sabato 29 ottobre 2005

La stupida colonizzazione


 


Due piccoli abeti sono stati piantati nel giardino che circonda il condomino in cui abito. Troppo giovani per essere rivestiti, già quest’anno, dalle luminarie natalizie. Lo saranno in futuro. Segnali iniziali che sempre accompagnano gli ultimi due mesi dell’anno con inquietudini e ansie.


Il tempo di superare quello che viene chiamato per pigrizia e, talvolta, scarso rispetto per i defunti : “ponte di Ognissanti” oppure del “2 novembre” e poi verrà lanciata la consueta e orgiastica volata verso le festività (e le follie) di fine anno. Da tempo i centri commerciali si sono attrezzati, perché si sa occorre muoversi sempre più in anticipo, stravolgendo i ritmi e imponendo modi diversi di agire, anzi consumare. Se poi, accanto a questa tendenza, si mescola la stupidità il quadro è perfetto.


E allora abbiamo la festa di Halloween, l’esempio più clamoroso di come la colonizzazione statunitense abbia ridotto i cervelli all’ammasso, omologandoli, imponendo con vagonate di film e serial una tradizione tipicamente anglosassone che non ha radici nella nostra cultura. Non ci appartiene, insomma e che in nome anche del dio consumo è stata agevolata nell’espansione, senza porre resistenza.


Purtroppo, il messaggio è stato fatto proprio anche dalla scuola, primaria o elementare che sia e il cerchio si è chiuso. La trappola è scattata e ci siamo ritrovati tutti vittime, volenti o meno, di questa ubriacatura collettiva.


E pensare che gli indizi c’erano tutti, l’allarme era stato lanciato per tempo. Ma la sordità è stata totale e disarmante anche per chi, come me, non riesce a capire e non trova una sola, plausibile giustificazione a questo sciocco scimmiottamento, se non la stessa che ha generato le varie feste genitoriali, ultima arrivata anche quella degli antenati, per oltrepassare i confini della famiglia e toccare gli innamorati e poi la donna. In una sola parola: business.


Ho conservato con cura, nel mio archivio, un articolo che venne pubblicato in prima pagina, nello spazio riservato all’editoriale, dal Corriere della Sera di lunedì 2 novembre 1998. Ed era Ernesto Galli della Loggia a porsi interrogativi sull’invasione di streghe e scheletri che cantilenavano “dolcetto o scherzetto” davanti ad ogni portone.


Dunque, già sette anni fa, si coglievano i primi segnali che, peraltro, dovevano essere piuttosto vistosi se scomodavano un intellettuale a scriverne sul principale quotidiano italiano. Senza successo, purtroppo.


 


 


Streghe di Halloween e nostre identità perdute


FESTE, FANTASMI E ZUCCHE VUOTE


di Ernesto Galli della Loggia


 


Perché degli italiani, giovani ma anche meno giovani, decidono a un tratto di mettersi a festeggiare Halloween sì che improvvisamente non solo le città ma anche i borghi più riparati della Penisola (ne sono stato testimone diretto) si riempiono improvvisamente di zucche, di streghe e di folletti? Perché degli italiani, giovani ma anche meno giovani, che probabilmente neppure si ricordano più di che cosa sia
la Befana
e che ancora più probabilmente non hanno mai
saputo cosa siano i fuochi di San Giovanni, decidono invece che fa proprio al caso loro una festa celtica importata dagli irlandesi negli Stati Uniti? Perché tutto ciò che non si presenta con connotati italiani può, in Italia, contare
sempre su un'attenzione immediata e spesso su un successo travolgente?


Sì, sarebbe interessante saperlo, cercare di scoprirlo, considerare i possibili motivi. Ma si può essere certi che non accadrà. Cioè che nessuno si prenderà la briga, non dico di rispondere, ma neppure di ragionare intorno a domande che, del resto, nel momento stesso in cui vengono formulate appaiono sterili e quasi prive di senso per primo a chi le formula. Eppoi, chi mai dovrebbe accollarsi l'onere di raccogliere domande difficili come quelle di cui sopra? Chi dovrebbe sentirsi tirato in ballo?


Certo, in Italia, per esempio, esiste - e anzi è stato appena istituito - un ministero della Cultura, ma proprio nell'istituirlo non ci siamo forse affrettati tutti a precisare che, per carità, il ministro della Cultura al massimo deve occuparsi solo di film, di musei, di biblioteche (bontà sua e se proprio vuole) e del paesaggio, cose d'altronde importantissime? Non abbiamo forse tutti sottolineato che il suddetto ministro deve però guardarsi bene dal pensare che la cultura sia anche qualche cosa di più profondo e di più impalpabile dei musei e delle biblioteche, qualcosa che riguarda, per esempio, l'identità di un popolo, la sua storia, e che anche ciò meriti qualche attenzione e qualche tutela? Non siamo stati, non siamo forse tutti d'accordo che la democrazia italiana non ha bisogno di nessun Giovanni Gentile in sedicesimo?


Esiste certo, poi, anche un ministro della Pubblica istruzione, il quale - si potrebbe credere - forse qualcosa c'entra con ciò che soprattutto i giovani italiani hanno per la mente, con i loro gusti e i loro valori, con i loro atteggiamenti, con il loro eventuale sentirsi più italiani e più americani. Ma sono alcuni decenni, ormai, che lì, nella Fortezza Bastiani di viale Trastevere, si muovono solo fantasmi. Da ultimo il fantasma della scuola politicamente corretta, ottenuta mischiando attentamente un quarto di sperimentazione, un quarto di «Novecento», un quarto di attività extracurricolari e un quarto di «diritti e doveri delle studentesse e degli studenti». Il problema della nazionalità delle une e degli altri non è problema destinato, in questa scuola, a suscitare un qualche visibile interesse.


Come del resto non sembra suscitare l'interesse di nessun altro, per esempio di quelli che si è soliti chiamare gli intellettuali. Sventato così ogni pericolo di condizionamento dall'alto, di richiami a un vieto nazionalismo, di anacronistici pedagogismi autoritari, gli italiani, giovani e meno giovani, possono finalmente essere liberi.


Liberi di abbracciare ogni idiozia di moda, di amplificare parossisticamente ogni rito e ogni mito che si presenti con il colore dell'esotico e che, naturalmente, porti un nome inglese. Liberi di non leggere neppure un libro all'anno, come fanno, di essere sottoposti alla più alta quantità di televisione pro capite e, infine, come è giusto, liberi di rimanere affascinati in un sempre maggior numero (da questo punto di vista il successo di massa di Halloween è davvero simbolico) da streghe, santoni, fatture, culti satanici e altri consimili rappresentanti e cerimonie della dea Ragione. Diciamo la verità, oggi, in Europa, liberi e moderni come noi italiani quanti ce ne sono?



 

martedì 25 ottobre 2005

L'amore che non muore


Si può ricordare una persona che non vedo da alcuni anni in tanti fermo-immagine che la riportano al presente? Si può immaginare come potrebbe essere adesso? E cosa farebbe? E cosa mi direbbe, quali consigli fornirebbe? E poi quelle sue valutazioni molto secche, pragmatiche? Le mie reazioni?


