lunedì 10 dicembre 2007

Lacrime e sangue


Pietro Ingrao. Il grande vecchio comunista, autenticamente doc. Ho colto in un tg le frasi pronunciate dal palco oggi ed era un parlare che assumeva valore e significato.  Mi sono accorto, così, che stavo lì ad ascoltare con attenzione. Il vecchio comunista misurava ogni frase ed io calibravo la mia concentrazione su quelle frasi, perché non erano il frivolo eloquio, da macchietta televisiva, che i leader (abusivi) dispensano quotidianamente in ogni telegiornale che passa in tv, ma rappresentavano sostanza e forse anche la speranza (vorrei conservare la speranza) che possa rinascere una vera sinistra senza tanti orpelli e con il colore rosso vivo, sotto la falce e il martello, strumenti che trascendono il mero simbolismo. Almeno che possa sognare ancora un po’.


La sua conversazione-intervista su “il manifesto” dell’8 dicembre testimonia lo spessore dell’uomo e del politico. C’è tutto, proprio tutto quello che avrei voluto ascoltare sulla strage in fabbrica, che nessuna delle tante edizioni dei tg nostrani ha riportato.


 


«Il silenzio del potere»


Pietro Ingrao si interroga sul rapporto tra il lavoro, la vita, la morte. Sulla strage di Torino pesa la mancata risposta


Loris Campetti


Pietro Ingrao è un compagno della vecchia scuola, uno abituato a ragionare sui fatti, a scavare dentro le notizie, non si lascia andare con facilità. Se ti dice «sono proprio incazzato», se usa un termine per lui inusuale, più normale nel linguaggio di un ragazzo che di un comunista serio e attento a ogni messaggio, sempre attraversato dal dubbio, vuol dire che è proprio incazzato. Ma si ricompone subito: «Sono turbato per queste morti, è un sentimento elementare il mio. Siamo ancora qui, a parlare del problema di sempre, di questi eventi tragici che si ripetono». Quale sia «il problema», l'indomani della strage di Torino, è ovvio. E Ingrao spiega così il suo turbamento: «E' l'intreccio tra il lavoro e la morte, e le forme della morte, la sua atrocità». Vuole sapere tutto Pietro, ogni particolare sulla dinamica che ha trasformato dieci lavoratori in torce umane: le macchine surriscaldate, tirate fino a scoppiare; gli uomini superspremuti, sfruttati fino a morire bruciati. La scintilla, l'olio che brucia e il tubo spezzato che spara fuoco addosso ai lavoratori, alle macchine, all'intero reparto. Uccisi - già due mentre discutiamo con Pietro Ingrao, che salgono a tre subito dopo - da un tubo trasformato in un lanciafiamme. Come in guerra, una guerra antica come il lavoro e insieme modernissima. «Qui e ora, nell'Occidente sviluppato, non nello Shanxi» dove i minatori scavano e muoiono come topi per un'esplosione di grisù, «non in un angolo dell'Africa. A Torino, città d'avanguardia, la capitale dell'industria».


