mercoledì 10 febbraio 2010

Il villano







Apro “il Fatto” e leggo che: il senatore Dell’Utri ammette, in un’intervista a Beatrice Borromeo, di essersi candidato per sfuggire alla galera; che il papi superottimista se la spassa acquistando la 28ª villa e che in Iran sono irritati (chiaro eufemismo) con lo stesso plutocrate, tanto da assaltare l’ambasciata italiana al grido di “Morte all’Italia e morte a B.”. Solo per quest’ultimo afflato di entusiasmo mi verrebbe da proporre gli “attaccanti” per la cittadinanza italiana (e il conseguente diritto di voto). Magari è la volta buona che…


L’attenzione si è concentrata sul carrello che ha riempito il papi (il papi-carrello cioè) e il disgusto ormai incontenibile per lui e i suoi servi più bavosi che mai. Tra costoro colloco naturalmente quei milioni di connazionali che hanno permesso questo scempio e che non potranno mai essere miei amici. Triste doverlo ammettere ed è anche questo un segno dei tempi cupissimi che stiamo vivendo.


 



VE LA DO IO LA CRISI


L’Italia è al palo? E B. si regala la reggia n° 28 del suo parco. Il tesoro Fininvest e il record su “Forbes”: la chiamano politica.


di Gianni Barbacetto


 


Il suo ultimo acquisto, Villa Gernetto di Lesmo, in Brianza, è la dimora numero 28, ultima di una serie che parte da Villa San Martino ad Arcore, passa per Villa Belvedere a Macherio, Villa Certosa in Sardegna, Villa Campari a Lesa sul Lago Maggiore, e arriva fino alle ben sette ville caraibiche di Antigua. È chiaro che l’ottimismo di Silvio nei confronti della crisi è giustificato: gli affari, a lui, vanno a gonfie vele. La classifica di Forbes gli attribuisce oggi un patrimonio personale di 6,5 miliardi di dollari (4,7 miliardi di euro) che lo rende il 2° uomo più ricco d’Italia (lo batte solo Michele Ferrero, della Nutella) e il 70° nel mondo. In ascesa: ha scalato ben venti posizioni rispetto alla classifica dell’anno precedente. Il suo gruppo, a valori di Borsa, anche in un periodaccio come quello che stiamo vivendo, pesa 6 miliardi di euro. Un tesoro custodito da sette holding che controllano l’intero capitale Fininvest, il quale a sua volta controlla la maggioranza di Mediaset, Mondadori, il Milan e una bella fetta del gruppo Mediolanum. Il malloppo è stato diviso tra i figli nel 2005. A ciascuno poco più del 7% di Fininvest, attraverso la Holding Italiana Quarta (Marina), Quinta (Pier Silvio) e Quattordicesima (Barbara, Eleonora, Luigi). A Papi resta saldamente in mano il restante 64%, oltre alla collezione di ville, proprietà personali e diritti cinematografici collocati nelle società Dolcedrago e Idra, anche se ora il “divorzio per colpa” potrebbe rimettere tutto in discussione.


Quello che non si discute è la progressione geometrica con cui Silvio ha accresciuto la sua ricchezza nei 15 anni di attività politica. Era partito nel 1993 in una situazione quasi disperata. Finita la fase espansiva degli anni Ottanta, il mercato della pubblicità televisiva era entrato per la prima volta in affanno. Nello stesso tempo, per la prima volta era filtrata all’esterno la gravissima situazione debitoria della Fininvest. Dopo voci e indiscrezioni, il tradizionale rapporto di Mediobanca del 1993 calcola che i debiti del gruppo Berlusconi raggiungono nel 1992 quota 7.140 miliardi di lire (2.947 a medio e lungo termine, 1.528 di debiti finanziari a breve, 2.665 di debiti commerciali). Cifre pesanti che peggiorano nel ‘93, anche per gli alti tassi di interesse e la fine dell’aumento degli introiti pubblicitari, per la prima volta in “crescita zero” dopo anni di boom ininterrotto. Anche fermandosi ai 4.475 miliardi di indebitamento finanziario calcolato da Mediobanca e mettendolo in rapporto con i 1.053 miliardi di capitale netto, si arriva alla conclusione che la Fininvest, nel 1993, ha 4,5 lire di debiti per ogni lira di capitale.


La situazione d’allarme è tale che le banche più esposte con Fininvest (Comit, Cariplo, Bnl, Banca di Roma, Credit) chiedono a Berlusconi il risanamento del gruppo e gli impongono un “commissario”, Franco Tatò, come amministratore delegato. Contemporaneamente, cadono i padrini politici di Berlusconi e le inchieste giudiziarie di Mani Pulite cominciano a lambire i manager del Biscione. È in questo clima terribile che Silvio, come un giocatore di poker sull’orlo del tracollo, rilancia, rischia tutto, osa l’impensabile. Sul fronte politico s’inventa in pochi mesi un partito. Sul fronte aziendale, vara il “progetto Wave”, cioè la quotazione in Borsa del gruppo e la nascita di Mediaset.


