sabato 26 febbraio 2005

L'abbandono di un sogno

 

Ero certo di aver conservato le riflessioni che propongo, cercavo con la memoria fotografica di visualizzarne la collocazione, ma senza nessun risultato. Poi, l’illuminazione, aiutata anche dalla casualità, mi ha portato sulle tracce di un floppy confinato nella sua riserva, ultimo dei mohicani. Posso così darne finalmente conto.

Se il caso fosse subentrato prima sarebbe stato meglio, ma pazienza. In ciò che ho scritto, alcuni mesi fa, mi ci ritrovo anche oggi. Si tratta di memorie di un anno passato anche attraverso il prologo di un blog sui sentimenti.

“Fino a che punto è giusto inseguire un sogno? Fino a che punto è opportuno illudere se stessi e l’altra per trarre conforto reciproco, fingendo di credere che il sogno potrà realizzarsi? Perché poi il sogno è, in realtà, molto terreno. In genere è un desiderio, una volontà comune, ma resta confinato nell’irrealtà dalla distanza che ci separa, dal suo status familiare, dalle difficoltà di ordine logistico e pratico. A unirci è il comune desiderio, il sogno appunto, di poter vivere insieme, perché poi esiste, e non è un sogno, l’amore, tantissimo da parte sua, unito alla consapevolezza (e allo scorrere del tempo) che forse potrebbe non trovare mai il punto agognato di arrivo e congiunzione.

E, allora, è ancora giusto inseguirlo, il sogno? Così difficile, lontano, ma che aiuta ad andare avanti, a vivere quotidianamente con questa prospettiva, con la convinzione ripetuta, forse per illudersi e non cadere nella depressione. Perché non basta che due persone si vogliano bene, per legittimare l’aspirazione comune ed aprirsi, con un sorriso, al futuro.

Ma se l’alba sta per arrivare e dunque il sogno muore, cosa resta del giorno? La sua immagine, il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non è stato, con un’eventuale presenza femminile accanto come balsamo per attenuare il dolore.

Questa non è una storia che finisce, visto che forse non potrà neppure iniziare, ma fa male allo stesso modo di una conclusione, perché sempre di un abbandono si tratta: quello della speranza”.

giovedì 24 febbraio 2005

Quiz show

 

Mi ritrovo tra le mani una cassetta senza etichetta e sono incerto su quale destino riservarle. Sto rimettendo in ordine, velleitario tentativo ammetto, nella videoteca personale e provo a separare i Vhs originali, da quelli adoperati per registrazioni di programmi. Tutti identificabili, tranne questa cassetta. Potrei collocarla sullo scaffale, perché è già riavvolta e adoperarla per nuove registrazioni, ma se poi sul nastro ci fosse qualcosa che m’interessa e me lo perdo? E’ vero che non lo saprei mai, ma la curiosità prevale e l’infilo nella bocca vorace del videoregistratore. Le prime immagini mi sorprendono piacevolmente, proiettandomi indietro nel tempo.

Dicembre 1985. In tv, già da un paio di mesi almeno, va in onda ogni pomeriggio (un preserale si direbbe oggi) una nuova trasmissione condotta da Luciano Rispoli e Anna Carlucci (la più decente tra le tre sorelle), intitolata “Parola mia”, un gioco sulla lingua italiana, sulle parole, sul loro significato e sulla conoscenza della letteratura. Si parla, inoltre, di libri. Si pubblicizzano e si vincono, sia dai concorrenti in studio che dagli spettatori a casa. Mi interessa, non ne perdo una puntata e partecipo pure alla selezione regionale, senza però conoscerne il verdetto. “Le faremo sapere”, mi dicono, che suona certo più cordiale della medesima frase pronunciata in altri ambienti.

Poi, a metà dicembre, vengo informato che sono stato prescelto per partecipare al programma, anche se la data resta incerta. Dovrò tenermi pronto.

Ora, con l’approssimarsi delle feste, mi infastidiva un po’ l’idea di dover partire per Torino, magari alla vigilia di Natale per poi dover rientrare il giorno dopo. E poi occorreva studiare, come regolarsi? I miei timori svaniscono. Natale in famiglia e pochi giorni più tardi la telefonata liberatoria, in un certo senso. Quando il campione in carica verrà sconfitto (al massimo si poteva restare per cinque giorni) io parteciperò a “Parola mia” del giorno dopo. Che è il 31 dicembre.

Sveglia all’alba, due valigie con me: in una libri, nell’altra cambi d’abito per cinque giorni (non si sa mai). Treno affollatissimo, mi ritrovo in corridoio, dove sembrano naufragare le mie speranze di poter studiare. Ma il viaggio è lungo e sono fortunato. Si libera un posto e subito apro un volume di storia della letteratura. 

Arrivo nel capoluogo piemontese in orario rispetto al programma che andava in diretta e entrando nella sede Rai, raccolgo pure l’informazione sul risultato del recupero di campionato, che si era disputato nel pomeriggio tra Juventus e Sampdoria: 1-0, Platini. Sono in clima.