Andiamo per ordine. Pietro vuole parlare del «prezzo del lavoro». Trova «offensivo», prima ancora che intollerabile, che la direzione della ThyssenKrupp abbia chiesto ai suoi operai di riprendere il lavoro nei reparti attigui a quello bruciato, solo 24 ore dopo il disastro. Ma c'è una cosa, in particolare, che fa soffrire un uomo che oltre a essere stato un dirigente politico comunista, ha ricoperto una delle più alte cariche dello Stato, come presidente della Camera: «Non c'è stato uno scatto nel paese, nelle istituzioni non ho sentito un allarme per questi eventi che si ripetono. Sento rabbia per questo mancato allarme da parte di chi comanda, di chi tiene il potere. Ma cosa deve ancora succedere perché su questo tema antico del rapporto uomo-fatica, un potere costituito si turbi, si preoccupi, si domandi "che dobbiamo fare"»? Insiste, Pietro, sulla dinamica dei fatti, e si chiede come sia possibile che un giovane di 36 anni possa lavorare 12 ore consecutive «in quell'inferno», in una fabbrica che sta per chiudere ma i cui padroni pretendono di togliere anche l'ultima goccia di sangue ai loro dipendenti prima di trasferire in Germania la produzione. Ma è ancora la risposta «ordinaria» delle istituzioni, del potere, a farlo soffrire: «Non mi sarei sorpreso, né scandalizzato, se le due assemblee politiche di questo paese, Camera e Senato, avessero di colpo troncato il loro lavoro per aprire il dibattito sull'evento torinese, non foss'altro per parlare da lontano a coloro che stavano morendo o rischiavano ancora la morte». Sembra passato un secolo da quando il «compagno presidente» della Camera andava a discutere con il consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza, un luogo dove si alimentò un approccio nuovo e straordinario, figlio del lavoro di Maccacaro, al rapporto tra uomo, lavoro e salute. Quella visita rappresentò forse il punto più alto del rapporto tra movimento operaio e istituzioni in Italia. «E' vero, mi ricordo, lo puoi scrivere», e si schernisce quando gli chiedo perché non l'abbia ricordato nel suo libro di memorie.


Il potere, e i poteri, non rispondono con forme e contenuti all'altezza della gravità del problema. I grandi giornali ieri aprivano con la «sicurezza», ma quella del governo che guarda ai rumeni come un pericolo e non guarda ai lavoratori come vittime. E il giornale della Confindustria che dedica all'esplosione della ThyssenKrupp un semplice richiamo di prima. Ingrao si chiede da cosa sgorghi «questo rumoroso silenzio», e perché «il cupo evento» non venga raccolto «dalla massa vivente del paese, in primis dalla sua rappresentanza politico-sociale». Un «evento materialmente rovinoso che sta lì a ricordarci amaramente cos'è ancora, all'inizio del terzo millennio, l'atto lavorativo - la condizione del soggetto lavorativo. E' un triste segnale di come ancora oggi sia terribile, incerta, precaria, questa esperienza umana elementare che è il lavorare. Da millenni l'essere umano è stato fuso con l'atto lavorativo, da secoli dura questo problema. Che la tragedia delle morti e degli infortuni sul lavoro riesploda irrisolta nell'anno 2007 spaventa uno come me, in età così avanzata - ho scavalcato i novant'anni. Ero poco più che adolescente quando ho cominciato a capire la centralità di questo problema». Il dubbio, l'interrogarsi inquieto di Ingrao che neanche la rabbia per i morti di Torino riesce a interrompere: «Dai primordi, dal formarsi dell'aggregazione familiare, la vita umana si intreccia con il problema del lavoro, del modo in cui un essere umano vi si raffronta. E' un nodo ineludibile, spesso in età ancora acerba. E insieme c'è un tema che si è sviluppato nei secoli e ancora brucia: come tutelare chi lavora, come lavorare, come produrre senza ferire e uccidere?».


Pietro Ingrao teme che «tra pochi giorni l'evento cupo di Torino si dissolverà, impallidirà, senza diventare un fatto emblematico e rivelatore». Le lacrime - quelle del potere, non quelle dei compagni e dei familiari dei caduti nella guerra del lavoro - durano un giorno. Da domani si tornerà a parlare di flessibilità, del dio mercato. «Insieme alle lacrime sento il bisogno di porre e pormi una domanda: cosa è stato? cosa è accaduto? E soprattutto, di fonte al ripetersi implacabile di questa storia tragica, come risponde questo paese?».


Questo nostro dialogo con Pietro, per sua volontà, non ha la forma classica (e forse un po' fredda) dell'intervista. Vuole che sia un confronto, Ingrao, vuole sentirsi libero di essere lui stesso a porre domande. Perché le risposte vanno cercate insieme. Nella politica, nella cultura, nella società.


il manifesto (8 dicembre 2007)

2 commenti:

  1. stefanomassadicembre 11, 2007

    complimenti...stef

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  2. Stef, grazie! Ricevere gli apprezzamenti da te risulta cosa gradita. Presto tornerò a trovarti.

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