lunedì 26 gennaio 2009

Il sole oltre la siepe

Giovedì 22 gennaio 2009










La domenica della carta stampata è tradizionalmente dedicata agli editoriali delle firme illustri. Almeno così fanno “la Repubblica” e “La Stampa” che affidano alla tastiera (una volta si usava l’ormai obsoleta penna) di Eugenio Scalfari e Barbara Spinelli il compito di porre riflessioni nel giorno di festa. Mi pare opportuno citare gli articoli di entrambi. In particolare il pezzo, esemplare, di Barbara Spinelli me lo ha suggerito la cara Harmonia e devo convenire che è impeccabile. Anche l’ex direttore de “la Repubblica” ha scritto di Barack Obama, pur trattando di altri argomenti. Insomma una domenica iniziata nel segno dell’intelligenza che però si conclude con l’eco delle ennesime sciocchezze pronunciate in terra sarda da un capo di governo in perenne campagna elettorale. Ma in quale altro paese sarebbe tollerabile un simile comportamento? Quanto durerà questa nebbia che offusca le menti, tanto simile ad un colpo di Stato mediatico?


Gli Stati Uniti si aprono alla speranza, mentre da noi un mediocre guitto da avanspettacolo si concede battute da caserma, senza il minimo sospetto di apparire ridicolo, insulta quella degna persona che è Renato Soru e propala una bufala (su un presunto archivio) che servirà solo a deviare l’attenzione della cosiddetta “opinione pubblica”. E allora io me la prendo anche con tutti quegli sciagurati che lo hanno votato, nonché con l’informazione televisiva che è ormai stata infettata dal virus e si ritrova a far da megafono alle stupidaggini dell’omino B., tessera P2 n° 1816 e dei suoi compari.



 





Obama e la maestà della legge


        


BARBARA SPINELLI


 


Sin dal primo giorno del proprio mandato, Barack Obama ha fatto capire qual è la sua idea di emergenza, e cosa significa nella storia delle democrazie liberali. I dizionari spiegano che l’emergenza è una situazione di pericolo o crisi inaspettata, nella quale le pubbliche autorità si mettono in allarme e assumono poteri speciali. Per Carl Schmitt, che negli Anni 20 e 30 teorizzò la superiorità del potere assoluto sullo stato di diritto, l’eccezione è «più interessante» del «caso normale»: quest’ultimo è fatto di procedure ripetitive, che intralciano la capacità decisionale del vero sovrano. La vera autorità «non ha bisogno della legge per creare legge». Essa crea proprie leggi, piegando procedure e costituzioni al proprio buon volere e al mondo nuovo che promette: le sue leggi, di volta in volta ad personam o ad hoc, instaurano lo stato di pericolo e sospendono routine normative ritenute inani. Al posto della fiducia si inocula nel popolo la paura. Nel continente della libertà si dilata lo spazio della necessità. Riprendendo Hobbes, Schmitt conclude che non la verità «fa la legge» ma l’autorità, rivelata e temprata dalla situazione limite (Grenzfall).


Precisamente questo è accaduto nei due mandati dell’amministrazione Bush, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001: la Costituzione è stata sottomessa alle esigenze del principe e all’accentramento del potere presidenziale. A dominare non era più l’imperio della legge (la rule of law) ma il sovrano e la contingente ideologia da esso incarnata. La prigione extraterritoriale di Guantanamo, dove non valgono le leggi costituzionali americane; le commissioni militari che senza garanzie giuridiche esaminano i detenuti; l’uso della tortura; l’abolizione dell’habeas corpus, ovvero del diritto (risalente al 1679) che ciascuno ha di conoscere i motivi della propria detenzione: queste le misure che hanno trasformato centinaia di prigionieri in animali cui è stato sequestrato il corpo, come direbbe Foucault.


