Sono giornate intensamente popolate da parolai e ipocriti d.o.c. che si affacciano dallo schermo e lanciano le loro bestialità, depotenziando il verbo che perde spessore e significato, mescolandosi alle tante voci che, grazie al fiancheggiamento dei notiziari, sembrano invece assumere requisiti di autorevolezza.
Questa volta il piatto ricco in cui questi lestofanti ci si ficcano è la non-vita di Eluana Englaro. Uno spettacolo nauseante, anche per le bestialità che hanno ulteriormente impoverito il tipo B., tessera P2 n° 1816. Per questo motivo acquistano maggiore risalto le opinioni scritte sulla tanto vituperata carta stampata, si evidenziano le firme. E così risaltano ancora Barbara Spinelli (che ha scritto in pochi giorni due editoriali su “
Mi scuso per la lunghezza del post, ma ci sono idee vere e non aria fritta. Peccato che non passino attraverso lo schermo. Magari nelle osterie d’Italia qualche avvinazzato, in un raptus di lucidità, potrebbe mettere da parte il bicchiere e tendere l’orecchio.
Sogni, certo e nulla più, in un Paese ormai alla deriva.
L'ora della nostra tristezza
Barbara Spinelli
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma vegetativo permanente.
Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi 13).
Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano all’omicidio.
E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico, non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne.
Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e - per alcuni - Dio?
La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita, quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazione-alimentazione di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome del diritto alla vita.
La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza. Questa strada è sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia. Welby e Eluana dicono l’indisponibilità, assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi.
Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione, o alle spese sanitarie. L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza?
Scrive
Il potere apparente della Chiesa
Barbara Spinelli
Solo in apparenza c’è contraddizione fra l’enorme caduta di autorità manifestatasi ai vertici della Chiesa in occasione della riabilitazione dei vescovi lefebvriani e il potere non meno grande che il Vaticano ha esercitato, e sta esercitando, sul caso Englaro e sullo scontro tra istituzioni in Italia. Nel lungo periodo il primo caso finirà forse col pesare di più: i libri di storia racconteranno nei prossimi secoli quel che è accaduto nella Santa Sede, quando un Pontefice volle metter fine a uno scisma, tolse la scomunica ai vescovi di Lefebvre, e mostrò di non sapere bene quello che faceva. Mostrò di ignorare quel che la setta sostiene, e quel che un suo rappresentante, il vescovo Williamson, afferma sul genocidio nazista degli ebrei: genocidio che il vescovo nega («gli uccisi non furono 6 milioni e non morirono in camere a gas») e che non giustificherebbe il senso di colpa della Germania. Un papa tedesco inconsapevole di quel che Williamson divulga da anni fa specialmente impressione.
I libri di storia racconteranno com’è avvenuto il ravvedimento, non appena il cancelliere Angela Merkel gli ha chiesto d’esser «più chiaro»: i giornali tedeschi, impietosi, descrivono il suo cedimento alla politica, la sua caduta nel peccato (è un titolo della Süddeutsche Zeitung), la fine di un’infallibilità che è dogma della Chiesa dal 1870, per volontà di Pio IX. Il rapporto con il caso Eluana c’è perché anche quando esercita poteri d’influenza sproporzionati, nei rapporti con lo Stato italiano,
Nell’interferire,
Granitica la convinzione, contro cui insorge la dichiarazione di Paolo VI, che gli ebrei non convertiti siano gli uccisori di Cristo. Nostra Aetate non parla solo dell’ecumenismo cristiano. Parla di tutti i monoteismi (Ebraismo, Islam) e anche di religione indù e di buddismo. Apre a altri modi di credere, non ritenendo che
È quello che permette allo Stato di non essere Stato etico, dunque ideologico. Nell’ignorare la necessità di questi vincoli il Vaticano non si differenzia in fondo da Berlusconi, oscurando quel che invece li divide eticamente. L’interesse o la morale del principe contano per loro più della legge, della costituzione. Il particolare, sotto forma di spirito animale dell’imprenditore-re o di convinzione etica del sacerdote-guida, non si limita a chiedere un suo spazio d’espressione e obbedienza (com’è giusto), ma esige che lo Stato rinunci a fare la laica sintesi di opinioni contrarie. La laicità non è un credo antitetico alla Chiesa, ma un metodo di sintesi. Su questi temi sembra esserci affinità della Chiesa con Berlusconi e perfino con i lefebvriani, favorevoli da sempre al cattolicesimo religione di Stato. I vertici del Vaticano si sono rivelati in queste settimane assai deboli e assai forti al tempo stesso. Deboli, perché per ben 14 giorni Benedetto XVI è apparso prima ignaro, poi male informato, infine - appena seppe quel che faceva - paralizzato.