La foto accanto al monitor fissa una giornata particolare e importante. Io mi trovo in piedi accanto a lei, bella come sempre e davanti a noi, a “rovinare” quell’esclusiva, il figlio più piccolo, che andava a piazzarsi sempre dove si fermava la madre. Ci trovavamo all’uscita di una chiesa dove il maggiore aveva ricevuto da poco la prima comunione. Giornata luminosa, metà maggio 2000, ultima di campionato, per i calciofili quella della famosa partita sotto la pioggia di Perugia e dello scudetto alla Lazio.


Dopo la cerimonia si era tutti più rilassati, perché ogni cosa aveva funzionato a dovere e adesso, dopo le varie formalità di rito, tra macchine fotografiche che scattavano e cineprese che provavano a imbastire storie, ci si preparava per il pranzo. Nella solita e piacevole atmosfera caotica che precede e accompagna certe ricorrenze.


Lei aveva una parola per tutti, una carezza, un sorriso sempre e averla distolta un attimo dalle sue mille piccole incombenze la reputavo una fortuna. L’avevo tutta per me. La foto valeva davvero la pena di essere scattata e conservata.


Passano i mesi, il mare le dona come al solito dopo un paio di giorni, un’abbronzatura invidiabilissima che costituisce il suo pregevole biglietto da visitata per la stagione estiva. Il ritratto indubbio di una donna in salute.


La rammento nella sua casa, colta in un momento di banale quotidianità. Oh no, non vi erano momenti banali nella sua vita. I figli, all’epoca di 6 e 10 anni, le assorbivano molto del tempo, ma i risultati si paravano davanti agli occhi di tutti: due bambini meravigliosi, con risultati esaltanti, addirittura, a scuola per il più grande, idolatrato quasi dalle maestre, da una in particolare.


Poi la cucina, da leccarsi i baffi. Primi piatti di assoluto livello, prove di assaggio che si trasformavano in ricette subito pronte. E poi dolci, di ogni genere. Alle feste di fine anno scolastico era sempre la più attesa con le sue crostate, in particolare, di una delizia sopraffina: le fette si scioglievano in bocca. Cosa dire poi delle pizze confezionate per le feste di fine anno e a Pasqua? Ogni volta sempre più buone, ogni volta richiedevano sempre maggiori attenzioni per essere sottratte alle mire delle papille gustative.


Accadeva, così, che a casa sua una torta oppure un rotolo di cioccolato (sì proprio quello ripieno di nutella) non mancassero mai. Così anche quel pomeriggio di fine agosto, quando la sorpresi appoggiata al tavolo, rimediai la mia fetta. “Tieni, ne vuoi un pezzo?” era sempre il suo esordio.


Un trattamento particolare, nella normalità della sua vita, nella sconvolgente normalità, dove il tempo esisteva sempre per gli altri. Lei se lo ritagliava durante certo pomeriggi quando, sedeva sul divano a leggere libri e il figlio più grande la imitava.


Curioso un fatto che si ripeterà almeno cinque o sei volte. Avendo la necessità di frequentare un corso di aggiornamento professionale, doveva pur affidare i figli a qualcuno e così fece a me la proposta che si conciliava perfettamente con i  miei tempi. Perciò uscivo dall’ufficio, mi recavo a casa sua (dove singolarmente ero stato poche volte), la trovavo sulla soglia della porta, mentre all’interno un generoso piatto di pasta mi attendeva. Stava diventando una gradevole abitudine, mentre il rombo della sua Volvo risuonava: quanto correva con l’auto.


Allora rievocavo un contrasto avuto con lei, anni prima, quando mi aveva comunicato che si sarebbe sposata alla fine di giugno. Io, invece che rallegrarmi, trovai solo da obiettare che si disputava anche l’ultima di campionato e che, se il Milan fosse stato in buona posizione, sarei andato allo stadio. Se ne adontò, giustamente, ma io ritenevo di essere nel giusto e di godere della mia liberà di scelta. In realtà ero semplicemente geloso che un altro se la portasse via. Poi ci riconciliammo e fui presente al suo matrimonio.


Ancora non sapevo, mentre consumavo quel gustosissimo piatto di pasta e mi guardavo attorno, apprezzando la sua casa e il senso di benessere che la dominava e si trasmetteva che il male stava per scendere tra noi, quello sempre temuto e vanamente esorcizzato.


L’avvento a dicembre, all’inizio di quel mese, nel 1995.


La rivelazione: una macchia scura. L’analisi, la diagnosi, il ricovero in ospedale e l’operazione al seno. Ma il tumore, perfidamente, era ormai entrato nell’orbita, forse estirpato dal corpo, però diffuso presto nel linguaggio corrente. Non si sarebbe più potuto prescindere da esso.


Le dimissioni, il ritorno a casa, alle soglie del Natale. E poi l’apprensione per la convalescenza, la ripresa, il fisico forte, robusto che riprendeva il sopravvento, ricacciando il male all’inferno. Da lì rispuntò, più bastardo che mai, dopo un paio di anni. E ancora un ricovero, la solita trafila da cui si pensava di essere quasi esentati. La ripresa, questa volta più lenta e difficoltosa, ma poi ancora una volta la sua formidabile tempra ridava slancio alla sua azione e poi nuove sollecitazioni la motivavano: una nuova casa, i figli, soprattutto, verso i quali nutriva un amore infinito, senza però scivolare nel soffocamento.


Un amore che si alimentava di gesti diretti a loro e di esempi trasmessi più con il comportamento che con le parole. Una vita così straordinariamente normale non poteva procedere senza ulteriori intoppi.


Se ad ogni linea di febbre si creava allarme che lei vanificava con un tono di voce sicuro, quella tosse secca e prolungata che si trascinava da almeno un mese, nell’inverno 1999, non poteva essere solo un’influenza mal curata che si trascinava più a lungo del solito. Ci poteva (doveva) essere dell’altro, ma i medici sono spesso spaventosamente superficiali e così quello di famiglia si espresse per la banalità assoluta: male di stagione, stare riguardati e non prendere freddo.


Idiota.


Nel polmone si era formata una neoplasia inoperabile, al punto che iniziò la chemio come contrapposizione. Un trauma per lei che conosceva perfettamente, essendo sempre stata informata, a cosa andava incontro: quei capelli, lunghissimi e belli che si scioglieva sulle spalle solo in poche circostanze durante l’anno e che costituivano il suo giusto orgoglio, li avrebbe dovuti sacrificare.


Iniziò appena possibile la dura terapia, e per un paio delle sei sedute andò tutto bene. Stava riacquistando tono e vivacità, il consueto umore, almeno in apparenza. A maggio, appunto, si trovava nel momento migliore: sembrava che la terapia stesse producendo effetti benefici. E, tuttavia, quella foto volli scattarla lo stesso,  affinché restasse soltanto mia.


Poi, non si sa bene perché, qualcosa s’inceppò, la positiva evoluzione si bloccò e cominciò a non avvertire più gli stessi benefici. Eppure andò ugualmente al mare che amava, si abbronzò in fretta, come sempre, col risultato di apparire inattendibile, come malata, all’oncologo che l’aveva in cura, un altro idiota dei lavori.