Mi fa un certo effetto incrociare subito la nuova campionessa in carica, una sarda piuttosto carina, ma anche in precarie condizioni di salute. La sorregge una chioma fluente di ricci rossi. E’ la ragazza convocata come riserva, viene da Napoli e porta cucita addosso la bellezza tipica delle donne meridionali, soprattutto quelle solari napoletane. La campionessa si rimette in sesto. Nei corridoi dei camerini incrocio Rispoli e la Carlucci. Di lì a poco si parte.

La sveglia, il viaggio, i volti incontrati, anche il freddo, sono ormai dietro le spalle. E’ necessaria la concentrazione, perché so che in molti mi vedranno e non mi va davvero di rimediare una figura barbina. Anche se è un gioco.

Devo ammettere che lo stato fisico della concorrente mi conforta, potrei farcela (il pensiero era cattivello, ma si sa che in amore e in guerra... Sì, lo so che quella non era una guerra, ma sempre di scontro tra due persone, seppure molto amichevole, si trattava). In studio trovo anche il mitico professor Beccaria, una figura d’intellettuale gentile e disponibile, molto accattivante nei gesti e nei modi, tipici della buona borghesia torinese.

Silenzio, si parte. Il piccolo  monitor sulla mia postazione non mi aiuta, perché vellica la naturale civetteria che abita in me, ma ormai non è più tempo di considerazioni, perché la luce rossa della telecamera è proprio rivolta nella mia direzione.

La gara inizia bene, la ragazza di cui proprio non ricordo il nome, è penalizzata dalla sua indisposizione. Cerco di incoraggiarla. Quando mi trovo in vantaggio, percepisco che la vittoria non potrà sfuggirmi. All’ultima delle quattro prove previste sono in testa, adesso di tratta di parlare di un autore, Cecco Angiolieri e con il suo “Se fossi foco…” brucio il traguardo. La telecamera mi inquadra, rubando un giusto gesto di esultanza liberatoria. Ce l’ho fatta. Chiusura d’anno col botto. Prima di tornare in albergo uno degli autori, il famoso signor No, comunica a  me e alla napoletana, M., che l’autore del giorno dopo sarà Dante con la Divina Commedia.

Lungo la strada procedono due stati d’animo opposti: il mio euforico e quello triste di M., perché per una napoletana rinunciare alla notte di San Silvestro, per un domani incerto (magari perde e deve tornare a casa) non è il massimo. Almeno credo. Perciò glielo chiedo. Si fraternizza subito. Vista da vicino è davvero una gradevole ragazza, piena di fascino, ricca di simpatia, con un accento che conquista. Ma non per quella sera, chiaro.

La stanchezza decima anche le ultime considerazioni. Lo studio ci attende il giorno dopo ed  è meglio non sfigurare, io poi ho il viaggio sulle spalle che, solo in quel momento, gli occhi che si chiudono e le membra affaticate fanno ricordare.

Il mattino dopo, 1° gennaio 1986, facciamo colazione insieme e poi ritorniamo nelle rispettive stanze per studiare. Non escono in quel giorno i quotidiani (molte domande traevano spunto dai titoli) e così non rimane altro da fare che seguire Dante nel suo “cammin di nostra vita”.

Nel tardo pomeriggio procediamo in coppia, verso via Verdi. Io più tranquillo (male che vada una puntata l’ho vinta), M. chiaramente più tesa. Chissà se questa psicologia spicciola potrà aiutarmi?

Adesso posso andare in cronaca diretta. La mia avversaria dimostra subito di essere ben preparata e tosta. Prima prova: conoscere l’italiano. L’etimologia delle parole. Tocca a lei rispondere per prima a tre domande ed è punteggio pieno. Io ho accanto la Carlucci e inciampo su un  quesito: 2/3 e 1 a 0 per M. Rammarico per la falsa partenza.

Breve pausa, si parla di film d’animazione e la successiva serie di domande riguarda il linguaggio cinematografico. Ancora 2 su 2 la napoletana, per nulla intimidita dalla telecamera. Il campione in carica, invece, scivola ancora e realizza 1 su 2. Punteggio parziale: 2-0 per M. La strada per la riconferma del titolo è adesso decisamente in salita. Il mio stato d’animo palesemente demoralizzato.

Ma la gara prosegue. Adesso si passa alla prova: usare l’italiano. In 15 righe occorre inventare un personaggio per un film d’animazione. Il tempo disponibile è quello necessario per presentare ospiti, libri e lanciare il quiz telefonico. Ci avviamo alle tradizionali cabine insonorizzate.

Cerco di ritrovare le necessaria concentrazione. Il classico panico del foglio bianco viene sconfitto e l’ispirazione mi sembra felice. Ma deciderà il professor Beccaria. Il pezzo scritto dalla mia avversaria è gradevole, pulito nella forma. Io, invece, parlo di un personaggio di fantasia che potrebbe fungere da tritarifiuti per la pulizia dell’ambiente. Toni giusti, lievi e disincantati, anche polemici quando concludo affermando che è tutto difficile con l’uomo tra i piedi. Il gradimento è assicurato. Adesso lo svantaggio è dimezzato: 2-1. 

