lunedì 28 marzo 2005

In limine mortis

Tre persone. Due uomini e una donna che offrono, consapevolmente o meno, la loro sofferenza al mondo. Karol Wojtyla, Ranieri di Monaco, Terri Schiavo.

Il primo, Giovanni Paolo II, vanta già un lunghissimo pontificato (26 anni). Ha contrassegnato gli ultimi due decenni del secondo millennio, percorrendo il mondo, incontrando i potenti della Terra, ma anche gli ultimi, quelli che dovrebbero essere i più affini ideologicamente. Adesso, pur stremato e stanco, non intende rinunciare alle sue prerogative. E insiste. E si dispera, come eloquentemente aveva mostrato due domeniche fa, battendo con forza la mano sul leggio, davanti ai fedeli in piazza S. Pietro. Quel gesto mi aveva scosso. Poi, ancora ieri, l’afasia e il tentativo di parola, un rantolo che il microfono, improvvidamente aperto, aveva amplificato in tutto il mondo. Un abbozzo di benedizione. I miei occhi lucidi.

Il secondo, un principe della terra, regnante su un minuscolo, ma ricchissimo stato, versa in condizioni gravissime nell’ospedale di Monaco, mentre i sudditi sono in attesa del fatale annuncio e la diplomazie, i cerimonieri si adoperano affinché la morte non coincida con le nozze di un altro principe. Il protocollo non lo permetterebbe. E’ molto amato, il principe Ranieri, da tutta la popolazione. Il suo matrimonio con Gene Kelly fece sognare e venne vissuto come una bella favola, interrottasi poi tragicamente. Il lutto sarà di tre giorni e coinvolgerà anche la nota, grazie a lui, squadra calcistica del Monaco.

La terza, è diventata un oggetto mediatico, scaraventato nelle nostre case dal tam tam delle televisioni d’oltreoceano. Terri Schiavo, che vegeta in un letto d’ospedale (e non in casa dei genitori) da 15 anni, avrebbe diritto ad una morte dignitosa, mentre siamo costretti ad assistere ad una crociata che la destra religiosa e politici a caccia di voti, stanno cavalcando senza pudore e rispetto, con un clamore rivelatore anche delle profonde contraddizioni degli ambienti neoconservatori statunitensi, che si battono violentemente contro l’aborto, manifestano per l’embrione, ma rieleggono un presidente che due anni fa ha aggredito, con falsi pretesti, un paese straniero, iniziando una guerra che ha provocato almeno 100mila morti tra i civili iracheni, oltre 1500 tra i militari Usa (e per carità di patria lascio stare quelli italiani, soldati e non) e che, da governatore del Texas, fu un boia spietato. Tutto ciò accade in una nazione, dove la pena di morte è applicata in molti stati.

Tre persone, due uomini e una donna, diversissime tra loro, simbolo di questa nostra epoca, dove anche la macabra danza della morte è essa stessa occasione di spettacolo, mentre il silenzio si presterebbe meglio ad accompagnare queste parabole discendenti. Nel massimo rispetto per tutti.

giovedì 24 marzo 2005

Il paradosso della festa

Mi trovo a considerare, negli ultimi giorni, come le feste in arrivo siano presunte occasioni liete, perché in realtà e molto più prosaicamente, introducono o rinnovano momenti di contrasti e mai sopiti rancori. Oppure, rivelano la loro incapacità di manifestarsi pienamente di fronte a situazioni drammatiche e piene di angosciose incognite.

C’è un collega, neo sposo e perciò all’esordio nelle circostanze di prammatica, sul quale gravano gli obblighi che derivano dal nuovo status acquisito (visite dovute, sparigliamento della coppia tra genitori e suoceri), ben lontano dall’immagine più sbarazzina di single, anche se Pasqua con chi vuoi sarebbe contrapposta al Natale con i tuoi,

Un altro, invece, lamenta il padre in ospedale, affidato a cure palliative più che altro. Verrò dimesso venerdì o sabato, ma la sostanza non cambia. Temo si parli in termini di mesi. E perciò, anche per lui, l’occasione di festa sarà un ulteriore motivo che accentuerà disagio e dolore. Una malattia che forse rallenterà, ma ormai irreversibile nel decorso.