E il declino divenne visibile, mascherato da alibi di comodo. Anche il ricovero in ospedale, l’ennesimo, lo si contrabbandò come necessario per curare un allergia farmacologica. Ma intanto stentava nella deambulazione, doveva appoggiarsi ad una spalla amica. Questione di nervi accavallati, spiegavano e forse era anche la versione di comodo che, coloro che le stavano attorno, accreditavano come la più plausibile.


Il primo ottobre la verità non si potette più occultare. Le metastasi stavano invadendo tutto il corpo e si espandevano verso il cervello. L’ultima ratio, la stregoneria, il cialtrone del momento, quel Di Bella icona di tanti presunti miracoli. Lei aveva ceduto alla suggestione, ma forse era troppo tardi.


La ospitai a casa per accompagnarla in un tramonto ormai irreversibile e vissuto senza MAI un lamento. Una dignità da lasciare sbigottiti e ammirati, ma tipica di una grande donna che aveva sempre avuto la fissa degli altri.


Il 18 ottobre, dopo cena, mi ritrovai come di consueto con lei che, al contrario, si preoccupava perché non andavo a seguire la partita trasmessa in tv tra Milan e Barcellona (3-3). Ma il mio posto sapevo e sentivo che era là, accanto a lei.


Fu una serata drammatica e di sofferenza da parte mia. Riuscii a dirle che le volevo bene (tra noi erano sempre state assenti le sdolcinature) e lei rispose: “Anch’io”. Andai a dormire con il cuore gonfio di pena, ma anche sollevato in qualche modo dalla sua risposta.


Il 24 una telefonata al lavoro. Era stata ricoverata in ospedale e, in un corridoio del pronto soccorso la trovai, rannicchiata quasi in posizione fetale (un ritorno alle origini?) su una barella. Gli occhi lucidi, forse per la rabbia di non poter più parlare ormai, una sofferenza enorme per lei.


La accarezzai a lungo, non mi persi un solo attimo. Intuivo che sapeva tutto, forse spaventata per ciò che l’attendeva, ormai esausta, priva di tutte quelle forze che l’avevano sorretta. Malgrado tutto capii che si era arresa. Ma sempre senza emettere MAI un gemito. Dio: e come avrà fatto?


Dopo alcune ore rientrai in una casa avvolta da un silenzio irreale, presago di sensazioni molto precise. Da solo. Uno sguardo nella sua camera che presentava i segni della fretta con cui in mattinata era stata chiamata l’ambulanza. Congelati il letto sfatto, le coperte a terra. Il suo sudario.


Sì, stava arrivando, era passata da lì. Avrei voluto vederla, affrontarla, sfidarla, ma aveva eluso ogni mia aspettativa e si era diretta altrove. In quella sala d’aspetto, accanto alla barella, forse già presidiando la stanza in cui sarebbe stata ricoverata. Montava la guardia per non farsela sfuggire. BASTARDA. “Prendi me” - le avrei urlato -  “prendi me se ne hai il coraggio e il potere”.


Non ricordo davvero in che stato d’animo andai a letto, se fu un lungo sonno, quello, oppure un continuo dormiveglia frantumato dallo squillo del telefono. Tre parole: “Ci ha salutato”. Erano le 5:40 del 25 ottobre 2000. Lei aveva 41 anni.


Il suo corpo era ancora caldo quando arrivai in ospedale, in quella stanza in cui mi ero soffermato varie volte, l’ultima pochissimi giorni prima. Presi ad accarezzarle il viso e poi le mani, non mi stccai da lei. E la medesima cosa feci il giorno dopo, quando era stata deposita nella bara con indosso lo stesso abito bianco che portava in quella domenica di metà maggio, l’ultima domenica di vera festa.


Quant’è freddo il corpo di una persona morta, il marmo è più caldo e meno duro. Me ne stupii, visto che fino a 24 ore prima ne avevo percepito il calore. Le mani quasi si rattrappiscono ad appoggiarle sopra, ma si tratta solo di un effetto momentaneo, poi ci si abitua, Ma le innumerevoli carezze non riuscirono a restituirle il calore.


Un’altra mia sorella mi confidò, qualche giorno più tardi, che il figlio di un anno che stava dormendo quella mattina, si svegliò all’improvviso, poco prima delle sei. Mi è sempre piaciuto pensare che la zia era passata a salutarlo, prima di volare lontano. Per sempre.


Da allora, ogni anno, nel periodo delle feste (si fa per dire) natalizie, riporto in vita mia sorella, visionando il video girato in quella domenica di metà maggio. La rivedo camminare, gesticolare, noto perfino i suoi tic. Soprattutto ne riascolto la voce e mi scaldo il cuore.


sabato 22 ottobre 2005

Sinfonia d’autunno


Ore 7. Esterno giorno. Il profumo dell’autunno nel mattino rorido. La nebbiolina si dissolve, la strada è bagnata dall’umidità notturna. Le luci artificiali illuminano ancora la piazza che attraverso per recarmi al capolinea dell’autobus. Sul marciapiede, fuori dall’albergo, alcuni operai confabulano tra loro, le cicche che accendono le dita finiscono gettate da un lato. Si dirigono al furgone, ci incrociamo. E allora il loro parlottio si fa più distinto, familiare. Perciò mentre l’occhio fissa la targa del veicolo su cui stanno salendo, contemporaneamente uno di loro grida all’autista: “Vieni indietro”. In dialetto. Quel dialetto. Un’esortazione che mi accompagnerà nel tragitto in autobus. Riecheggiando più che nell’aria, nel cuore, dove risuona quell’accento, producendo armonie ormai attutite, anche se intonate.


Pensare che non lo sopportavo, o meglio non sopportavo le persone che anche in mia presenza, il “forestiero”, usavano disinvoltamente quella lingua: tanto io non capivo ed ero estromesso momentaneamente. E, invece, con la frequentazione, con l’ascolto attento e interessato, ho cominciato a capire. Anche se il fastidio persisteva, per quell’arbitraria circoscrizione, per quell’ostentazione in parte superba, in parte così connaturata in tutti e ad ogni livello. Come un segnale di riconoscimento e tacita complicità. Esclusivo.


“Lei” non parlava in dialetto con me, la sua voce squillante, musicale, cristallina, piena di vitalità mi inseguiva. Lo sfumato accento mi avvolgeva come una calda coperta millecoccole.


Le suggestioni dell’autunno si mescolano con la sua magia, la sua presenza-assenza odierna. Riecheggiano, generati da quel: “Vieni indietro” suoni e ricordi ormai aggrovigliati. Una massa informe.


Scendo e il caotico traffico del mattino mi sommerge, facendo evaporare tutti i pensieri che migrano come “stormi d’uccelli neri”.



 




 


 


L'attesa


Oggi non è stato deciso nulla. C’è stata un’assemblea movimentata dove il mio intervento è stato apprezzato quasi unanimemente, tranne dal tipo che mi ha interrotto chiedendo di lasciar parlare pure gli altri. Avrei voluto replicargli dicendogli che dopo l’avrei ascoltato volentieri, ma si sarebbe innescata una polemica infruttuosa e sono andato avanti. Lui è rimasto al proprio posto, anche al termine del mio breve discorso. Altro evidentemente non aveva da aggiungere.


