo che muta. Altrimenti sì, è l’inferno di Rimbaud: «L’Inferno antico: quello di cui il Figlio dell’Uomo aperse le porte».


(10 gennaio 2010)









Le prime pagine nell’ordine sono nell'ordine: "il manifesto", "il Fatto" e "l’Unità" del 10 gennaio 2010; "il manifesto", "l’Unità" e "il Fatto" del 9 gennaio 2010.


Qui sotto le miserabili e spregevoli prime pagine di “Libero” e “La Padania” del 9 gennaio 2010.





 






 


 


 


 


 


 


 



domenica 10 gennaio 2010

Rombo di saggezza










Di lui ne avevo già parlato qui, ma a Gigi Riva vanno sempre riservati spazio e attenzione.


Quest’intervista, che risale al 28 dicembre scorso, merita di essere letta per le sue considerazioni finali. Che spiegano, secondo me efficacemente, perchè di Gigi Riva si continui a parlare ancora oggi, accompagnati dal ricordo terribilmente bello dei suoi gol che hanno contrassegnato la mia infanzia prima e adolescenza poi.


 


Parla il recordman di gol in azzurro, ora team manager della nazionale: «Nessuno mi ha ancora battuto, incredibile...»


«Gilardino è l' uomo giusto Il ritorno di Totti? Perché no?»


Riva: «Con Toni in crisi, è il viola la punta per il Mondiale» Alberto protegge palla, ha fisico e gioca per gli altri La mia nuova battaglia? Salvare il Sant' Elia


 


CAGLIARI - Gigi Riva, team manager (oggi) e cannoniere azzurro (ieri), sono passati quasi 36 anni dal suo addio alla nazionale ma nessuno è ancora riuscito a segnare quanto lei: 35 gol. Ha un' idea del perché? «Non so spiegarmelo. Anche se la possibilità che qualcuno possa battere il mio record non mi fa impazzire di gioia (ride, ndr). Certo, gente che in nazionale ha giocato più di me avrebbe già potuto superarmi. Penso a Baggio, Vieri, Toni, Del Piero».


Gli attaccanti moderni sono diversi da quelli dei suoi tempi? «Oggi hanno agevolazioni che noi ci sognavamo, a cominciare dall' espulsione per il cosiddetto fallo da ultimo uomo. Alla mia generazione è capitato che l' ultimo uomo si mettesse una ventina di metri dietro alla difesa e poi, quando arrivava l' attaccante, prendeva lui o il pallone».


Altri vantaggi? «Nel ' 66, dopo il disastro contro la Corea, la nazionale ha cambiato modo di giocare puntando sul contropiede. Così abbiamo vinto un Europeo. Oggi invece anche le squadre provinciali giocano in attacco e le punte hanno più possibilità di segnare».


Oggi quanto guadagnerebbe un fuoriclasse del gol come Riva? «Da ragazzino mi sono sorpreso quando ho scoperto che mi pagavano per giocare a pallone. Io ho guadagnato tanto. Certo, avessi pensato al denaro, mi sarei trasferito tre o quattro volte nella mia carriera. Anche allora giravano cifre spaventose. Un miliardo di lire faceva il suo bell' effetto».


Già che ci siamo, ci racconta la vera storia del suo mancato passaggio dal Cagliari all'Inter e alla Juve? «Nel '67 Moratti padre mi voleva all' Inter ma Herrera preferì Vastola. Diceva che ero troppo giovane: però suggerì di opzionarmi. Così Moratti donò al Cagliari 180 milioni per aiutare la società e per tenermi bloccato tutta la stagione. Moratti padre ha sempre aiutato il Cagliari: c' erano di mezzo le raffinerie e altri interessi».


E dopo? «Nel '68-'69 si sono fatti avanti la Juve e il Milan. Io per due volte ho rifiutato la Juve e non avrei potuto: difatti per punizione il Cagliari mi mandò a casa. Poi però dopo 20 giorni ricevetti una telefonata di Scopigno, il nostro allenatore, e abbiamo sistemato tutto. La mia era una scelta di vita definitiva».


Riva, oggi la nazionale non ha più una prima punta titolare. Concorda? «Vero. Prima c'era Toni e prima di lui Vieri. Spero proprio che Toni ritrovi la condizione e gli stimoli. Gli serve una squadra che gli faccia recuperare il tempo perduto».


Pare che possa essere la Roma. «Ma la Roma ha già Vucinic e Totti. Luca deve trovare una società che gli garantisca il posto, in cui possa anche sbagliare 10 gol senza essere messo in discussione».


Nell' attesa di Toni chi può essere oggi la prima punta più affidabile? «Gilardino. Sa proteggere la palla, è forte fisicamente, colpisce bene di testa ed è altruista. Dà fiato alla squadra».


Proviamo a fare una panoramica sui nostri attaccanti del momento? Da chi cominciamo? «Da Giuseppe Rossi. È uno sveglio, ha un ottimo tiro ed è concreto: cerca subito la porta. Non è una punta vera e propria e secondo me, in determinate partite, potrebbe giocare anche alle spalle di due attaccanti».


Di Natale? «Nelle qualificazioni per gli Europei è stato decisivo. Ha un enorme talento e non mi spiego come mai non sia finito in una grande squadra».


Quagliarella. «È uno dei pochi che ha il tiro da lontano. Con i palloni di oggi, che cambiano traiettoria, può decidere una partita».


Pazzini. «Ha uno stacco alla Toni e poi vede la porta. Sa anche far salire la squadra. Un tipo pratico: ha già segnato 8 gol e non è che la Samp stia andando benissimo».