Obama ha messo fine a tali arbitrii, che aboliscono l’equilibrio tra i poteri voluto dal pensiero liberale. Ed è importante che sia il suo primo gesto, perché qui è la vera urgenza dei giorni nostri, non solo negli Stati Uniti. La vera emergenza è l’idea stessa di un’emergenza continua, abbinata alla promessa di rottura col passato e al proliferare di leggi ad hoc: l’esempio statunitense ha rafforzato in molte democrazie questa mistificazione emergenziale-rivoluzionaria. È stata una loro regressione infantile, fondata sulla convinzione che la democrazia non avesse una storia lunga, fatta di norme e routine, ma fosse una pagina tutta bianca da colorare a piacimento. Il principe-bambino fa quel che crede, immaginandosi onnipotente. Ritorna allo stato precedente la separazione dei poteri di Montesquieu, quando il potere che s’espande abusivamente non è ancora fermato da altri poteri. In un passaggio chiave del discorso inaugurale, il 20 gennaio, Obama ha citato la prima lettera di Paolo ai Corinzi (13,11): «Rimaniamo una nazione giovane, ma come nelle parole della Scrittura, è venuto il tempo di metter da parte le cose infantili».


«Divenir uomo» consiste nel ritorno alla norma, nella scoperta del proprio limite, nell’abbandono della speciale arroganza unita a ignoranza che caratterizza l’infanzia. Non sarà facile, perché l’America resta ufficialmente in stato di guerra con il terrorismo, nonostante la volontà presidenziale di «tendere la mano a chi vuol aprire il proprio pugno». Anche se la guerra continua tuttavia, occorre restar fedeli alla Costituzione e alla separazione dei poteri. Occorre far capire al mondo che i prigionieri di Guantanamo saranno correttamente giudicati, che l’America non torturerà né a Guantanamo né in prigioni segrete sparse nel mondo. L’inverno dell’avversità cui ha accennato Obama esige la restaurazione della rule of law: «Noi respingiamo come falsa la scelta fra la nostra sicurezza e i nostri ideali».


È una presa di posizione al tempo stesso morale e pratica. La tortura di prigionieri privati di habeas corpus non ha facilitato la guerra al terrorismo, ma l’ha complicata e invalidata. I video di Abu Ghraib sono usati da Al Qaeda come efficacissimo mezzo di reclutamento. Neppure in stato d’estremo pericolo (la bomba a orologeria che può esser sventata ricorrendo alla tortura) le leggi d’eccezione sono utili. In Italia se ne discusse nell’estate 2006: ci furono intellettuali e editorialisti democratici che aprirono alla tortura, pensando che l’ineluttabile spirito dei tempi fosse ormai questo.


Sono tanti gli studi che sostengono che la tortura, oltre a essere immorale in ogni circostanza, è probabilmente inservibile. Essa rende più difficile la cooperazione internazionale, perché le confessioni estorte sono inutilizzabili da inquirenti e tribunali. Il giudice spagnolo Garzón è di quest’opinione, e ha inoltre accusato le autorità Usa di tener nascosti in prigioni segrete testimoni essenziali per chiarire l’attentato del 2004 a Madrid. Peter Clarke, ex capo della polizia antiterrorista inglese, ha detto all’Economist nel luglio scorso: «Ogni evidenza raccolta a Guantanamo è inammissibile». Un uomo umiliato, cui si infligge l’annegamento simulato (waterboarding), confessa ogni sorta di bugia. David Danzig in un articolo su Huffington Post del 22 gennaio ricorda come i maggiori successi siano stati raggiunti da un’«arte dell’interrogatorio» che rifiuta la violenza, e preferisce l’astuto colloquio con pentiti e perfino con combattenti: Saddam Hussein e al-Zarqawi, ex capo di Al Qaeda in Iraq, furono scovati così.


Non sarà semplice smantellare le tante leggi ad hoc create nell’emergenza terrorismo, in America ed Europa. Perché sono leggi che lavorano nel buio, aggirando perfino sentenze delle Corti Supreme come quella statunitense, che ha restituito ai prigionieri l’habeas corpus. Non è semplice perché ancora deve esser affrontata la questione fondamentale: è veramente guerra quella che viviamo? e se lo è come chiamare l’avversario? E se non è guerra cos’è? Nemmeno Obama ha la risposta, che pure gli toccherà dare senza attendere altri sette anni. E ancor meno sanno rispondere i governi europei, che adottano leggi emergenziali d’ogni tipo (sul terrorismo e sull’immigrazione) evitando furbescamente di dichiararsi nazioni in guerra. Siamo lontani, qui, dalle autocritiche americane. Tony Blair, che ha mimato ogni mossa e ogni disastro di Bush, ancora non è chiamato alla resa dei conti.