Poi c’è chi ormai è rassegnato ad ospitare, in un convivio allargato, suoceri, cognati, nipoti, con quei parenti serpenti, solo alcuni per sua fortuna, che proprio in queste ricorrenze si manifestano nella loro vera natura, come se il motivo di festa autorizzi qualunque atteggiamento e conseguente resa dei conti. La replica, non si sa se più dovuta o temuta, sarà il giorno dopo con grigliata all’aperto. Le incombenze della vita matrimoniale, mi viene spiegato con un sospiro lungo da qui all’eternità.

Insomma, il trionfo della falsità delle feste dove sono tutti allegri e sorridenti ad uso e consumo della pubblicità oppure, come mi scrive una cara amica che apprezzo ogni giorno di più, l’immagine stereotipata da famiglia del Mulino Bianco, paradigma dell’Avere contrapposto all’Essere.

Tanti motivi che fanno quasi rimpiangere il ponte pasquale, come se l’opportunità di rifiatare riappropriandosi, anche se per poco, di ritmi di vita più naturali, espungesse da questi il buon senso, la serenità e la capacità di apprezzare le cose semplici, quelle che più delle altre racchiudono l’essenza dell’Essere e rifiutano l’Avere.

venerdì 18 marzo 2005

Raggio di sole

Irrompe A. nel mio ufficio con il suo maglioncino fino bianco, tanto stretto al punto che si può immaginare tutto, come in controluce. E, anche con uno più largo, sempre poco spazio per l’immaginazione ci sarebbe stato. “Baglioneggio”.

22 anni ancora da compiere, jeans grigi a vita bassa, ovvio, la giacca color perla ripiegata distrattamente sul braccio sinistro, con la mano regge una di quelle microscopiche borsette dove, oltre al cellulare, ad un pacchetto di sigarette e una confezione di tampax, altro non entra (credo io). Tra le affusolate dita della mano destra ondeggiano, civettuoli, un paio di occhiali da sole. E lei, come un raggio di sole, è entrata.

Guardo i suoi lunghi capelli neri, l’ovale del viso perfetto, gli occhi che brillano di gioventù, di vita, di entusiasmo. La bocca sembra dipinta. La osservo per cercarle un  difetto estetico, almeno uno, ma tranne un incisivo lievemente scheggiato, altro non trovo.

A. è stata mia collega, un paio di anni fa, prima facendo uno stage in azienda, poi venendo assunta con un contratto a tempo determinato. E’ passata da ex a salutare tutti. Compreso il responsabile di settore che l’ha invitata a indossare la giacca. Guardandola, lei non la giacca, non è difficile indovinare il motivo. Prorompe energia.

Fidanzatissima, ha coinvolto emotivamente molti colleghi. Maliziosamente c’è chi sostiene, ancora oggi, che abbia provocato un surplus di produzione ormonale nel compagno di stanza, al punto che la moglie è rimasta incinta e la figlia nata sia definita, sottovoce, come la “nipotina” di A. L’interessato ha, naturalmente, sempre smentito ogni stimolazione esterna, ma pare proprio che quella seconda figlia non fosse prevista.

Una ragazza così estroversa, sorridente, disinvolta nonostante la giovane età, non poteva passare senza colpo ferire e, nel tempo, hanno preso consistenza particolari intriganti. I più accreditati giurano di averla vista baciarsi appassionatamente con un ragazzo, poco più grande, al riparo della macchinetta del caffè. Favole aziendali. Un mazzolino di fiori, recapitatole il giorno del suo compleanno, ha provveduto ad alimentare ulteriori pettegolezzi. Sarebbe stato il suo fidanzatino (un anno meno di lei), ma la verità non è mai stata appurata.

A tutto questo penso mentre racconta del suo nuovo lavoro. Mi chiedo, anche, se sia sempre presente M. il ragazzo, giocatore di basket, più invidiato in quel periodo.

Io mi sono sempre trovato bene con lei e ho annotato nel mio palmares un apprezzamento ricevuto, un venerdì mattina di luglio, mentre mi aggiravo in stanza indossando una t-shirt gialla, senza maniche, che esaltava abbronzatura e narcisismo. Si era complimentata. Avevo raccolto, incassato e conservato quel suo sguardo, il suo sorriso, quell’accenno di rossore, mi era sembrato, forse per essere apparsa troppo ardita. Ma, a quel tempo, c’era ancora “lei” a egemonizzare i miei pensieri. Nell’immediato pomeriggio sarei partito per l’ennesimo viaggio. Blindatissimo. Nella mente A. non poteva proprio entrarci.

