mercoledì 6 gennaio 2010

Il contagio della stupidità








Ho imparato fin da bambino che, dopo aver riempito le tradizionali calze in veste di Befana, è l’altra faccia, l’Epifania, a portarsi via tutte le feste, auguri compresi. Quelli lasciati nel blog, alla vigilia delle rituali ricorrenze di fine anno, sono rimasti fin troppo in evidenza, è perciò ora di sostituirli con altro. In attesa però di riprendere la normale quotidianità che è composta anche dalla blogosfera, lascerò anche nei successivi post alcuni spunti raccattati qua e là.


Per esempio, le considerazioni di Gian Antonio Stella sull’italica mancanza di regole, risalgono agli ultimi giorni dello scorso anno, ma non per questo sono scadute. Il giornalista è tra quelli che si fanno leggere con più piacere.


Integrerò in seguito i commenti lasciati.











Disastri d'Italia


Il Parco Giochi dei senza Regole


Dalle guerre alle frane. Quel vizio italiano di ignorare le regole


 


Pietà e lacrime, per i turisti uccisi dalla valanga: l'hanno pagata cara, l'imprudenza di sfidare la montagna in Val Lasties nonostante tutti gli avvertimenti. Requiescant in pace. Ma ha ragione Guido Bertolaso quando, scosso dal dolore e dalla rabbia per la morte di quattro eroi del soccorso alpino, si sfoga. «Sono stufo - dice - che i nostri soccorritori perdano la vita per colpa degli sprovveduti che non tengono conto degli allarmi e degli appelli delle istituzioni. Basta morire per gli errori di altri». Non ne può più, il sottosegretario, di precipitarsi a tappare i buchi di un Paese che di certe cose si accorge sempre «dopo». L'aveva già scritto pochi giorni fa sul sito della Protezione civile: «Troppe volte abbiamo fatto affidamento più sulla buona sorte che sulla nostra capacità di gestire la realtà e il suo divenire». L'ha ripetuto ieri, davanti alla nuova tragedia sulle Dolomiti: «Le vittime potevano essere evitate. C'è gente che non ascolta gli appelli che arrivano dalle istituzioni; i rischi erano stati indicati ma la gente va a fare le escursioni come se nulla fosse». Vale per la montagna, vale per tutto il resto.


Mezza Italia sorrise, qualche anno fa, quando Totò Cuffaro pensò bene di celebrare la rielezione a governatore andando in pellegrinaggio alla Madonna delle Lacrime di Siracusa per affidare la Sicilia alla «Bedda Matri». Come sorrise quando la provincia di Vibo Valentia, spaccata nella scelta fra San Bruno (finito in quota Rutelli) e San Francesco da Paola (quota Loiero) decise di fare l'uno santo protettore e l'altro santo patrono. Ma in realtà sono in tanti a confidare nello «stellone» piuttosto che investire nella corretta amministrazione, nella corretta manutenzione, nella corretta programmazione. Ne abbiamo subite moltissime, di batoste, nella nostra storia, per questa noncuranza del rischio e questo eccesso di confidenza nella benedizione celeste.


Il terrificante schianto del Vapore Sirio sugli scogli di Capo Palos (centinaia di morti) causato dalla «dimenticanza» dell' equipaggio partito senza carte nautiche. Le guerre coloniali sotto il sole furibondo dell'Africa combattute con soldatini asfissiati dalla canottiera di lana con le maniche lunghe, dalla pesante camicia di tela giallognola, dal panciotto di lana, dalla sciarpa da collo arrotolata e dalla giubba di panno grigioverde. Le «Corazzate di burro» con l'acciaio delle navi fatto di cartavelina. La campagna di Russia degli alpini mandati ad affrontare il pauroso inverno sul Don con scarponcelli estivi, pezze da piedi, fasce mollettiere e cappotti di «lanital», il surrogato autarchico che ispirava le canzoni fasciste («lanital, lana d'Italia / forse in questo tuo tepore / era avvolto il nostro cuore / che il tuo filo dipanò») ma non salvava i nostri dalla morte per congelamento. Fino alle catene di frane e smottamenti e terremoti e inondazioni e piene fluviali sempre seguite da lacrime e rimpianti per ciò che avrebbe dovuto essere stato fatto e invece mai era stato fatto per arginare i danni. Sempre a dire: e vabbè, che Dio ce la mandi buona...


