giovedì 26 luglio 2007

Il sacrificio degli innocenti


Piazza Magione – Palermo. C’è una targa attaccata al muro del palazzo dove c'è scritto "Da qui dove nacque Paolo Borsellino, nel primo anniversario della strage di Via D'Amelio, parte il recupero del centro storico" http://www.flickr.com/photos/ilriccio/135304960/



In un altro paese gli artefici di una tale vittoria sarebbero stati considerati un patrimonio nazionale. Dopo aver vinto la prima battaglia a Palermo, ci si sarebbe aspettato che Falcone e i suoi colleghi fossero messi nelle condizioni di vincere la guerra. Invece in Italia avvenne proprio il contrario”. È il cuore del racconto di Alexander Stille, nello sconvolgente e bellissimo documentario andato in onda su RaiTre lunedì scorso (prima serata: la collocazione è decisamente un evento). Un film che ha tenuto incollati alla poltrona non per il caldo umido e appiccicoso, ma per la tensione che lo sorreggeva e l’amarissima consapevolezza che non si trattava di fiction. Da brividi alcuni momenti di alta tensione, commoventi le testimonianze dei colleghi per un dolore che dopo 15 anni resta profondamente inalterato. Le lacrime del magistrato De Francisci mentre ricordava il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. "E' stato un prezzo altissimo che hanno pagato, loro con la loro vita, e le persone morte con loro. Un prezzo che hanno pagato per il nostro Stato, per la Sicilia, per creare un futuro migliore per tutti noi. Io me lo sono chiesto negli ultimi anni: ne è valsa la pena? Che siete morti a fare? Me lo sono chiesto più volte al punto in cui siamo. E non riesco a trovare una risposta". Pensare che vive in Italia un tale che ha definito “matti” i magistrati e trova milioni di ascoltatori-consumatori-elettori che sono d’accordo con lui.


Ho trovato su “l’Unità” del 20 luglio scorso un commento molto interessante di Saverio Lodato, uno dei più noti e stimati giornalisti palermitani, autore di una monumentale opera su Cosa nostra (“Trent’anni di mafia”) che propone interrogativi inquietanti e riflessioni che meritano attenzione.


L’OPINIONE Le domande intorno alla morte di Borsellino: perché una strage così vicina a Capaci? Che fine ha fatto l’agenda rossa? Perché restano solo un pugno di parenti e magistrati a chiedere?


Se la politica vuol essere credibile riparta dall’antimafia


di Saverio Lodato


L’impettito uomo dei servizi (o dovremmo dire imperterrito?) che si aggira e scompare fra la nuvolaglia di fumo con in mano la borsa di Paolo Borsellino. La borsa che, alla fine di quel tragitto, non conterrà più l’agenda. Fatta sparire, altro che volatilizzata. Il punto di osservazione sul luogo della strage, ideale e tenebroso, rappresentato dal Castello Utveggio. Le misteriose utenze telefoniche che il giorno dell’Apocalisse, a pochi minuti dalla strage di via D’Amelio, entrano in fibrillazione da Palermo in direzione degli “States”. Per notificare l’accaduto? Tranquillizzare? Chiedere conforto al dante causa dello sterminio appena commesso? Sollecitare altre direttive?


La mano che premette il telecomando innescando la catena dell’esplosione? Mai trovata, Figuriamoci il corpo del killer, il corpo del mandante. E poi perché, e per chi, furono uccisi Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Trama e Agostino Catalano? Cui prodest? Qualcuno sa dirlo, spiegarlo, motivarlo? No. Diversamente non saremmo ancora a discuterne. Allora, nel giorno canonico dell’anniversario di via D’Amelio, è il momento adatto per stilare un piccolo promemoria a uso dei tanti smemorati di Collegno che spesso frequentano le stesse fila della lotta alla mafia.


Strage bastarda. Strage commessa da bastardi. Se si potesse declinare una scala di valori dello stragismo, diremmo che quella di via D’Amelio è la strage più bastarda di tutte. Orfana di spiegazioni, orfana di una logica, indipendentemente dalla personalità incommensurabile di Paolo Borsellino. Cercheremo di spiegare la pesantezza di questa affermazione, specificando che tutte queste considerazioni si riferiscono a quanto risulta acquisito per tabulas processuali. Non al senso comune della gente, nel cui immaginario collettivo era ed è fin troppo ovvio che dopo Falcone doveva scoccare l'ora di Borsellino. Ma anche per questa banalissima rifles­sione: solo un club di pazzi incoscien­ti avrebbe lanciato un secondo ordi­gno nucleare sullo stesso obbiettivo quando il fungo sollevato dal primo (la strage di Capaci) non si era anco­ra diradato e non si sapeva che reazio­ne ne sarebbe conseguita da parte del­lo Stato. E tutto si può dire dei mafio­si tranne che siano kamikaze. Vi­gliacchi, semmai, kamikaze no.


