lunedì 27 aprile 2009

Appropriazione indebita


Si tratta di una tra le immagini più tristi e indegne viste negli ultimi tempi. Cosa c’entra l’ometto trasformista (tra breve sarà scienziato) con la Resistenza e i partigiani? Che cosa ha a che vedere con la lotta di liberazione dal nazifascismo B., tessera P2 n° 1816, che è ontologicamente avverso alla Costituzione, nata dalla guerra partigiana?


C’è voluta la dabbenaggine del segretario del Pd, questa geniale invenzione che ha svuotato di consistenza l’opposizione (uno dei motivi senz’altro), il quale ha insistito così tanto che lui è sceso di nuovo in campo e stavolta per fare bingo. Si è infatti appropriato dell’unico spazio non ancora occupato, ha immediatamente proposto il baratto del nome suggerendo – ma guarda un po’ – “festa della libertà” che, onomatopeicamente e per sicura assonanza, rimanda all’artificiale “partito della libertà”. Cosa che i suoi scherani, in servizio di megafono permanente effettivo, hanno confermato. L’ineffabile Gasparri, più espressivo del solito, già cinguettava garrulo di “festa della libertà”. Così, tempo un paio d’anni, e il 25 aprile verrà trasformato in un prodotto commerciale, simile alla festa del papà.


Posto il bellissimo e amaro articolo di Marco Revelli, pubblicato su “il manifesto” del 25 aprile che singolarmente è intitolato “In montagna” nell’edizione cartacea e “Le piazze rubate del 25 aprile” nell’edizione on line. Aggiungo che quest’ultimo titolo rispecchia in modo esemplare il contenuto appassionato del pezzo, che mi piacerebbe divenisse un classico. Inutile precisare che lo condivido integralmente.


Sotto l’editoriale di ieri di Eugenio Scalfari del quale non condivido le considerazioni espresse nella prima parte, ma che, in ogni caso, costituisce sempre un punto di riferimento.


 













Le piazze rubate del 25 aprile


Marco Revelli


 


Non c’è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.


Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l'equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni - l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.


O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.


Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.


Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori. Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un’Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l’osteggiò. Una che si sforzò di continuare l’opera di bonifica contro quell’espressione dell’”autobiografia della nazione” che è stato il fascismo, e un’altra che, sotto traccia, in quell’autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un’Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un’altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non addirittura a rimpiangere il proprio impresentabile passato.


Ora quella “seconda Italia” (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell’anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L’autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l’ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro “noi”. Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all’insegna di quella domanda di “ricomposizione” delle fratture, che nel fingere di “celebrare” le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.


Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d’imporre, con la logica dell’emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell’informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l’opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l’appello alla “memoria condivisa”, in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero “male oscuro” delle nostre peggiori vicende nazionali?


Per questo – per tutto questo – per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c’è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale… Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo no. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l’aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno.


il manifesto (25 aprile 2009)










 


 


 


IL COMMENTO


La patria e il nuovo padre padrone


di EUGENIO SCALFARI


 


IERI 25 aprile, giorno di festa per la liberazione d'Italia dai nazifascisti e per la Resistenza che ha reso possibile la rinascita della democrazia nel nostro paese, è caduto il muro che aveva fin qui impedito a quella ricorrenza di diventare una data condivisa da tutti gli italiani. Il merito di questo risultato spetta a Silvio Berlusconi, al discorso da lui tenuto ad Onna ed anche - diciamolo - a Dario Franceschini segretario del Pd, che con il suo pressante invito ha incitato il premier a render possibile un evento così importante.


Berlusconi aveva dinanzi a sé tre alternative: ignorare l'invito di Franceschini; accoglierlo per marcare a modo suo la celebrazione equiparando la Resistenza con coloro che si erano schierati a fianco del regime fascista di Salò, uniti entrambi dall'amor di patria; dare atto che Liberazione e Resistenza sono stati un tutto unico dal quale è nata la nostra Costituzione repubblicana, fermo restando il rispetto per tutti i caduti, anche di coloro che in buona fede scelsero la parte sbagliata.


Con il suo discorso di Onna Berlusconi ha scelto questa terza soluzione ed è quindi doveroso dargliene atto. Si potrebbe (e non mancherebbero gli argomenti) fare un'analisi dei moventi che l'hanno spinto a imboccare quella strada, ma sarebbe riduttivo. I fatti del resto hanno un loro linguaggio che esprime la realtà e la realtà è questa.


Berlusconi ha raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che non lo amano, quelli che hanno fiducia e quelli che ne diffidano, quelli che condividono il suo "fare" e quelli che l'avversano.


Noi siamo tra questi ultimi ma riconosciamo che una svolta è stata compiuta, sia nella valutazione storica della Liberazione e della Resistenza, sia nel riconoscimento dei principi sui quali si regge la Costituzione, sia sul ruolo delle forze politiche che contribuirono alla rinascita democratica e che nel discorso di Onna sono state tutte nominate a cominciare dai comunisti, ai socialisti, ai democristiani, ai liberali (anche se l'ipotesi di cambiare il nome della celebrazione in quello di "Festa della Libertà" è certamente una proposta contro la memoria che indebolisce notevolmente le osservazioni precedentemente fatte).


La fermezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha giocato un ruolo determinante nella svolta berlusconiana; un altro elemento da non sottovalutare sarà pur venuto dalla posizione di Gianfranco Fini. La svolta è comunque avvenuta. Bisogna ora vedere se i seguiti saranno conformi al nuovo inizio e intanto rallegrarsene.


Dunque tutto bene? Il tessuto democratico del paese si è rafforzato? Si aprirà finalmente una dialettica operosa tra governo ed opposizione?


Aldo Schiavone, in un articolo pubblicato ieri su "Repubblica" ha risposto anticipatamente a queste domande partendo dalla constatazione che in tempi di emergenza la spinta populista è un dato di realtà dal quale sarebbe sbagliato prescindere.


Ci sono vari modi di affrontare questa deriva. Quello di Berlusconi, secondo il giudizio di Schiavone, consiste nel "rendere istituzionale la spinta populista, prolungarne e dilatarne gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, alimentare un rapporto fideistico tra il leader e il 'suò popolo, marginalizzare tutte le altre forme di rappresentanza a cominciare dalla divisione dei poteri e dalle autorità di garanzia come inutili impacci. Un Capo che sceglie e decide per tutti: è un modo di stressare la democrazia radicandola su una sola delle sue componenti".


Ebbene la svolta berlusconiana di ieri, della quale abbiamo già segnalato gli aspetti positivi, non ci libera affatto da quelli negativi. Al contrario, li alimenta con nuova linfa rendendoli ancor più attuali e pericolosi. Diventa sempre più incombente la costruzione, già da tempo avviata, d'una nuova costituzione materiale all'ombra della Costituzione vigente, cioè una sua interpretazione che ne stravolge il senso riducendola ad un reperto fossile.


Un'operazione del genere fu già compiuta nel corso della Prima Repubblica. Avvenne tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta; un ventennio nel corso del quale i partiti assorbirono le istituzioni, il governo si identificò con lo Stato, la democrazia si trasformò in partitocrazia, gli apparati politici confiscarono la pubblica amministrazione e taglieggiarono sistematicamente le imprese.


La costituzione materiale partitocratica fece del Capo dello Stato un'autorità di second'ordine, esercitò un'influenza determinante sulla magistratura inquirente e giudicante, costruì l'impunità del potere e di chi lo impersonava. Le forme vennero scrupolosamente rispettate ma la sostanza fu invece sconvolta e manomessa.


La stagione di Tangentopoli interruppe e anzi sembrò avere distrutto la partitocrazia. Cominciò allora la transizione verso la Seconda Repubblica che adesso ha infine assunto le sue caratteristiche con la costruzione di una nuova costituzione materiale molto diversa dalla precedente.


Non sono più i partiti a monopolizzare il potere, ma un leader con il manipolo dei suoi più stretti collaboratori. Un leader antipolitico e sostanzialmente antiparlamentare, gestore sapiente del sistema mediatico, identificato con la ricerca ossessiva del consenso da trasformare giorno per giorno in plebiscito e da contrapporre a tutte le mediazioni e a tutto il sistema delle garanzie.


La svolta di ieri ha rappresentato dunque un rilevante passo avanti e un ulteriore passo indietro di fronte alla democrazia partecipata. Passo avanti - l'abbiamo già detto - verso la pacificazione del Paese rispetto a quanto accadde sessant'anni fa. Passo indietro verso il populismo autoritario.


Se l'asse portante della nostra Costituzione consiste nella divisione dei poteri, l'essenza della costituzione materiale berlusconiana è nell'unificazione dei poteri in una sola mano. Esecutivo, legislativo e giudiziario intestati al leader attraverso una prassi ed una serie di norme che la consolidano e la presidiano trasformandola in consuetudine.


Il presidente Napolitano ha avvertito da tempo questa deriva e l'ha più volte segnalata con la discrezione che lo distingue. Più di recente deve aver avvertito che la crescita della nuova costituzione materiale stava per oltrepassare una soglia oltre la quale sarebbe diventata irreversibile per un lungo arco di anni ed ha ritenuto che il tema dovesse essere affrontato di petto. L'ha fatto pochi giorni fa inaugurando il festival della democrazia a Torino e indicano i principi che costituiscono il fondamento della democrazia repubblicana: lo stato di diritto, la divisione dei poteri, il ruolo indispensabile delle autorità di garanzia, il vigile rispetto della legalità costituzionale, il rafforzamento del potere esecutivo e dei poteri di controllo del Parlamento. I punti di riferimento culturali di questa visione configurano una democrazia liberale che ha i suoi autori in Montesquieu, Tocqueville, Croce e Luigi Einaudi. La "fantasia al potere" - che tanto piace a Berlusconi e ai suoi mentori - non trova posto in questa visione e rappresenta il culmine della modernità occidentale.