Adesso, mentre osservo la mano che fa dondolare gli occhiali, considero che, seppure in ritardo di qualche mese, i suoi genitori festeggiarono alla grande la vittoria dell’Italia al Mondiale di calcio in Spagna. Un pensiero che diventa verbo. Sorride alla battuta, mi saluta con un bacio, infila gli occhiali e se ne va. Mentre si allontana le lancio una provocazione su Del Piero, il suo idolo. E’ juventina. “Vinceremo noi, alla fine” reagisce. Proprio una di quelle toste. Eccolo il difetto.

lunedì 14 marzo 2005

Malattia d'amore

Un recente sondaggio evidenzia le 15 situazioni più insopportabili per gli italiani, i quali tra lavoro monotono, soprusi, ingiustizia e mancanza di soldi, annoverano anche il mal d’amore tra le cause che scatenano lo stress, fonte di nevrosi quotidiane. Dunque, per amore si può star male, è lecito star male, anche con manifestazioni psicosomatiche. Insomma non una stravaganza o una pretesa esosa e supponente, oppure snobismo elitario.

Si soffre, anche tanto, per mancanza d’amore, per la perdita dell’affetto che la persona desiderata offriva, per la sottrazione dell’amore che una gigantesca idrovora ha risucchiato ed estinto.

Proprio stamattina si era sviluppata, sull’argomento, un’interessante discussione in ufficio. O meglio, interessanti erano le prospettive che si profilavano laddove fosse stata approfondita, ma la pochezza di un interlocutore unita al fatto che non ci trovavamo in salotto, ha finito col ricondurre ogni cosa entro i margini dell’ovvietà. Valutando un collega, A. sottolineava come la sua ragazza fosse bella. Insorgeva un altro che concordava, aggiungendo con quella malizia tutta maschile di chi non può ottenere nulla e deve restare a guardare, che era sì bella, ma pure puttana. Io, che mi ero ripromesso di ascoltare per capire dove si andava a parare, facevo osservare che, pur non conoscendo affatto la figliola, mi sembrava un giudizio azzardato. Ma A., infervorato, precisava che era invece quella la definizione più adatta, perché a sentire un suo amico iscritto alla stessa palestra, lei mentre aveva un compagno, frequentava pure l’istruttore, non  disdegnando la compagnia di altri maschietti. Perciò, concludeva con la speranza che il collega indiziato non sia innamorato di questa donna, perché altrimenti ci starà male.

Ecco, proprio questa considerazione finale mi ha dato modo di riflettere in seguito, non per ciò che esprimeva, quanto sull’autore della stessa, che convive da alcuni anni con una compagna, unanimemente riconosciuta come attraente, la quale misteriosamente sopporta la sua superficialità e la caratteristica di eterno bambinone, dedito agli amici, con i quali condivide l’interesse per la playstation, i tornei di bigliardino e il fantacalcio.

Dunque, se una persona che non ha mai offerto l’occasione di affrontare temi delicati, pur concedendogli la povertà di linguaggio e l’argomentare raffazzonato, arriva alla conclusione che una persona innamorata poi sta male se il partner la tradisce, significa anche che la malattia d’amore non può essere condannabile, tout court, come prerogativa di chi non ha conosciuto la vera sofferenza, ma riveste una propria dignità ed è in grado, purtroppo, di provocare lacerazioni dolorose e scavare cicatrici profonde, di lunga rimarginazione.

Ho rivisitato, in un attimo, i mesi passati, ho ripensato al mio malessere acuito dai martellanti ricordi. Mi sono immedesimato, seppure per una frazione di secondo, in questo collega, peraltro poco frequentato, che si trova a percorrere un cammino lungo una lama sottile e tagliente, in precario equilibrio, perché poi il tradimento arriva come una rasoiata a squarciare la quotidianità, immergendola in un metaforico bagno di sangue.