Il nostro capo ha formulato alla direzione una proposta alternativa, ossia cassa a rotazione (e a questo punto io sarei sicuro) per due persone ogni 15 giorni. Ciò ha creato ulteriori perplessità e dunque lunedì (mi auguro) si conoscerà la valutazione di questa idea.


giovedì 20 ottobre 2005

Prima della tempesta

Locandina del Film Tempi Moderni


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


Poco meno di 24 ore e poi saprò. Dovrò sapere per diluire l’angoscia devastante e crescente, mentre si approssima l’orlo del baratro e sta per materializzarsi lo spettro della cassa integrazione.


Tutto parte da lunedì, da quando viene affisso in bacheca l’elenco delle persone impiegate nei vari reparti e coinvolte nella cassa integrazione a zero ore per 24 mesi. E anche nel mio reparto, dove lavoriamo in 11, si affaccia il numeretto. E’ uno, certo, ma già sufficiente a creare l’allarme e generare una forte inquietudine.


Nessuno se l’aspettava. Pensavamo di restare defilati, almeno in questa prima fase, quella di più duro impatto, sia per le ridotte dimensioni del settore che per la rilevanza che avrebbe ancora di più assunto nella fase di riorganizzazione.


Ci sbagliavamo, evidentemente, perché non si era tenuto conto delle bizzarrie della neo vicepresidente la quale, disponendo di scarsa e sicuramente inadeguata conoscenza della vita aziendale, ha messo mano alla pianta organica e disposto tagli indiscriminati. Così manca, accanto a quel numeretto,  l’abbinamento con il nome che avrebbe già dovuto essere reso noto, ma che inspiegabilmente rimane ancora custodito nelle stanze padronali.


Adesso non so se sia possibile rendere il senso di oppressione, anche, che si avverte, l’insicurezza, l’avvilimento per la mancanza di rispetto verso le persone, Lavoratori, dipendenti, sottoposti, definitele come vi pare, ma sempre di persone si tratta, vulnerate nella loro dignità, trattate alle stregua di numeri di una roulette impazzita che sta girando con la pallina che sobbalza, asseconda gli urti, sbatte sulle pareti e non scende mai nella casellina. Rouge o noir, le jeux sont faits.


Neppure il tempo di iniziare a giocare, di puntare. Ha scelto il banco e ora attende solo che la ruota si fermi per incassare. Perché qui vince sempre il banco e perdono tutti gli altri, quelli che si erano accalcati attorno al tavolo, non per il. gioco, ma per una cosa molto semplice che viene sempre più negata, parcellizzata e precarizzata.


Si sta per decidere la mia sorte, perché quel nome esiste e a nulla valgono anzianità di servizio, modalità d’impiego, mancanza di richiami scritti o verbali, comportamento in sostanza inappuntabile. Della storia aziendale, la mia oppure quella degli altri colleghi, non interessa niente a nessuno. Anche il responsabile di funzione, rimasto a sua volta sorpreso e interdetto,  si è sentito messo da parte, scavalcato, irriso quasi nelle sue potenzialità. Sempre che non ci abbia mentito, sempre che non stia facendo un vergognoso doppio gioco. Perché a pensare male non si fa peccato e magari ci si indovina pure, no?


24 mesi a zero ore. Impatto durissimo, anche perché inaspettato in queste proporzioni. Sa molto di sentenza inappellabile, porta con sé tutti i mali del mondo. Poi, a pensarci bene, consideri che di irrevocabile c’è solo la morte che sconti non ne fa di sicuro, che la salute prima di tutto non è una frase fatta anche se poi non è merito tuo. Eppure si tratta di una svolta rilevante nella propria vita, quella che conterrebbe anche le premesse per voltare pagina drasticamente. Una rivoluzione perfino benefica a 30 anni, mentre lo è un po’ meno quando se ne ha qualcuno di più. Pur non dimostrandolo affatto.


Mi verrà perdonata questa sbavatura civettuola, ma devo anche tenermi su in qualche modo. E questo è assai innocuo. Meno, molto meno di una sniffata, certo.


Dietro l’angolo cosa mi aspetta? Perché l’interrogativo, comunque, devo pormelo anche se non venissi abbinato a quel numeretto verso cui confesso l’incompatibilità. Ormai stiamo navigando su una barca dissennatamente votata a sfracellarsi contro un iceberg, senza un timoniere capace e credibile, amarissimo pedaggio che si paga al passaggio generazionale, da padre a figli, alla gestione della ditta. Alle divisioni all’interno della famiglia. Che fatalmente si ripercuotono sui dipendenti.


Anche chi resterà dopo il passaggio di questo uragano (che pure in questo caso ha un nome femminile) non potrà ormai sentirsi più al sicuro, garantito come in tempi ormai andati, quando l’augurio dell’anziano genitore era quello di restare al lavoro, lì al nostro posto, fino all’età pensionabile.


Dietro l’angolo non lo so bene cosa troverò svoltando. Ho avviato cauti contatti, quei pourparler ancora ammantati di “se” e di “ma” e forse per sentirsi effettivamente cassaintegrato, scaraventato nell’inferno della precarietà, occorre  viverne la condizione.


Penso anche ai quindici anni (e mezzo) vissuti in quella che, legittimamente, posso ritenere una seconda casa, in virtù delle tante ore trascorse e tralascio le considerazioni da fare sui rapporti umani che si sono sviluppati, sulle conoscenze importanti che ho potuto fare, importanti perché incarnate in persone valide, garbate, intelligenti, dotate in qualche caso di solido carisma intellettuale, l’elemento che mi affascina in ogni persona, se donna poi può anche stordirmi.


Accade così che questo blog potrebbe pure diventare la vetrina di una mutata condizione e fatalmente restarne condizionato. Sperando che non diventi precario anch’esso.


 

lunedì 17 ottobre 2005

L'annessione


http://www.frangipane.it/archivio/settembre2005/20050921001.jpg


Contromano
di CURZIO MALTESE da il Venerdì di Repubblica del 14 ottobre 2005

Esiste un modo molto italiano di far sentire solo chi prova a difendere in questo Paese valori e diritti fondamentali. La laicità dello Stato per esempio. Davanti alla più sfrenata offensiva reazionaria della Chiesa post conciliare su tutti i fronti, dalla scuola ai diritti civili, uno si guarda intorno in cerca di un punto di riferimento e d’appoggio, un partito, anche un singolo politico in grado di reagire, di dire mezza cosa non di sinistra ma di civiltà. Basterebbe anche «libera Chiesa in libero Stato». Dove sono? Spariti tutti. I leader del centrosinistra latitano. Anzi, si confessano. Fassino rivela di essere credente. Bella cosa, siamo contenti per lui. Ma sono affari suoi e per giunta la confessione, nel programma di Barbara Palombelli, sembra più un gossip che una crisi spirituale. Per non essere da meno, come cantava Jannacci, anche Fausto Bertinotti si precipita a incontrare i frati e a parlare nelle interviste di (e magari con) Dio.