Ma qualcosa è cominciato, con una prontezza che fa onore a Obama. Qualcosa comincia a esser detto: che essere uomini adulti in democrazia vuol dire rispettare leggi antiche, messe alla prova in situazioni ben più difficili di quella presente. Che il sovrano capriccioso e falsamente decisionista ha un comportamento immaturo. Che le tradizioni giuridiche contano: quelle racchiuse nelle costituzioni e quelle iscritte in leggi internazionali che Bush ha sprezzato, come la convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri. L’ansia di innovare a tutti i costi può esser letale, in democrazia. Il mito della «rottura» si sfalda. «Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza», ha detto Obama ai connazionali. Non a caso martedì li ha apostrofati in maniera inedita: invece di My fellow Americans, li ha chiamati My fellow citizens.


La questione morale coincide con il ritorno alla cultura della legalità, in America come in Europa. È la più grande necessità del momento: non si restaurerà una duratura fiducia tra governati e governanti, senza riconversione all’imperio della legge. Non si risaneranno l’economia, la politica, il clima. L’alternativa è chiudersi in belle bolle e ignorare i fatti: anche la bolla è qualcosa di molto infantile, che brilla di tanti colori fino a quando (inaspettatamente per i bambini) esplode.


 


La Stampa (25 gennaio 2009)


 






(…) non voglio esimermi da un cenno preliminare che riguarda le prime iniziative del nuovo presidente degli Stati Uniti.


Ha preso tempo fino a febbraio per presentare un piano anticrisi di 825 miliardi di dollari cui seguiranno - ha annunciato - altri stanziamenti con l'obiettivo di creare nuovi posti di lavoro e un consistente sostegno dei redditi falcidiati dalla crisi. Nel frattempo ha marcato con provvedimenti immediati una profonda discontinuità rispetto alla politica del suo predecessore.


In politica estera ha messo al primo posto in agenda il tema del Medio Oriente chiamando a raccolta i protagonisti: Israele, Palestinesi, Paesi Arabi, Iran. Ha teso la mano all'Iran. Ha ribadito la lotta al terrorismo e l'importanza del fronte afgano. Ha dato inizio alla procedura per il ritiro delle truppe dall'Iraq.


Fin dal primo giorno ha abolito la tortura praticata in molte carceri speciali gestite dalla Cia. In tema di diritti ha ripreso i finanziamenti per la ricerca sulle cellule staminali ricavate dagli embrioni ed ha riconosciuto alle donne la responsabilità primaria di decidere sul proprio aborto.

Barack Obama è profondamente religioso ma la sua fede non gli ha impedito di iniziare una politica dei diritti profondamente laica. L'uomo di fede si raccoglie spesso in preghiera nella sua chiesa, ma il presidente degli Stati Uniti tutela i diritti fondamentali come prescrive la Costituzione del suo Paese alla quale ha giurato fedeltà.


Ecco un esempio che ci viene da una grande democrazia e che ci auguriamo serva da punto di riferimento per tutti. (…)


Eugenio Scalfari


 


la Repubblica (25 gennaio 2009)


4 commenti:

  1. Interessante, come sempre :). Hai sentito le ultime esternazioni di Cossiga a proposito di Obama? A presto, G.

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  2. Honissima, mi devo essere perso qualcosa. Cercherò le ultime ondate di delirio. Piuttosto: prepariamoci, perchè gli attacchi a Obama si moltiplicheranno. E' proprio partito in quarta. Wow

    Grazie :-)

    Ciao :-)

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  3. OT: Franck, soltanto quando visito questo sito esce una curiosa finestra in cui è scritto "out of memory at line:1 " Mi potresti spiegare cosa significa? Grazie:-)

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  4. ross1, non ne ho la minima idea. E' la prima volta che mi viene segnalato. Chiederò alla redazione. Ma ti capitava anche prima?

    Saluti cari :-)

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