Iaquinta. «Ha potenza, tiro, elevazione e velocità: solo che non lo sa. Gliel'ho detto tante volte... Potremmo anche parlare di Borriello...».


Sì, giusto, Borriello. «Spero che possa venire al Mondiale. Fisicamente è potente e poi ha un bel tiro. Non si è ancora espresso nel Milan come a Genova perché non è semplice sfondare in un club che ha 4-5 alternative in attacco. Anche a Gilardino è capitata la stessa cosa».


In lista d' attesa c' è pure Amauri. «Lippi lo stima molto, può essere utile. Ma come è finita la storia del passaporto? Avevo iniziato io la pratica, c' era ancora Donadoni. Lui mi fece sapere che se fosse finito alla Juve sarebbe stato felice di giocare in azzurro e che invece avrebbe avuto delle difficoltà se si fosse trasferito in Premier League».


Qualcuno invoca di nuovo Totti. Vede problemi per lui in nazionale? «Se per caso gli azzurri non accettassero il suo ritorno, mi dovrebbero dire perché. Totti non ha fatto torti o sgarbi ad alcuno, né alla squadra né alla Federazione».


Il futuro può essere Balotelli. «Ha talento. La mia impressione, però, è che sia ancora un po' così». Cioè? «Forse non ha capito che, per lo stipendio che gli danno, vogliono che giochi a calcio. A volte sembra invece che faccia lui un piacere. Deve sfruttare meglio le sue potenzialità».


Altri nomi? «È interessante questo Candreva. Elegante, porta bene la palla, ha talento».


Lippi su Cassano. Lei lo capisce? «Lo capisco ed è giusto rispettare le sue convinzioni. Finora ha sempre avuto ragione lui. Lasciamolo sereno».


E Gattuso? «Rino è come un osso importante di uno scheletro. Anche in borghese aiuta l'ambiente e fa rispettare le regole. Io voglio vederlo in campo».


Gigi, lei è nato sulle rive del lago Maggiore e vive da una vita a Cagliari. Si sente un lombardo con cromosomi sardi oppure un sardo con radici lombarde? «Ormai mi sento sardo a tutti gli effetti. Ero predisposto anche di carattere, un po' chiuso. E difatti come sardo sto accusando il colpo per la porcata che vogliono fare con il Sant'Elia».


Sarebbe a dire? «Che lo vogliono distruggere. Un impianto costruito nel '70 con i soldi della Regione e ristrutturato nel '90, sempre con soldi pubblici, dovrebbe sparire perché il presidente del Cagliari vuole il suo stadio privato. Nessuno glielo impedisce, ma che lo costruisca da un'altra parte. Chissà quanti interessi politici girano attorno a questa vicenda: regalano a un club uno stadio da 50 milioni e quello che io penso non viene pubblicato dai giornali locali. C' è una specie di censura nei miei confronti. È una vergogna, vogliono far sparire l'unico vero stadio della Sardegna».


Da ragazzo per chi faceva il tifo? «L'Inter e Coppi».


In quale squadra di oggi Rombo di Tuono si troverebbe meglio? «Oggi si gioca bene nel Chelsea e nel Barcellona».


Nessuno le chiede più di entrare in politica? «Ci provano ancora nonostante abbia detto di no a Berlusconi per le regionali. La politica non è un mondo adatto a me».


Perché insiste con il fumo? Non è un bell' esempio per gli sportivi. «Me ne rendo conto ma non avverto la necessità di smettere, la sigaretta è una compagnia. C'è un solo sistema per chiudere con il fumo: non vendiamo più le sigarette. Se sono nocive perché sono in vendita?».


Che cosa non le piace del calcio di oggi? «Che è diventato un mondo in cui contano solo i soldi e l' apparire. Oggi uno va con le veline per finire sui giornali. Io con le veline ci andavo di nascosto». Mourinho le è simpatico? «Non mi dà fastidio. È un uomo che difende la sua squadra. Però non condivido una cosa: è troppo protagonista. I protagonisti sono i giocatori».


Mou dice che i giovani sono viziati e che pensano solo alla Ferrari. «Per un giocatore di oggi la Ferrari è come la 500 che nel '63 abbiamo comperato in comproprietà io, Cappellaro e Cera. Comunque poi la Ferrari me la sono acquistata anch' io, di seconda mano ma sempre una Ferrari». Gigi Riva alias Rombo di Tuono: chi è lei, oggi? «Uno che ha mantenuto i piedi per terra. Sono stato semplicemente un giocatore di calcio, non un premio Nobel. E ho pure avuto la fortuna di nascere in Italia. Fossi nato in Alaska avrei spalato la neve».


Alberto Costa


(28 dicembre 2009)


 


Scheda.


Chi è. Gigi Riva è nato a Leggiuno (Varese) il 7 novembre 1944.


La carriera. Ala sinistra, ha giocato nel Cagliari dal ' 63 al ' 76 vincendo uno scudetto (' 69-' 70) e segnando 170 gol. Tre volte capocannoniere della serie A.


In nazionale. Con l' Italia è stato campione europeo nel ' 68 e finalista al Mondiale ' 70. In nazionale Riva ha collezionato 42 presenze, segnando 35 gol, record di marcature azzurre.


La classifica. Riva occupa la 74ª posizione nella classifica dei migliori calciatori del 20° secolo pubblicata da World Soccer.


 Il dirigente. Oggi è team manager della nazionale italiana di Lippi.