L’unica reazione all’avanzare della nuova controriforma è di Romano Prodi. Il pio, cattolicissimo Prodi, scavalcato a destra da comunisti e post comunisti, si limita appunto a dire mezza cosa civile sul tema delle coppie di fatto. Subito gli si crea il vuoto intorno e gli piove sul capo la scomunica mediatica. Prodi stesso, mollato in fretta dai compagnucci della parrocchietta del centrosinistra, s’affanna a precisare di non essere Zapatero. Grazie, lo sapevamo. L’Italia del resto non sarebbe mai in grado di sopportare uno Zapatero, neppure in Rifondazione. Ma che c’entra? La legge sulle coppie di fatto in Spagna l’aveva fatta Aznar e per noi quella sarebbe già una rivoluzione. Il nostro è l’unico Paese d’Europa dove le coppie di fatto sono discriminate. Tanto vero che solo l’11 per cento dei bambini nasce fuori dal matrimonio, contro il cinquanta per cento della Francia, il quaranta della Spagna. E per quale ragione solo in Italia un omosessuale non può assistere il suo compagno ricoverato in ospedale o nominarlo erede?


L’offensiva della Chiesa di Ruini è impressionante e fa leva sulla miseria di una classe dirigente allo sbando e sull’imbecillità imitativa dei neoconservatori all’amatriciana per ottenere il maggior incasso possibile. L’ultimo favore del berlusconismo moribondo alla Chiesa cattolica è l’esenzione dall’Ici, che verrà compensata con le tasse prelevate ai cittadini o sudditi laici dello Stato confessionale. Come se non bastasse la montagna di milioni che arriva ogni anno dall’otto per mille e serve al novanta per cento a pagare stipendi e palazzi, con tanti saluti alle missioni sbandierate negli spot. Certo, è una Chiesa disperata quella che rinuncia a parlare all’umanità e si concentra tutta nella difesa della frontiera interna, intervenendo ogni giorno nelle vicende italiane. Il declino della Chiesa cattolica e quello dell’Italia procedono così di pari passo e sono soltanto passi indietro.




Curzio Maltese è uno degli editorialisti preferiti. Questo suo pezzo è esemplare e in grassetto ho evidenziato le parti più rilevanti: come si può osservare c’è molto grassetto. E a proposito di Zapatero, il pezzo che segue è stato battuto dall’agenzia Sir, il 30 settembre, alle 17:33.



SPAGNA: VESCOVI PREOCCUPATI DELLA NUOVA LEGGE SULL'EDUCAZIONE. - I vescovi spagnoli hanno espresso “grande preoccupazione” per la bozza di Legge organica dell’educazione (Loe), perché ritengono che non tenga conto delle scelte dei genitori nell’educazione dei figli. “Si attribuisce alle Amministrazioni Pubbliche un potere tale che mira a far diventare lo Stato unico educatore”. Lo afferma una nota del Consiglio permanente della Conferenza episcopale spagnola, che ha chiuso ieri a Madrid la sua riunione. I vescovi sono contrari al progetto di legge perché “non rispetta la libertà di insegnamento” né la libertà dei genitori di scegliere la formazione religiosa e morale dei figli”. Chiedono quindi, per i genitori, “più capacità decisionale, più pluralismo educativo e più potere”. I vescovi ricordano che “l’80 per cento dei genitori sono favorevoli all’insegnamento della religione cattolica per i loro figli” e ritengono che “sia una materia fondamentale, offerta obbligatoriamente da tutti gli istituti e facoltativa per gli studenti”. I prelati si sono anche detti “preoccupati” per la nuova materia che l’attuale governo intende inserire, ossia “l’educazione alla cittadinanza”, perché potrebbe andare a discapito della “libertà ideologica e religiosa”. C’è inquietudine anche per la posizione degli insegnanti di religione: se la legge verrà approvata saranno “impiegati della Chiesa”, una realtà a cui
la Chiesa
si oppone perché ritiene che sia lo Stato a doverne sostenere i costi.
La Conferenza
episcopale spagnola è disponibile a dialogare con il governo su queste questioni, ma constata che “purtroppo non c’è stata risposta all’offerta reiterata di dialogo”.



 







 




 





 



 


giovedì 13 ottobre 2005

E vissero in Pacs

http://www.segnalidifumo.it/autori1.asp?cod=64


La pratica di predicare bene e razzolare male è tra le più diffuse ad ogni livello. Tuttavia se si può essere accondiscendi con amici, colleghi oppure conoscenti, limitandosi talora a blande osservazioni, non altrettanto può dirsi quando tale pratica è esercitata abitualmente da coloro che avrebbero maggiori responsabilità, in questo caso di governo. L’ipocrisia che contraddistingue certuni è perfino sconcertante, anche se ormai si dovrebbe essere vaccinati. Però questo virus muta in continuazione, sfugge ad ogni controllo e propaga i suoi effetti. Capita così che la polemica accesa sui Pacs (patti civili di solidarietà) riveli tutte le crepe che affiggono lor signori.


Osteggiati dai legaioli, dai residui (a destra) della Dc e da una parte dei forzaitalioti, oggetto di scomunica rovente da parte del facondo Ruini, perché ritenuti disgregatori della famiglia (quale?) e ritenuti troppo compromettenti dal pavido Rutelli che predilige una soluzione meno appariscente e decisamente riduttiva, i patti o almeno la sola prospettiva di introdurli in Italia, hanno suscitato riprovazione tra i parlamentari più reazionari, coloro i quali predicano bene, appunto e razzolano male.


“Prendiamo (come riferisce “l’Unità”, da cui ho preso l’articolo) il cattolicissimo presidente della Camera, Pierferdinando Casini che chiede «rispetto per il suo diritto di dire laicamente no», mentre convive obtorto collo: pendente la sua richiesta alla Sacra Rota di annullamento del matrimonio con Roberta Lubich (sposata dopo l’annullamento delle precedenti nozze di lei) da cui ha avuto due figlie adolescenti, è adesso legato all’imprenditrice Azzurra Caltagirone e padre della piccola Caterina.


Poi c’è il leader di Cl e “governatore” lombardo, Roberto Formigoni, che ritiene la posizione di Prodi sui Pacs «uno scivolone rivelatore di come l‘Unione non voglia difendere la cellula fondamentale della società: la famiglia». Ben detto, se non fosse che 6 anni fa finiva sulla copertina di Novella 2000 accanto alla fidanzata Emanuela Talenti in lacrime. Il Celeste e l’altissima indossatrice facevano coppia nelle occasioni sociali, trascorrevano le vacanze insieme ed erano dati per nubendi dai rotocalchi rosa: invece non fu così.


E che dire di Ferdinando Adornato, ex laico di sinistra convertito alla dottrina teo-con, il quale ha precisato alla Stampa, che lo inseriva fra gli «onorevoli conviventi», di essere «felicemente sposato da qualche anno». Negli scapigliati anni ’70, invece, quando «la coppia simbolo erano Simone de Beauvoir e Sartre», preferiva la convivenza (da cui è nato un figlio oggi ventenne) rievocata in un‘intervista a Maria Latella: «La coppia aperta che inferno».