Il cardinale Lehman ha accennato a errori di management e comunicazione, ma c’è qualcosa di più. Aspettare l’intervento della Merkel è stato distruttivo di un’autorità. Nei libri di storia alcuni parleranno di clamoroso fallimento di leadership. Una leadership così scossa, è cosa triste recuperarla su Eluana.
Il loro dovere istituzionale sarebbe stato quello di tacere, come laicamente ha deciso di fare, unico e solitario nella maggioranza, Gianfranco Fini Presidente della Camera. Come difendere
Pericolo pubblico
(il filo rosso di oggi, 8 febbraio)
Concita De Gregorio
Anche nelle tragedie sono sempre i dettagli a dare la misura del disastro, a rivelare l'inganno. Uno sguardo, un gesto, una scarpa slacciata. Qualcosa che rompa l'ipnosi e illumini d'improvviso la scena per quello che è. Ieri, per Berlusconi, è stato il linguaggio. Sì certo il bonapartismo. Sì l'attentato alla Costituzione, l'aggressione al capo dello Stato, la democrazia in pericolo, Eluana che fa da pretesto per una partita di potere. La corsa al Quirinale, lo scardinamento delle regole, l'arbitrio assoluto di uno solo: sì certo, tutto questo saliva in un crescendo omeopatico segnato ogni tanto da un sussulto. Poi quelle parole: «Eluana mi dicono ha un bell'aspetto, funzioni attive, il ciclo mestruale». Il ciclo mestruale, ha detto il presidente del consiglio ai microfoni. Poi: da parte di suo padre «non c'è altro che la volontà di togliersi di mezzo una scomodità». Togliersi di mezzo? Una scomodità? Ma come parla. Di cosa parla. Ecco cosa fa veramente paura, cosa sveglia decine di migliaia di persone: l'assenza di freni inibitori, il delirio di onnipotenza che fa straparlare senza controllo proprio come chi abbia perso definitivamente il senso di realtà, di misura e di rispetto. Un pericolo pubblico, collettivo: guida a folle velocità senza freni, l'Italia è a bordo. Bisogna scendere. Non c'è tempo da perdere.
Che accusi Napolitano di voler uccidere, che giudichi
Beppino Englaro, maschera tragica di un'Italia sommersa dalla melma, gli si è rivolto direttamente: venga a vedere mia figlia, ha detto. A Berlusconi e a Napolitano ha chiesto: venite da padri, venite a vedere com'è adesso. Gli sarebbe bastato, in questi mesi, scattarle una foto e mostrarla per zittire chi grida: non l'ha fatto, un esempio maestoso di amore paterno. Chi abbia assistito un malato terminale sa cosa intenda dire. Non servono le parole.
Per tutto il giorno al giornale abbiamo fatto ieri da telefonisti e dattilografi. Hanno chiamato e scritto per dare sostegno a Napolitano gente comune e premi Nobel, ministri e presidenti stranieri, studenti e scienziati. Il francese Pierre Moscovici, già ministro per l'Europa, lo spagnolo Enrique Barón Crespo, ex presidente del Parlamento Europeo, il tedesco Martin Schultz presidente del Pse (il kapò, ricordate? Ma allora il linguaggio era più controllato) hanno firmato il nostro appello. Rita Levi Montalcini e Dario Fo, premi Nobel, Umberto Veronesi e Ignazio Marino, Roberto Benigni e Pedrag Matvejevic hanno messo le loro firme sotto quelle di Furio Colombo e di Umberto Eco, di Pietro Ingrao e di Andrea Camilleri. A notte continuavano a chiamare. Trascriveremo ogni nome. Esiste un'altra Italia. Non faremo silenzio.
l’Unità (8 febbraio 2009)
Sono articoli straordinari in cui si esprime la senisibilità delle persone perbene.
RispondiEliminaNe parlo anch'io.Siamo molti, oggi.
RispondiElimina