Non innamorarsi sarebbe, dunque, la ricetta per non soffrire, ma non farebbe più male l’esclusione dell’amore dalla propria vita? Quello che fa sospirare e palpitare, quello che fa morire dal desiderio di vedere e incontrare la persona amata per esclamare, guardandola negli occhi e afferrandola per le braccia: “Ti amo”. Per chiamarla con il suo nome che è poi musica, deliziarsi con i suoi baci, emozionarsi per i suoi sguardi, i suoi sospiri e le sue carezze. Tutto felicemente reale e non virtuale, tutto affidato all’intensità di quei momenti e non alla fantasia che può partorirli.

mercoledì 9 marzo 2005

Parole di carta

Amici di penna, così si definivano le relazioni per corrispondenza prima dell’epocale invenzione dell’e-mail e della diffusione del pc. Nell’era che ha preceduto la posta elettronica, facevo largo uso di quella cartacea, soggetta purtroppo  ai ritardi e all’incertezza del recapito.

Scrivevo moltissimo, intere giornate, ad amiche e amici conosciuti in viaggio, durante le vacanze e nelle circostanze più svariate. Il virtuale era assente. Molte di quelle lettere sono conservate, assieme alla minuta, a costituire un piccolo patrimonio della memoria. Perché quei nomi così familiari un tempo, adesso identificano persone diverse (come diverso sono io) che forse neppure hanno più la stessa intensità di ricordo, che risiedono altrove, che sono forse scomparse.

Come probabilmente D., un robusto ragazzo che faceva pugilato, incrociato in curva Sud e con il quale iniziai una corrispondenza epistolare, mantenendo contatti telefonici. Lo seguii nei suoi spostamenti, ne raccolsi le insoddisfazioni provocate da un lavoro arido e pieno di fatue promesse (promotore finanziario) e dalla relazione con una ragazza, manager in un’azienda svizzera, con la quale non riusciva a trovare una comune sintonia. Un giornò si eclissò, volando in Thailandia, da dove mi scrisse, inviandomi foto dell’albergo in cui aveva trovato impiego e di una cantante indigena, con la quale aveva subito fraternizzato al punto da volerla sposare. Un sogno che non so se potete realizzare. La corrispondenza s’ interruppe, cercai perfino di contattarlo tramite le ambasciate, senza esito positivo. Evitai di informarmi presso i genitori con i quali sapevo che non correva buon sangue. Forse il maremoto del 26 dicembre ha inghiottito le sue speranze, le sue debolezze (una leggera balbuzie che lo condizionava) e la sua totale stima nei miei confronti.

Da un campeggio estivo di molti anni fa tornai con almeno una ventina di nomi e recapiti. Alcuni andarono a costituire il nocciolo duro dei miei amici di penna. Mi ritrovai così a scrivere quasi in ogni parte d’Italia, verificando cambiamenti sorprendenti nei più attivi.

A., per esempio, era una bella ragazza, capelli biondi lunghi. Studiava medicina, voleva laurearsi per andare in Africa a lavorare, allora non esistevano le ong. Un brutale incidente stradale spezzò i suoi sogni, costringendola ad una vita diversa. Mi dedicò poche frasi nella sua ultima lettera, promettendomi che mi avrebbe scritto quando il sole sarebbe tornato a splendere per lei. Non c’è stata l’alba.

G. era un ragazzo riservato, attento ascoltatore, di poche parole, aperto ad ogni tipo di confronto, ma più che altro pronto a raccogliere gli sfoghi. Anche ricercatore del silenzio, però, della meditazione. Non mi sorpresi poi molto quando mi fece sapere che sarebbe entrato in convento.

B, invece, aveva l’aspetto di un boscaiolo, un armadio a più ante vivente, due manone da portiere. Comunista, mentre si lavavano i piatti cantava tipiche canzonacce da osteria, poi pretendeva per sé la raschiatura di pentolame vario, quello che gli altri cercavano di evitare. Ci scrivemmo a lungo, poi mi comunicò che aveva deciso di diventare prete, ma non sapeva se lo avrebbero accettato in seminario a causa della sua fede politica. Qualche anno più tardi, mi ritrovai con gli occhi lucidi, a vederlo celebrare la prima messa. Poi scelse le parrocchie più disagiate dove andare. Ricambiò il mio saluto a pugno chiuso. Anche di lui non ho più saputo niente.