La Lega
è paladina della famiglia tradizionale «impostata su riconosciuti valori e responsabilità» con qualche incongruenza. Passi il decennio di convivenza di Umberto Bossi, divorziato prima di impalmare Manuela Marrone in seconde nozze. Ma sarebbe interessante sapere cosa ne pensa Ruini del matrimonio celtico, con druido e altare a Odino e giuramento «sul fuoco che mi purifica», celebrato nel 1998 da Roberto Calderoli (oggi - che sollievo - regolarmente coniugato davanti a Dio). Calderoli che aborre le coppie di fatto in quanto «atto contro natura e primo passo verso la dissoluzione di una società fondata sui valori» e non pensava che «per un pugno di voti il centrosinistra potesse cadere così in basso», 7 anni fa scambiava i braccialetti (mica gli anelli) con la poetessa Sabina Negri in abito celtico di Gattinoni color Padania in autunno, nella villa del calciatore Vialli: un simpatico rito pagano officiato da Formentini


Nel ‘98 sempre con rito celtico, Roberto Castelli, divorziato con un figlio, sposava a Pontida la giovane attivista Sara Fumagalli: nozze “regolarizzate” in comune quest ‘anno. Dall’esilio dorato di Bruxelles riemerge Franco Frattini per ritenere «non necessaria» l’introduzione dei Pacs in Italia: «La mia opinione come cittadino è che non ce n‘è assolutamente bisogno, tenderei a escluderli.
La Costituzione
va bene così, la legge è una buona legge». Frattini separato con una figlia, già fidanzato con un paio di teleconduttrici, è stato goliardicamente salutato da Berlusconi a Gubbio: «Attente ragazze, so che Franco è tornato single...”.


La nivea attrice Elisabetta Gardini, divorziata con un figlio, convive da anni con un regista, ma come portavoce azzurra ammonisce: «Con Prodi l’Italia imboccherebbe la deriva zapaterista anche sulle questioni eticamente sensibili».


Dal sacrificio della convivenza non si è salvato neppure Silvio Berlusconi. Ottenuto il divorzio dalla prima moglie, Carla Dall’Oglio, ha sposato l’attrice Veronica Lario dopo 6 anni di convivenza. Dei tre figli avuti con lei, la primogenita Barbara è nata prima del matrimonio.


E dalla memoria storica rispunta il caso del Dc Alberto Michelini, strenuo custode della famiglia e caro all’Opus Dei. Il futuro deputato forzista visse un breve momento di imbarazzo quando, nel 1989, vennero resi inopinatamente noti i verbali dell’annullamento delle sue prime nozze, «L‘uomo deve essere libero e non legarsi mai con alcun vincolo» confessava allora ai giudici della Sacra Rota (poi si risposò). Sua madre testimoniava: «Nostro figlio diceva sempre che non avrebbe mai sopportato una donna vicino per tutta la vita. Per questo con mio marito maturammo la convinzione che sposandosi faceva una buffonata». A diffondere i verbali fu un consigliere comunale missino, Tommaso Manzo, che così si giustificò: «Niente di personale, anche altri candidati Dc sono divorziati e risposati. Ma almeno non poggiano il proprio programma sulla difesa del matrimonio e della famiglia»”.


Certamente anche tra i parlamentari dell’opposizione ci saranno conviventi, separati e divorziati, ma poiché non salgono sul pulpito a fare prediche, additando i peccatori al pubblico ludibrio, non possono essere presi in considerazione.


mercoledì 12 ottobre 2005

Scene da un matrimonio


Avevo già pronto un nuovo post, quando mi è stato segnalato questo commento di Daniele Luttazzi, un altro esiliato eccellente dall’editto di Sofia e bandito per sempre (temo di sì) dalla televisione nazionale. Così, proseguendo nella piccola opera di tutela della salute mentale e di altra informazione, lo rilancio immediatamente. E, questo è il bello, lo condivido pure. Non senza aver però aggiunto che, quello del sistema elettorale, non mi pare davvero il problema più importante da affrontare. 



”Ieri (domenica n.d.a.) Prodi in piazza del Popolo ha commesso un grave errore, definendo il proporzionale di Berlusconi uno “scippo della sovranità espressa dagli italiani col referendum sul maggioritario”. Il primo scippo di quella sovranità si ebbe quando tutti i partiti, all'indomani del referendum che sanciva la preferenza per il maggioritario assoluto, concordarono di aggiungerci una quota proporzionale, per i propri bisogni. Lì vennero poste le basi per qualunque scippo successivo; e si persero i titoli morali per denunciarlo. La menzogna di tutti, all'epoca, fu nell'indicare il maggioritario come indispensabile per un sistema bipolare, mentre la quasi totalità dei Paesi europei occidentali è proporzionale e bipolare. Oggi, la truffa arcoriana consiste nel proporre sia lo sbarramento che il premio di maggioranza, e non (questo l'errore di Prodi ) nel ritorno al proporzionale in sé, che resta (lo scrivevo su Micromega nel settembre 2003, come se volesse dire qualcosa) il sistema più adatto all'Italia. (Si può dire tutto dei padri della repubblica, ma non che fossero intontiti dal Soccer Pro-evolution 4 della Playstation 2.) (E' una droga. Attento, Lapo!). Nella prima repubblica si ironizzava sulla precarietà dei governi favorita dal proporzionale; non si vedeva che proprio quella precarietà permetteva alla politica di monitorare meglio i mutamenti della nostra società; e si voleva nascondere il fatto che un proporzionale con sbarramento è un sistema solidissimo. Il maggioritario ( sulla cui scelta influì il disgusto per le ruberie di Tangentopoli, di cui il maggioritario secco venne presentato come panacea, Pannella in testa, senza che nessuno, a parte il prof. Sartori, spiegasse agli italiani che il maggioritario migliore è quello a doppio turno, dato che quello secco favorisce il ricatto dei partitini ) il maggioritario, dicevo, ha permesso a Berlusconi di starsene a far danni fino alla fine della legislatura, quando col proporzionale sarebbe saltato subito dopo i fattacci di Genova. Il maggioritario, non dimentichiamolo, è un'idea di Gelli per favorire in Italia l'avvento di un Peron. Che infatti è arrivato. Visto come funziona? Quale prova migliore che la stabilità non è sinonimo di efficienza e moralità? Un Prodi più sincero avrebbe dovuto dire dal palco: “Siamo contro il proporzionale, perché col proporzionale la coalizione di centro-sinistra, messa faticosamente insieme in questi 5 anni di tribolazioni, va a farsi friggere, e io dovrei farmi una lista mia, e non c'è più il tempo per fare nuovi accordi, e si rende evidente l'inutilità delle primarie”. Infatti le primarie cosa sono, se non un proporzionale fai da te per saziare la fame di protagonismo dei vari leader del centro-sinistra? L'immagine dei capi dell'Unione, ieri, tutti sul palco di piazza del Popolo, era una nervosa confessione di dilettantismo mediatico e di future rese dei conti. “Guarda quanti ce ne vogliono per fare un Berlusconi”, ti diceva quell'immagine. Con Di Pietro e Bertinotti che facevano capolino ai lati, come i parenti poveri nelle foto di matrimonio”.

 



 

sabato 8 ottobre 2005

Cuore e batticuore


E il cuore riprese a battere. Una mia amica l’aveva predetto.