Riflettete: della strage di Capaci, quasi subito, si seppe tutto. Di quella di Via D'Amelio, quindici anni do­po, non si sa quasi nulla. A volere es­sere più precisi: mezze verità. Questa seconda parte della considerazione non è nostra, è di Rita Borsellino, l'al­tra sera, durante un dibattito a palazzo Steri, a Palermo, di fronte a quelli che potremmo definire gli Stati gene­rali dell'antimafia: i vertici della nuo­va Procura di Palermo al gran com­pleto. Una spiegazione c'è.


Altra considerazione della Borselli­no. Dopo Capaci, una valanga di pentiti. Dopo via D'Amelio, quasi nulla. E aggiungiamo noi: neanche le proverbiali "bocche cucite". Nean­che le proverbiali scimmiette del folklore mafioso: «nenti sacciu, nenti vitti, nenti dissi». Strano. Solo un povero diavolo, Enzo Scarantino, del quale forse si sono perdute le tracce anche all'anagrafe, che si pen­tì, ritrattò, si ripentì, e così all'infini­to. Un povero diavolo, indiscutibil­mente un ragazzaccio mafioso, che forse disse le cose che disse non secon­do scienza e coscienza, ma perché ri­tenne opportuno che dirle fosse me­glio che non dirle. E speriamo che la frase, per quanto ingarbugliata, in fondo renda bene l'idea. Scarantino non riuscì ad avvalersi del quarto comma della costituzione delle scim­miette del folklore mafioso che così re­cita: «signor presidente, e si chiddu chi dissi costituisci dittu ... comu si nun l'avissi dittu». (E se quello che ho detto rappresenta parola detta co­me se non l'avessi detta). Insomma, alla fine, le mezze verità di Scarantino furono in qualche modo utilizza­te. E Scarantino diventò così un Erco­le processuale sulle cui spalle furono caricate forse eccessive certezze.


D'altra parte, sono cose note agli addetti ai lavori, consegnate ai dibat­timenti. Non è vero infatti che queste vicende non ebbero mai riconosci­mento processuale. Se ne discusse in­vece. Eccome se ne discusse. E il croni­sta ne fu testimone, e non da solo: insieme a tanti altri colleghi. Se non al­tro perché furono i migliori avvocati di mafia a sollevarle. Gli stessi avvo­cati che hanno sempre goduto di buo­na stampa, anche se, nonostante la buona stampa, sia detto per inciso, gli avvocati dei mafiosi hanno collezionato una gran quantità di condan­ne per i loro assistiti a fronte di rare assoluzioni. Possibile che tutti abbia­mo dimenticato? Se si fosse dimostra­to che a fianco della mafia, dietro la mafia, o, a volerla dire più grossa, so­pra la mafia, c'era un'altra entità, gli imputati, alla fin fine, un sia pur pic­colo sconto di pena lo avrebbero ottenuto. Quelle che abbiamo elencate all’inizio sono le storie mai chiarite, sussurrate, qualche volta conclamate. Provate? Eh no: provate no, mai. Seduto in prima fila, Francesco Messineo, procuratore capo, impassibile tanto quanto attento a ogni parola dei suoi aggiunti o sostituti, sembra non gradire né flash né telecamere.


Guido Lo Forte: «L’uccisione di Emanuele Notarbartolo, fine 800. Il direttore del Banco di Sicilia che voleva recidere il nodo del credito concesso ai mafiosi dell’epoca. Tutto così chiaro... Condannati i killer, condannati i mandanti. Qualche anno dopo, invece: tutti assolti. Con banchetti e festeggiamenti a Palermo mentre il figlio di Notarbartolo morì in esilio». Roberto Scarpinato: «La mafia non è una patologia del sistema italiano, ma un fenomeno che dura almeno da 150 anni. È forse azzardato sostenere che la mafia rappresenta la fisiologia più che la patologia?».


Nino Di Matteo: «il problema resta lo stesso: il nodo mafia e politica. Quella che i mafiosi chiamano la spartizione della torta, o, in altre parole, sedersi al tavolino».


Antonio Ingroia: «Possiamo chiedere se e quando verranno cancellate le leggi vergogna che rappresentano un intralcio alla lotta alla mafia?» Conclude Beppe Lumia, vicepresidente dell’antimafia: «Non è giusto dire che non siano stati raggiunti risultati. Tante cose sono state fatte. Certo: la politica non mantiene le sue promesse: e questo è un problema...». Insomma: molti il bicchiere lo vedono mezzo vuoto, altri mezzo pieno. Direte: ma con la strage di via D’Amelio che c’entra? C’entra. Quelli che hanno parlato l’altra sera potevano spingersi sino a un certo punto. Ma non di soli magistrati e parenti delle vittime può vivere l’antimafia. La politica spesso ripete che vuole riconquistare il suo primato. Se non lo fa su questo tema è destinata a restare piccola piccola. E la lotta alla mafia, battaglia perduta in partenza


saverio.lodato@virgilio.it  


 



2 commenti:

  1. La politica italiana è così debole e preoccupata soltanto di cristallizzare il potere acquisito che non ha tempo per pensare a "piccolezze" come la lotta alla mafia

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  2. ...in un altro paese...già...

    ma dobbiamo tenerci questo e cercare di renderlo più vivibile....almeno si spera.

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