lunedì 2 febbraio 2009

La legge del contrappasso







In Inghilterra monta la protesta contro gli stranieri che «rubano il lavoro» nelle raffinerie del nord. Questa volta gli «sporchi immigrati» sono gli operai italiani.


 








In Gran Bretagna dilaga la protesta contro i lavoratori italiani: tutto è partito nel Lincolnshire, dove un gruppo di nostri connazionali costruisce una raffineria. «Lavori inglesi agli inglesi». Intanto a Davos Gordon Brown parla contro il protezionismo



 








COME FANNO GLI OPERAI


di Loris Campetti


 


«Sporchi immigrati. Tornate a casa vostra. Togliete lavoro a gente di qui che ne ha bisogno». Non siamo a Gela, e gli «sporchi immigrati» che rubano il lavoro agli operai indigeni non sono «bassa manovalanza» tunisina o rumena. Siamo al porto di Grimsby, nel Lincolnshire, e i lavoratori contestati sono italiani. Siciliani per la precisione. Gli operai in lotta che sfilano in corteo in molti porti inglesi contro gli «stranieri» lanciano un'accusa non priva di fondamento: le ditte italiane non rispettano le norme di sicurezza. Poi dicono un'altra cosa, probabilmente falsa, comunque preoccupante: gli italiani fanno errori sul lavoro. Insomma, siamo in pieno dumping sociale? Tutto è iniziato con un'asta lanciata dalla raffineria francese della Total e vinta da una ditta di Siracusa, la Irem, che si porta in Gran Bretagna centinaia di operai italiani, e portoghesi. Questa volta l'esercito del lavoro di riserva siamo noi, gli italiani. E il prode presidente della Sicilia, Lombardo, urla non più contro i migranti nordafricani ma contro «la perfida Albione» e a sua volta minaccia: visto «l'odio xenofono contro i siciliani» romperemo le trattative con l'inglese Erg-Shell che dovrebbe realizzare un rigassificatore a Priolo, nella stessa provincia di Siracusa che è la patria della Irem, contestata in Gran Bretagna insieme ai suoi operai «stranieri».


Quando la crisi economica precipita, brucia posti di lavoro e determina l'emergenza sociale, contraddizioni come questa esplodono ovunque, ingigantite dalle politiche statali protezioniste. Ognuno difende i suoi prodotti. E i suoi operai, che per essere più competitivi devono costare di meno, in salari e diritti. Dal nord degli Usa le lavorazioni non si spostano più oltre il muro della vergogna che spacca in due l'America ma nel sud degli States, dove salari e diritti sono competitivi con quelli delle maquilladoras messicane. Obama dice che l'acciaio usato nel suo paese dev'essere prodotto nel suo paese. Sarkozy darà i soldi a Peugeot e Renault solo se non delocalizzerano il lavoro all'estero per difendere quello degli operai francesi.


Fa eccezione Berlusconi, che tanto è ottimista.


Qualche crisi fa, quando i giapponesi invasero il mercato Usa dell'auto, fece parlare di sè un concessionario californiano della Gm che aveva messo a disposizione del pubblico una Toyota rossa fiammante e chiedeva 10 dollari per ogni martellata. C'era la fila davanti al suo autosalone.

L'illusione di difendersi contrapponendo tra loro gli stati si traduce a livello sociale in una suicida guerra tra poveri, il conflitto tra capitale e lavoro rischia di precipitare in un conflitto tra lavoratori. L'Europa a 27 si dimostra lontana mille miglia da qualcosa che assomigli a un'entità politica, e ogni paese dà risposte individuali. E i sindacati, rispetto alla globalizzazione capitalistica sono, se non nudi inadeguati. Non è contro i processi di internazionalizzazione che si possono alzare le barricate, ma in difesa - e per l'estensione - dei diritti dei lavoratori, a partire dal diritto al lavoro. E' facile a dirsi, terribilmente difficile da realizzare. Ma è l'unica strada possibile.


















il manifesto




(31 gennaio 2009)











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