Esco dall’ufficio più tardi del solito, ma non si tratta di straordinari, devo solo recuperare le ore mancanti. Per fortuna ha smesso di piovere, una nuvola di passaggio diretta altrove che ha però perduto buona parte del suo carico. Breve e intenso acquazzone. Temevo di inzupparmi e invece mi va bene.


Non prendo l’uscita secondaria, per guadagnare tempo; mi dirigo invece verso l’ingresso principale. E questa volta, prima di adoperare irrevocabilmente il mio budge, lancio una previdente occhiata verso la minuscola stanza del centralino. L. è lì, di turno. Noto che mi guarda anche lei, così mi avvicino, si alza dalla sedia e mi viene incontro.


Preliminari.


Mi fa piacere rivederla, glielo comunico apertamente. Si barattano saluti e lei è ancora più vicina. Pericolosamente sorridente. Tutto sembra sorridere in lei. Manifesta gioia, credo, oso credere. Osservo il suo viso paffutello, sembra una bambolina, perché non è molto alta, ma decisamente proporzionata. Indossa un paio di jeans, di quelli a vita bassa, odio e amore delle adolescenti (e oltre). La sua fascia anagrafica è (poco) più alta. Ma non guardo altro. Confuso.


Mi accingo a congedarmi e il fatto accade molto spontaneamente. La vista quasi si annebbia, il cuore esulta, prende l’ascensore per la gola. Quasi non ricordavo più un’analoga sensazione. Le vado accanto e la bacio sulle guance. Come fosse da una vita che ci conosciamo, mentre di lei, a parte il nome, so che è sposata, ignoro in che rapporti sia con il compagno e mamma, certo dolce, di un bimbo di pochissimi anni. Di me L. conosce ancora meno. Eppure sboccia quel saluto, quel doppio bacio sulle tondeggianti gote. Ma ancora non mi allontano. Qualcosa da aggiungere è, come minimo, indispensabile, per non enfatizzare quel gesto. Eppure non so che cosa dire.


Un tumulto di sentimenti: le persone in transito, il telefono che potrebbe squillare da un momento all’altro, i colleghi in ingresso nella stanza, visitatori esterni. Penso. Mentre ascolto il cuore che, come non mi capitava da tempo, sta battendo, anche forte. E mi blocca. Mi butto sul tempo, viro poi su argomenti più consistenti. La interesso, perchè mi ascolta attenta. E’ singolare, per uno che raramente si trova in imbarazzo con persone sconosciute, soprattutto di sesso femminile, non riuscire a trovare le parole per imprimere alla conversazione un tono apparentemente disincantato.


Eppure avevo molto discusso, fino a poche ore prima, con colleghe, sebbene di scarsa frequentazione in ditta, perché il nocciolo duro della questione rimane sempre lo stesso. Alcune anche carine, intriganti, ma il cuore stamattina era ancora silente.


Lo squillo del telefono spezza l’incantesimo. Mi rammarico e anche L. condivide, così aggiungo che dovremmo rivederci fuori, senza telefoni e scadenze pressanti. Resterà al lavoro, mi fa sapere (ci teneva ad informarmi?) fino al 24 ottobre (ha un contratto a termine). Ho poco tempo, dunque. Hai poco tempo, forse mi suggerisce, come mi piace immaginare.


Le metto una mano dietro la nuca, sopra il caschetto di morbidi capelli castano chiari e, se non ci fosse il viavai di persone, un altro bacio ci starebbe bene come saluto e augurio per il fine settimana. Lei continua a sorridere, ma infine deve sollevare la cornetta. Io stesso la incoraggio per non correre rischi.


Adesso una cara amica (e forse non solo lei) mi bacchetterà se sostengo che devo assolutamente far prevalere la razionalità sui sentimenti, eppure non si tratta soltanto di evitare precoci scottature, un’autodifesa necessaria, quanto di un frammento, Si tratta di un minuscolo frammento di un incontro, un altro pezzetto che, analogamente alla breve vacanza trascorsa con E.,  va a ricomporre il quadro sentimentale disastrato,


Sì, sono pronto, come profetizzato dalla mia amica, sono pronto a provare nuove emozioni, senza il rammarico di quanto perduto. E c’è stato quell’istante, un flash che annulla l’ambiente circostante, blocca il tempo per un infinitesimo di secondo e inebria con sensazioni magiche. Quella percezione mi ha fatto capire che, se ci fossimo incrociati per strada, scambiato i saluti, dialogato, quei due baci sulle guance avrebbero poi potuto cambiare destinazione. Con molta naturalezza. Forse. 


martedì 4 ottobre 2005

Gli antennati






La Rai
rialza la testa nella “guerra” degli ascolti? I pubblicitari sono costretti a rivedere i loro investimenti in funzione dell’inatteso exploit delle prime serate di Rai Uno? Niente paura, il fiuto per gli affari (suoi) della famiglia Berlusconi ha
escogitato l’ennesimo stratagemma per trasformare l’elettrodomestico più amato dagli italiani in un gigantesco (e discutibile) affare...


Circa due anni fa il governo varava un contributo di 70 euro, per incentivare l’acquisito dei nuovi decoder del digitale terrestre. Mentre l’ex ministro Gasparri se ne andava in giro per il paese decantando le virtù della nuova tecnologia, sponsorizzata da Palazzo Chigi, che nel Paese (quello reale) si vedeva poco o nulla, molti dei decoder immessi frettolosamente sul mercato sono inadatti ai programmi pay per view, ad esempio al calcio a pagamento di Mediaset. Un clamoroso autogol, cui Silvio e Paolo Berlusconi hanno deciso di rimediare. A modo loro.


La finanziaria di proprietà di Paolo Berlusconi,
la Pbf Srl
, operativa nel mercato dell’elettronica di consumo
attraverso
la Solari.com
srl, importa e distribuisce in Italia i prodotti Amstrad
(società internazionale con sede a Londra), tra cui in particolare anche decoder digitale terrestre del tipo Mhp, cioè quelli sovvenzionati con i 70 euro di sussidio previsti dalla Finanziaria. Nel giro di sei mesi, da gennaio a luglio 2005, l’Amstrad è diventata la sesta azienda su 22 per quote di mercato nella vendita di decoder dtt e il fatturato della Solari.com è improvvisamente raddoppiato (141 milioni di euro). Quasi inutile sottolineare qualche altra piccola “coincidenza”: la società ha iniziato a commercializzare decoder per la nuova tecnologia a gennaio, lo stesso mese in cui è stato lanciato il servizio di pay per view Mediaset Premium; i decoder dtt Amstrad vengono venduti in “bundle” (cioè in un unico pacchetto) con una smart card ricaricabile Mediaset Premium; il tutto, natura!mente, attraverso le televendite Mediashopping (marchio del gruppo di Cologno) in onda sui canali Mediaset e sul web.
Amstrad, al pari degli altri produttori e distributori di decoder del digitale terrestre, beneficia dei sussidi in via indiretta (l’incentivo è di fatto una promozione del bene, il cui costo viene ridotto da uno sconto sul prezzo di listino), mentre Mediashopping ne beneficia in via diretta, ottenendo il rimborso dei sussidi come esercizio commerciale.