Se volessimo raffigurare le due versioni contemporanee e contrapposte di due leader carismatici, facciamo i nomi di Berlusconi e di Barack Obama, con tutte le differenze di scala da essi rappresentate.


C'è un freschissimo esempio della "fantasia al potere" o meglio della "follia positiva" stando all'autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier, ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall'isola della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell'Aquila. Un colpo di scena suggerito da Bertolaso, sottosegretario alla Protezione civile e ai Grandi eventi e fatto proprio da Berlusconi con entusiasmo all'insaputa dello stesso governo da lui presieduto.


Le motivazioni di questo "coup de théâtre" sono quattro: le minori spese, il desiderio di mettere i potenti della terra a diretto contatto con una catastrofe naturale, la possibilità di elevare il caso Abruzzo dal livello nazionale a quello mondiale, la maggiore sicurezza del "meeting" tra le montagne abruzzesi rispetto alle sedi navali che l'avrebbero ospitato alla Maddalena.


È sufficiente un sommario esame per capire che si tratta di motivazioni infondate.


Le spese per realizzare il G8 alla Maddalena sono state tutte in grandissima parte già fatte (anche se ancora debbono essere pagate). Gli impianti previsti saranno comunque portati a termine. Nessun risparmio da questa parte sarà dunque realizzato. Il grande albergo a cinque stelle costruito nell'isola sarda resterà come una delle tante cattedrali nel deserto, di sperpero del denaro pubblico e di cementificazione di uno degli arcipelaghi più belli d'Europa. Il risparmio sulle spese navali rispetto a quelle aquilane sarà minimo, invece delle navi alla fonda bisognerà mobilitare una flotta di elicotteri che faccia la spola tra Roma e l'Aquila.


I potenti della terra hanno purtroppo larga esperienza di catastrofi naturali, in Giappone, in Louisiana, in Florida, in California, in Russia, in India, in Cina, in Turchia. Insomma nel mondo intero.


Portare il caso Abruzzo all'attenzione del mondo affinché dia una mano per risolverlo è risibile. C'è l'intero continente africano che è di per sé una catastrofe, per citare un solo caso tra tanti.

La sicurezza contro i No Global. Non metteranno piede all'Aquila, l'hanno già detto. Ma faranno altrove le loro prove. Speriamo vivamente che siano prove puramente dimostrative. Se comunque, come scopre ora Bertolaso, garantire sicurezza alla Maddalena era un compito così arduo, ci si domanda adesso perché fu scelta quella località.


Forse Bertolaso ha troppe cose da fare: la protezione contro le catastrofi, i rifiuti dell'immondizia, la progettazione ed esecuzione dei grandi eventi. Il tutto non solo sulle sue spalle ma sulle strutture della Protezione civile. Che non stia nascendo, sotto la leadership politica di Berlusconi, una leadership tecnocratica di Bertolaso? Non credo che i vertici negli altri paesi siano affidati alla Protezione civile. Li curano i ministri dell'Interno, i Servizi di sicurezza, le forze della sicurezza pubblica. Che c'entra la Protezione civile? I pompieri che ne costituiscono l'ossatura?

Bertolaso, racconta il generale della Finanza, Lisi, che lo vede lavorare nella sua scuola, "lavora notte e giorno, non dorme, è una fucina di iniziative, non è un uomo ma un miracolo".

Forse se si concentrasse su uno solo dei suoi tanti compiti eviterebbe alcune disfunzioni che stanno emergendo in questi giorni e che i terremotati vivono sulla loro pelle.

No, neanche Bertolaso è infallibile. Quanto ai miracoli, beati i paesi che sanno farne a meno.






la Repubblica(26 aprile 2009)


3 commenti:

  1. APPROPIAZIONE INDEBITA. Titolo veramente azzeccato!

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  2. il mio non è un commento ma uno sfogo.

    Non ne posso più di vedere questo ometto (camperà fino a 2oo anni .... ne sono sicura) con quel pratino in testa ( anche il ministro della Giustizia va dallo stesso parrucchiere ??) e ora con quel foulard al collo ... Non ne posso più dei suoi piani, delle sue promesse, delle sue azioni, del suo tono di voce e della sua non altezza.

    Mi sfogo come mamma di una bimba di appena 3 mesi... che sta comincinado a dire: n'ghè .. e che quando mi chiederà mamma perchè ??? .. perchè ??? e .. ma chi è quello li ??? so già che non saprò rispondere. sob. (scusa per lo sfogo)

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  3. Sergio, GRAZIE!!!!

    sansiore, va benissimo lo sfogo che tra l'altro pone un serio problema. Pure io, com'è ovvio, non ne posso più, ma parafrasando il titolo di un celebre film di Comencini. "I bambini ci chiederanno" e noi saremo molto imbarazzati nelle risposte.

    Mentre da qualche parte ne dovranno rispondere quegli sciagurati che lo hanno votato.

    Sfogati ancora qui. Sempre la benvenuta.

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