Il cammino si conclude nel 1996, con i “comunisti” (così li chiama Silvio) al governo. Nel prospetto di collocamento in Borsa depositato in Consob nel giugno 1996 c’è un paragrafo (forse non a caso il numero 17) in cui sono elencate quattro pagine di “procedimenti giudiziari e arbitrali”. Un elenco di guai giudiziari che si conclude così: “La Società non può escludere che sui corsi delle azioni Mediaset possano influire sia un eventuale esito negativo dei suddetti procedimenti, inclusi quelli relativi all’azionista di controllo, sia l’attenzione da parte dei mezzi di comunicazione”. Il documento accenna con una sola riga al più delicato dei “suddetti procedimenti”, quello per il presunto falso in bilancio Fininvest contestato per via del sistema di società estere del gruppo, la “Fininvest Group B - very discreet” messo in piedi dall’avvocato Mills. La Fininvest ombra, a cui saranno dedicate inchieste e processi a ripetizione, fino a oggi. Con l’accusa di aver gonfiato artificialmente i valori dei diritti cinematografici e quindi, forse, il valore reale dell’azienda. Ma niente paura. Non si allarma la Consob, né il governo in carica (Prodi). Ai leader del centrosinistra, e in particolare al segretario ds D’Alema, in quel ‘96 preme instaurare un rapporto disteso con Berlusconi, con il quale mettere in cantiere le riforme della Bicamerale.   


Così Mediaset entra trionfalmente in Borsa e il mercato risolve i drammatici problemi finanziari di Berlusconi. Sei mesi dopo la quotazione, inizio del 1997, la Fininvest ha una posizione finanziaria netta positiva e 500 miliardi di lire di liquidità in cassa. Silvio, rilegittimato politicamente da D’Alema come “padre costituente”, vince le elezioni europee e regionali, ricostruisce l’alleanza con Bossi e Fini e s’avvia verso il trionfo elettorale del 2001. Poi arriva la serie infinita di leggi su misura – la più rilevante: la legge Gasparri sulle tv – che fanno di Silvio l’uomo vincente di oggi, che colleziona ville, aumenta il patrimonio, scala venti posti in un anno della classifica di Forbes. Alla faccia della crisi.


(10 febbraio 2010)




“Altro che presidente operaio: per lui le ville, noi sui tetti delle fabbriche”


DALLA YAMAHA ALLA CHIMICA: LA RABBIA DEI LAVORATORI DELLA “BRIANZA FELIX” STRITOLATI DALLA CRISI...


di Elisabetta Reguitti




Il premier compra ville e gli operai cassintegrati della Brianza osservano incazzati. In particolare quelli della Yamaha di Lesmo che sono dovuti salire sul tetto (per 10 giorni a meno 12 gradi) solo per riuscire a ottenere un loro diritto prima del baratro del licenziamento: la cassa integrazione straordinaria per 70 persone che oggi vivono con un assegno di 700 euro. La loro azienda sorge proprio a metà strada tra Arcore e la nuova reggia settecentesca di Villa Gernetto. “Durante i nostri giorni di presidio vedevamo sfrecciare le auto blu della scorta di Berlusconi – racconta Angelo Caprotti. Quante volte abbiamo pensato che almeno si fermasse. Perché avremmo avuto molte cose da dirgli”. È un fiume in piena Angelo. È quasi impossibile fermare il suo racconto davvero paradossale pensando che la Yamaha aveva bilanci in attivo o di come il comune di Lesmo avesse persino regalato una strada e un’area per i parcheggi (in cambio della salvaguardia occupazionale) a questa multinazionale che invece da un giorno all’altro ha deciso di trasferire la produzione all’estero. Sono in molti a chiedersi che cosa abbia fatto il presidente del Consiglio per evitare tutto ciò; colui che viene considerato il cittadino più potente in questa zona d’Italia definita il quarto polo industriale d’Europa con un’impresa ogni 11 abitanti. Dove oggi però le fabbrichette sono in ginocchio: 30 mila posti a rischio tanto per intenderci.


Angelo Caprotti ha 51 anni e si sente senza futuro. Lui e la moglie lavoravano alla Yamaha. Sei mesi fa hanno perso l’unico figlio 21enne. “Cosa mi rimane dopo che abbiamo anche perso il lavoro? Berlusconi mi vuole spiegare cosa ce ne facciamo noi operai senza stipendio dell’Università del pensiero Liberale?”. Angelo non capisce come il governo non sia in grado di opporsi alle scelte aziendali di chiudere e trasferire come se niente fosse le imprese. Qualche mese fa, ad esempio, un artigiano del legno di Nova Milanese si è tagliato le vene dopo aver consegnato la disperazione a un bigliettino lasciato alla famiglia: “Non ce la faccio più”. E dopo poco un piccolo imprenditore di Ronco Briantino - settore delle slot machine - si era impiccato per sfuggire agli usurai. Sull’orlo di una crisi di nervi, oltre agli operai quindi ci sono anche tanti piccoli imprenditori. La Brianza, regno del manifatturiero, è arrivata all’appuntamento con la crisi dopo le delocalizzazioni nei paesi low cost che ogni giorno infliggono ferite. Il chimico, ad esempio: 72 i marchi in difficoltà, anche qui si tratta di multinazionali, Rhodia, Uquifa. Segue il tessile con 67 imprese, Frette e Cabor in cima alla lista. Non si salva nemmeno il legno con le 52 ditte che frenano. Sulle barricate i lavoratori con reddito dimezzato dalla cassa integrazione. A tutto ciò è interessante però aggiungere la testimonianza di Moreno Rezzano della Fiom Cgil di Lesmo che racconta come durante un presidio di lavoratori al mercato di Macherio alcuni passanti rivolgendosi ai manifestanti chiedessero: “Ma perché protestate? La tv dice che la crisi è finita. Si vede che non avete altro di meglio da fare”. Che dire? Ci sarebbe molto da dire. Di certo quello che le televisioni di Silvio Berlusconi non raccontano.


(10 febbraio 2010)


 


 


 

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