Poi L., una cara ragazza, esemplare e da ammirare incondizionatamente. Una delle sue ultime lettere risale a parecchi anni fa, l’ho ritrovata mentre stavo ordinando alcuni appunti. Era settembre, quando mi scrisse. “Notizie mie. A fine marzo ho avuto un infarto, ho dovuto rinunciare ad accogliere in casa i ragazzini marocchini. Sto lottando per ottenere che ora il mio compito venga assolto dal comune e dalle parrocchie. Tutti si dichiarano pieni di buona volontà, ma non ci credo, perché gli immigrati e i bambini non votano e sono poveri, quindi non interessano a nessuno, A luglio ho avuto l’alluvione sul condominio. Abito proprio in quel palazzone che ci facevano vedere in tv. Ho avuto un po’ di milioni di danni e sono stata evacuata due volte: bel collaudo per il mio cuore infartuato! Qui da noi l’estate non è arrivata e da ieri c’è la neve sulle montagne là in fondo: è un anno bisestile, accidenti!”.

 

sabato 5 marzo 2005

Il blog in rosa

 

Non ho mai apprezzato gli interventi a gamba tesa (espressione mutuata dal linguaggio calcistico) né in senso letterale, né in senso figurato, come lo sono alcuni post o commenti che ho letto negli ultimi giorni, procedendo a zonzo nella blogsfera. Ritengo che, nelle tante case che spuntano lungo quest’infinito e virtuale viale, le porte siano aperte per tutti e già questa prerogativa dovrebbe suggerire al visitatore la prudenza, unita al buon senso, di non entrare come il tradizionale elefante nel classico negozio di cristalleria. Il pachiderma non si farà certo male, però distruggerà buona parte dei preziosi pezzi esposti nel locale da cui uscirà con identica imperizia, ma senza danni, a differenza del proprietario del negozio, impegnato poi a raccattare i cocci.

Così accade che, nelle numerose esperienze di vita raccontate nei blog al femminile, soprattutto, irrompano persone che emettono sentenze lapidarie, sulla base di ciò che hanno letto, senza neppure porsi un dubbio, un dilemma. Senza almeno avere l’umiltà e la capacità di mettersi ad ascoltare, di capire, di chiedere e poi, con discrezione, provare a fornire un personale punto di vista che non è giudizio divino, ma una semplice valutazione, una modesta considerazione su quello  che si é potuto percepire.  

Accade anche che, insofferenti, spuntino fuori l’indignazione e anche l’irritazione (questo nei post) perché i numerosi e, spesso, sofferti racconti di donne sono nella maggior parte dei casi non soltanto tutti uguali, suppongo dunque monotoni, ma anche ammantati da ipocrisia e apparenza, perché poi la sostanza si rivela essere ben altra. Con ciò, ignorando tutte le sottili sfumature che permeano e caratterizzano un rapporto di coppia, sia esso tra coniugi o tra amanti. E, facendo difetto quest’aspetto, si pronunciano verdetti (sulle persone) assai discordanti da quella che è l’effettiva realtà delle cose. Queste affermazioni apodittiche sputano sui sentimenti, non rispettano le macerazioni, le angosce (perché poi si tratta di violenze psicologiche che si subiscono), sull’avvilimento che scaturisce dalla scarsa considerazione di cui si gode. E quanti mariti o compagni inadeguati rivela un rapporto a due, ometti che strangolano sul nascere anche piccole speranze, che concedono benessere economico in cambio dell’afasia affettiva. Si tratta di sofferenze vere e, in alcuni casi, toccanti.

Mi ritrovo in esse, me ne faccio in un certo senso carico. Leggendo ascolto, cerco di interpretare e, anche dove la frequentazione è assidua, non salgo in cattedra a distribuire bacchettate qua e là. E’ un modo di essere e di fare (non apparire) che non mi appartiene. Non solo. Il terreno dei sentimenti è talmente delicato che non andrebbe neppure calpestato, ma percorso lievemente, per poi esprimersi, quando lo si è attraversato, con le personali riflessioni che non possono e non devono essere maestre di vita per nessuno.

Non mancherà, naturalmente, chi osserverà che si tratta di calcoli ben congegnati, di strategia pianificata a tavolino, di facile esca per cuori infranti, perché è una perversa distorsione mentale che porta a concludere questo, frutto anche delle convenzioni e convinzioni, però poco suffragate da esperienze dirette. Perché non tutti gli uomini si identificano nello stereotipo del maschio cacciatore.