Un‘ultima piccola curiosità: uno dei principali motivi del successo dei Berlusconi-decoder è il prezzo, particolarmente basso. I ricevitori col marchio Amstrad vengono infatti interamente assemblati in Cina e immessi sul mercato italiano ad un prezzo inavvicinabile per gli altri competitor. Un affare. Vallo a spiegare al “nuovo” ministro dell’Economa Tremonti che, sul finire del suo primo incarico, si chiedeva: «Come puoi competere coi cinesi se tu hai la legge 626 e loro inquinano? Se hai l’articolo 18 e loro no?». Adesso è più chiaro: basta farli lavorare per te a casa loro. Magari con un contributo di 70 euro nato da un’idea di tuo fratello”.




Interessante questo pezzo pubblicato da “l’Unità” il 26 settembre 2005, esemplare per la descrizione della diabolica abilità e spregiudicatezza dei protagonisti, per il totale disprezzo di regole che vengono plasmate su misura, attraverso l’operare indefesso (a danno di noi fessi) degli yesman pronti all’uso, di uno sfruttamento intollerabile delle istituzioni, del Parlamento, operato dalla solita compagnia di giro che ha reso molto più povero il Paese, che è lo stesso che abitiamo noi e che stanno saccheggiando, mentre ha arricchito in maniera immorale e disgustosa l’ometto tessera P2 n°1816.


Questa notizia, inutile dirlo, non ha trovato l’eco che credo meritasse. Se non altro come approfondimento, poiché il digitale terrestre coinvolge trasversalmente, come si usa, dire, i cittadini o i consumatori che dir si voglia, molti dei quali, invece, tra informazione addomesticata, “isole”, “talpe”, “amici”, “pacchi” e “calcio come se piovesse”, insomma il panem et circenses che viene largamente distribuito, si ritengono soddisfatti. E lobotomizzati. D’altra parte, per il becero qualunquismo che alligna: “Franza o Spagna purché se magna”.

sabato 1 ottobre 2005

Arrivederci e grazie (forse)


www.fotosearch.it/ ART387/dbg018/


E arrivò, infine, il giorno dei saluti. “Odio” questi momenti. Se fosse possibile non berrei l’amaro calice, ma talvolta non solo si deve, ma è pure necessario. Nella circostanza odierna sarebbe stato imperdonabile defilarsi, oppure negarsi.


Così eccoli in fila, metaforica. Da lunedì prossimo cinque colleghi in meno. La deportazione è iniziata con le chiamate nominative. Due uomini e tre donne.


G., sposato, milanista, di sinistra (rifondarolo), detto “Mangiaferro” a causa di una diffusa carie dovuta allo sconsiderato sgranocchiamento di caramelle, cioccolatini e altri dolciumi assortiti. Abbiamo condiviso valutazioni politiche, di costume, anche sportive, pur non lavorando nello stesso reparto, ma il break del mattino serviva anche per questo. Spacciatore di vari cd e software. Mi riferisce del surreale colloquio avuto con il responsabile del personale.


L’individuo, che ignorava addirittura quanti fossero i dipendenti, lo intrattiene con un sermoncino volto a spiegare i motivi della sua epurazione (perché di questo si tratta). G. conosce le ragioni e lo invita ad entrare nel merito. L’individuo aggiunge ricchi premi e cotillons: corsi di inglese per riqualificare il personale “esuberante”. “Conosco l’inglese” puntualizza il collega. “Ma ce l’hai il patentino?” lo rimbecca il tagliatore di teste. “E perché per assistere telefonicamente il cliente occorre comunicargli che si ha il patentino?”. Passa oltre. “Poi ci saranno anche corsi di informatica”. “Il pc lo so accendere” precisa G. Ora, la sua risposta è paradossale, poiché egli gestisce almeno un paio di siti web (ad uno collaboro pure io con pezzi di notizie varie), ne cura, o curava, uno anche per un partecipante del “Grande fratello”. Si diletta di tv satellitare e, naturalmente, “craccava” le smart card che dispensava generosamente. Per tagliare corto, sottoscrive un modulo prestampato, si scusa per aver rubato lo stipendio, visto che lo hanno sopportato in tutti questi anni, saluta e se ne va.


M., vive con due genitori anziani e non in buona salute, ai quali ancora non ha rivelato nulla. Tifoso viola, compagno anche lui e rifondarolo. Detto “Rino”, contrazione di “rinoceronte” a causa del fisico tarchiato, più sviluppato in larghezza che in altezza che poggia su due tozze gambe. Ragazzo mite, con propri ritmi lavorativi, spesso confusionario, bersaglio preferito del capo reparto, ma refrattario ad ogni richiamo. “Forse per la dura pellaccia” era il commento più ricorrente. Si è molto riso e scherzato con lui. Commenti volanti sulle notizie più singolari ascoltate nei notiziari. Gran smanettone con la moto. Era visibilmente commosso stamattina e, quando all’inizio della giornata gli ho premuto più forte il braccio, lo ha avvertito e mi ha ringraziato per la comprensione e l’attenzione. Prima si andare via l’ho salutato abbracciandolo e si è schernito, perché era molto sudato. L’ho stretto, allora, perché non avrebbe potuto fregarmene di meno di quel dettaglio.


Lle tre colleghe erano assenti per motivi diversi. Mi dispiace per R. che mi era stata vicino in una tragica circostanza cinque anni fa e anche in precedenza. Sensibile, attenta, con un occhio di riguardo per un ristretto numero di maschietti ai quali preparava leccornie assortite, in occasione di Pasqua e Natale e noi apprezzavamo ripulendo i vassoi. Sposata, anche lei di sinistra, prossima alla pensione e con una figlia impegnata nel sociale, dopo la laurea.


Con P. e V. i rapporti sono sempre stati più leggeri, anche per differenti funzioni svolte. La prima, alla quale mancavano poche settimane alla pensione, era stata tra le prime ad iscriversi al sindacato. Una compagna pure lei, contrariamente a V., politicamente collocata all’altro estremo, ma più per vezzo che per convinzione ed esperienza. Le sue azioni erano in caduta libera da quando aveva coinvolto un mio caro collega in un’ingarbugliata vicenda di vendite piramidali. Vistosa nel fisico e nell’abbigliamento, le erano stati via via attribuiti, negli anni, presunti flirt. Comunque una femminilità militante e gratificante, che non indietreggiava di fronte alle battute che le riservavo.


La mattinata si dipana inseguendo questi ricordi, agganciando flash, fissando immagini, i primi miei giorni in azienda, soffocati peraltro dalla cappa di incertezza che tutto e tutti opprime, assieme ad uno sciacallaggio vigliacco ed inaudito sui nomi di altre persone. Voci prive di fondamento o, semplicemente, i diretti interessati smentiscono appositamente. Lo stillicidio non si esaurisce e proseguirà, implacabilmente, nei giorni a venire, dove ci saranno lacrime e stridor di denti.


L’uscita è liberatoria. Il volto della centralinista, assai graziosa, mi accompagna. Fatti pochi passi, non potendo più rientrare, le telefono e mi scuso per quel “ciao” così veloce e distratto. Lei aggiunge, rassicurante, che mi ha sorriso e già vale molto come saluto.


Una raffica improvvisa di vento mi asciuga quella lacrima impigliata nell’angolo dell’occhio. Sono spossato.