Solo la statua di San Gennaro, stando alla leggenda, riuscì a fermare per due volte nell'ultimo secolo la lava prima che coprisse i paesi ai piedi del Vesuvio eppure da decenni si continua a costruire proprio lì migliaia e migliaia di case più o meno abusive al punto che l'ultimo piano di evacuazione prevede in caso di eruzione che la gente sia evacuata in dodici giorni. Certe baracche tirate su dopo il terremoto di Messina sono ancora lì, in piedi, a ricordare l'apocalisse di allora e non c'è inverno che qualche fiumara non si gonfi d'acqua e si rovesci a valle tirandosi dietro qualche casa eppure solo dopo la frana che ha devastato Giampilieri e tanta parte del territorio messinese, col suo carico di lutti e di dolore, il governatore Raffaele Lombardo ammette che «in Sicilia, soprattutto a Messina ci sono territori in cui l'equilibrio idrogeologico è fragilissimo e credo che di queste alterazioni ce ne siano state più che in altre parti. Andare a pensare di riedificare con il 30% in più sarebbe da folli, quindi il ddl va ritirato».


Facilonerie di «terroni»? Mille chilometri più a nord, vicino a Cortina, scoppia una polemica identica per l' ennesima frana a Cancia, sotto l'Antelao, che aveva già ucciso decine e decine di persone scaricando sassi, fango e detriti un sacco di altre volte dal Settecento fino a pochi anni fa. E a ogni occasione si leva un grido: mai più! E puntualmente, passato un po' di tempo, si dimentica tutto. E si ricomincia. Come ad Agrigento dove, mentre divampavano le polemiche sull'ospedale costruito con un cemento così scadente da dover essere evacuato, demolito e rifatto, un'azienda di Favara edificava uno svincolo stradale con lo stesso tipo di cemento sperando di farla franca ancora una volta: chi vuoi che controlli? Per non dire de L'Aquila dove solo la mattina dopo il terremoto è stato frettolosamente cambiato il piano-casa del governo che prevedeva un articolo intitolato «Semplificazioni in materia antisismica». C' è poi da stupirsi se in un Paese così, dove è lo Stato stesso a fare gli scongiuri e ad affidarsi alla fortuna, i cittadini si regolano prendendo sottogamba le regole? Capita al mare, dove le motovedette delle capitanerie di porto sono impegnate ogni estate a recuperare famigliole finite al largo col pedalò e marinai pasticcioni alla deriva con lo yacht in mezzo ai flutti perché «pareva impossibile che il tempo si guastasse come diceva la radio». Capita in montagna dove, come spiegò qualche mese fa Pier Giorgio Baldracco, presidente del Soccorso Alpino e Speleologico, c' è chi affronta vette, pareti e canaloni «come fossero un parco giochi».


Sono troppi i morti, sulle nostre montagne. E sono troppi i soccorritori che queste vittime dell'inesperienza, o peggio ancora della faciloneria, si tirano dietro. In realtà, come ricordò l'anno scorso Reinhold Messner, uno dei più celebri scalatori del mondo, furente con quanti sottovalutano i rischi nella convinzione che con le nuove attrezzature sia tutto facile, «sostenere che la montagna non è pericolosa è da perfetti imbecilli. Della montagna, al contrario, bisogna avere paura perché la montagna è (e sarà sempre) pericolosa. Sfidarla senza la dovuta preparazione significa andare incontro a morte sicura». E guai a parlargli di «montagna killer»: «Il vero "killer" è una certa mentalità: quella secondo la quale, grazie alla tecnologia, la montagna è diventata alla portata di tutti».


Gian Antonio Stella


(28 dicembre 2009)


  







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