Trovo che molte donne siano magistrali nell’esprimere i propri sentimenti, nel raccontare la vita interiore. Ce ne sono alcune che riescono, in maniera eccellente, a coniugare un alto livello di scrittura con l’intensità di espressione (si vorrebbero leggere più volte al giorno) e, se simulassero, a lungo andare si stancherebbero, in primo luogo, di manifestare falsi stati di malessere. Secondariamente, al frequentatore o lettore attento, non sfuggirebbero incoerenze, contraddizioni, errori e banalità. Ma, a quel punto, non avrebbe più alcun senso mantenere ancora aperto un blog, rifugio dell’anima.

 

giovedì 3 marzo 2005

Lo psicologo dell'amore

 

Aldo Carotenuto, definito lo psicologo dell’amore, è morto poco più di due settimane fa. Nel suo ultimo articolo, pubblicato su “il Mattino” con il titolo “Quando l'amore non è più un sogno" parla dell’amore come illusione, sogno, forza interiore che trasfigura il volto dell'amato, stravolge il senso delle nostre azioni e pervade di un’energia positiva le nostre giornate.

L'amore, l'innamoramento come sfida a trasformare tale energia in una diversa attitudine di vita, da impiegare per portare avanti con maggior vigore la vita di tutti i giorni, senza temere scacchi e fallimenti pur in agguato; perché il senso ultimo di quel sentimento, in fondo, è quello di lasciare sempre, oltre il privato, dietro di sé un richiamo nostalgico: il presagio di una nuova visione.

Come omaggio e ricordo alla sua figura, posto un suo pezzo, significativamente intitolato... “Il silenzio dei sentimenti”, che non poteva trovare, dunque, una migliore collocazione naturale.

 

“Facciamo il caso dell'amore e dei sentimenti di affetto che noi sentiamo per una persona. Ma quante volte noi ci siamo accorti che il nostro amore, la nostra sentimentalità, nei riguardi di questa persona, diventa così contraddittoria. Pensate che perfino nei momenti di maggiore intimità, in cui ci si può abbracciare, ci si può stringere con passione, poi magari si dà anche un morso, un piccolo morso. E allora, se uno si pone qualche domanda, si rende subito conto che quelle situazioni sono situazioni così, che vanno di pari passo. Cioè il sentimento non può essere soltanto positivo, ma è sempre accompagnato dal suo opposto. Io questo lo posso sperimentare, in maniera particolare, durante le lezioni, ad esempio. Io per un anno intero sto con centinaia e centinaia di ragazzi e ne discutiamo spesso. Allora molte volte uno per quale motivo può suscitare un entusiasmo, può apparentemente essere stimato e voluto bene dai propri discepoli, e poi magari, quelli stessi hanno poi un atteggiamento negativo, hanno un atteggiamento di violenza, che è chiaro che dimostra soltanto la necessità di doversi staccare. Ma tutto questo può avvenire proprio perché "odio et amo": questo famoso verso latino ci sta proprio a indicare che noi tutti dobbiamo essere consapevoli di queste cose, perché, come al solito, il lavoro legato ai sentimenti è un lavoro che dovrebbe spingere anche alla consapevolezza la persona. Per cui se io lavoro coi sentimenti, io debbo saperne anche quali sono gli aspetti negativi e positivi, perché la conoscenza di queste cose permette in tanti modi di attutire. Altrimenti che cosa può succedere? Che io, senza volerlo, diciamo, commetto degli sbagli. Forse il termine "lapsus" è più conosciuto. Commetto un lapsus, che impedisce a me di raggiungere la persona amata o comunque dimentico qualche cosa, che poi, tradotto, è un atto aggressivo proprio verso la persona che io amavo tanto. E allora cosa si nasconde? Si nasconde il fatto che io non sono mai troppo consapevole del fatto che in realtà, amando una persona, tanto amore c'è, e può darsi che ci sia tanto odio, tanta distruttività. Ma questo fa parte della vita. Cioè non è un problema di anormalità, è un problema di vita e noi dobbiamo saperlo, così come sappiamo che quando mangiamo stiamo bene, però se mangiamo troppo poi non stiamo più bene. Cioè è sempre la conoscenza, la consapevolezza, in questo caso dell'ambivalenza, che permette a noi di fronteggiare questa ambivalenza e eventualmente di ridurne i danni, se questi danni si presentano”.