mercoledì 23 maggio 2012

La strage di Capaci - l'Unità 24 maggio 1992


Da Epoca 3 giugno 1992




Giovanni, cuore e cervello di Sicilia

SAVERIO LODATO

Da dieci anni scrivete di mafia e ancora non avete capito nulla. Non avete capito la cosa più importante. Quella che voi chiamate mafia, piovra, criminalità organizzata, «è Cosa Nostra». Ma come fate a non capire che se in questa Regione sono stati assassinati procuratori della Repubblica, dirigenti della Squadra mobile, comandanti dei carabinieri, segretari dei partiti, capi del governo, imprenditori, giornalisti, cittadini qualunque, tutto ciò è il risultato di una strategia ideata e messa a segno da una struttura verticistica e monolitica, che può avvalersi di una tradizione secolare e di rapporti fittamente intrecciati con interi pezzi della società siciliana. Un'ultima cosa: dovete ancora capire che per Cosa Nostra il controllo del territorio è lo strumento fondamentale per la ricerca del suo consenso.
Negli ultimi anni, Falcone (che avevo conosciuto appena giunto a Palermo da Trapani, alla fine degli anni Settanta, dunque un «Falcone che ancora non era diventato Falcone») sembrava sempre di più pignolo e monotematico. Come se ormai dicesse sempre la stessa cosa. Cosa Nostra - ripeteva anche nei colloqui privati - «è Cosa Nostra, tutto qui».
Conosceva segreti? Certamente tanti. Conosceva regole comportamentali, strutture di pensiero, conosceva l'humus in cui l'uomo d'onore si nutre sin da bambino nei vicoli della casba di Palermo o nelle casupole di Corleone? Certamente. Conosceva l'an-tropologia del mafioso quasi alla perfezione. Diversamente, come avrebbe fatto a piegare sino al pentimento, colonne mafiose come Buscetta o Contorno, Calderone o Marino Mannoia? Era questo il segreto Falcone: i grandi mafiosi quando decisero di voltare le spalle a Cosa Nostra si rivolsero proprio al nemico numero uno dell'organizzazione. È verissimo: i mafiosi avevano finalmente trovato in lui il volto di uno Stato italiano che dopo quarant'anni di complicità, compromissioni e silenzi, manifestava l'intenzione di fare in qualche modo sul serio. Ma non era solo questo. Falcone era palermitano, siciliano, palermitanissimo, verrebbe voglia di dire. Parlava linguaggi che non si parlano nel resto d'Italia. (e che spesso lo rendevano non soddisfacente sul piano della resa televisiva). Parlava il linguaggio degli sguardi, ad esempio. I silenzi, le pause, nelle sue schermaglie, interrogatori con gente poco propensa alla sintassi, ancorata istintivamente al silenzio anche quando inconsciamente avvertiva tutto l'impulso alla rottura di tabù secolari, diventavano quasi per incanto la chiave vincente per una «confessione clamorosa» o un «pentimento». Ho un ricordo personale, fra tanti che si affollano in queste ore alle prime notizie da Palermo, ma che forse può dire molto.
Era il settembre dell'89. Falcone, appena scampato all'agguato dell'Addaura, quando una cinquantina di candelotti di tritolo vennero scoperti appena in tempo, era venuto a cena a casa mia. Lui, in una serata per altro piacevolissima visto che l'uomo di storie ne sapeva davvero tante, non rinunciò ancora una volta a spiegare cosa fosse - secondo lui - Cosa Nostra. Ascoltiamolo: «Quando andai a New York (Falcone era già diventato Falcone) mi stancai presto del protocollo e delle visite organizzate. Chiesi di essere condotto a Brooklyn. Entrai in un bar zeppo di italo-americani. Piombò un silenzio assoluto. Gli avventori fecero ala al mio passaggio, mentre mi dirigevo verso il bancone. Gli uomini di scorta, con un attimo di indecisione, erano rimasti sulla soglia. Mi chiesi anch'io come uscire dall'imbarazzo. Mi diressi al bancone e rivolgendomi al barista dissi in palermitano molto stretto: “Mi rassi un café”. Si compì il miracolo. In quel locale tornò la vita, tutti ripresero a parlare e non fecero più caso alla mia presenza».
Oggi Falcone è stato assassinato. Con un agguato che dimostra - ancora una volta - una potenza militare micidiale. L'agguato dimostra due cose: 1) Cosa Nostra esiste e considerava apertissimo il suo conto personale. Una autentica vertenza (come si dice a Palermo), iniziata tanti anni fa quando Falcone, per la prima volta, e prima di tanti altri giudici, aveva davvero capito di che pasta fossero fatti gli uomini d'onore. 2) Falcone sapeva bene che il rapporto mafia-politica esiste, è strettissimo, ed è la condizione essenziale che consente, appunto, alla mafia, di non essere semplice gangsterismo, guerra per bande, criminalità organizzata, anche se di alto livello. Negli ultimi anni della sua attività volle dimenticare queste sue certezze sul rapporto mafia-politica? È molto probabile. Non dimentichiamo che a Palermo riuscì a totalizzare soltanto sconfitte, insuccessi personali, astio e antipatia da parte di molti dei suoi colleghi. Era andato a Roma? Non è bastato a salvarlo.
(24 maggio 1992)

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