Sono più rinfrancato. Nella quarta ed ultima prova, che vale due punti, mi gioco tutto. Riccardo Cucciolla in studio (conservo la sua dedica) legge alcune terzine della Divina Commedia. A M. viene chiesto di esporre il significato della selva oscura e lì dentro perde un pochino l’orientamento, deviando verso considerazioni sociali. Avverto che sta andando fuori tema, perché tengo d’occhio le smorfie del giudice di gara. E intanto rimango concentratissimo.

In 30” devo illustrare la legge del contrappasso. E’ il mio terreno. Sospiro iniziale e poi elenco con molta calma, la calma di chi si sente la vittoria in tasca, alcuni esempi. E mi aggiudico la prova e la gara. L’inizio del nuovo anno non poteva essere migliore. Le prospettive sono decisamente incoraggianti. E secondo milione, in libri, vinto. Con M. mi manterrò in contatto epistolare per qualche anno, poi emigrerà in Germania per lavoro e non riceverò più sue notizie.

Gradevole è l’attesa per la sfida del terzo giorno. Ormai l’obiettivo è quello di arrivare al successo finale. Quando ritorno in studio, nel pomeriggio seguente mi sento in casa. Saluti cordiali alle sarte, agli attrezzisti, alle parrucchiere, alle truccatrici. Familiarità con i  due presentatori.

La mia sfidante è una minuta ragazza di Bresso, anche lei di simpatico aspetto e palesemente intimidita dall’ambiente in cui si ritrova, persino un po’ spaurita. La accompagno nei vari ambienti, la guido, la tranquillizzo, ma psicologicamente mi sento già in vantaggio. E infatti la gara è assai meno combattuta del giorno prima. L’emozione la tradisce più volte e vinco passeggiando.

L’euforia mi fa dimenticare il testo di letteratura e così, il mattino del quarto giorno, sono costretto a ritornare negli studi Rai, attendere che si aprano e recuperare il mio libro. Tempo prezioso che perdo, ma soprattutto scaramanzia che viene stravolta. Foschi presagi di sventura si addensano.

Apprendo nel pomeriggio, arrivando in via Verdi, che la nuova avversaria è della mia stessa regione, addirittura medesima provincia. Non so perché, ma non mi sembra un segnale positivo. E’ in affanno anche lei, quando la incontro, perché ha dimenticato i suoi libri in albergo e si trova a disagio. L’autore del giorno è Carducci, del quale adoro la poesia: “San Martino.

Nonostante ciò inizio male, proseguo peggio, anche se alla prova orale ho ancora qualche possibilità. Devo, appunto, spiegare quei versi ad un’immaginaria scolaresca. Ma qualcosa nei circuiti salta. Me la cavo, ma non abbastanza. La mia corregionale, che diventa immediatamente antipatica, vince con merito, comunque.

La fuga dalla pizzeria per la lunga attesa del conto, il suo avermi voluto intrattenere, chiacchierando, fino alle 3:00, sono gli ultimi flash della mia avventura nel mondo del quiz, terminata con la vincita totale di 3 milioni, convertiti poi in assegno.

“La televisione” - come amava concludere Rispoli – “è la televisione, ma un buon libro è sempre un buon libro. Parola mia”. “E anche mia”, cinguettava la Carlucci.

domenica 20 febbraio 2005

Emozioni

Si può aggiornare, un blog, in tempo reale sui moti dell’anima? Ovviamente no, ma si può lasciare traccia di ciò che accade, quasi un promemoria per il sentimento.

Una donna, che per comodità chiamerò D., al telefono, per la prima volta, al mattino, il pranzo che incombe e quell’arrivederci: “a stasera”, che produce uno strano effetto, perché di appuntamento solo telefonico si tratta, ma rimane una promessa.

La constatazione, questa sì in tempo reale, che sta accadendo qualcosa di imprevisto sicuro, ma anche anomalo negli sviluppi e con quintalate di curiosità  che portano a scaricare la posta, nei giorni precedenti, con inedita voluttà. Già, perché ci sono lettere che fanno da anteprima all’evento inaspettato, che si stendono come un tappeto rosso lungo il percorso tormentato, intrapreso da tempo e guidano verso la prima, parziale conclusione, il primo parziale approccio che i limiti angusti della distanza geografica impongono.

Il colloquio serale procede lungo i binari della cautela, della prudenza, ma richiederà ai due protagonisti qualcosa in più, anche se non subito. La fase è di studio, di avvicinamento cauto eppure disinvolto, non frenato da impacci, timidezze, ritrosie, sebbene si rovisti nei sentimenti ed essi vengano messi a nudo.

Poi gli orizzonti si allargano, le pause diventano inesistenti, anzi le voci si sovrappongono, una voce calda e piena di promesse da una parte, mentre dall’altra viene giudicata come bella, intrigante, credo rispondente alle attese, proprio come quando si vorrebbe che una cosa fosse così e scopri che corrisponde tutto.

Quindi, progressivamente, con il tempo che passa, la conversazione si insinua nel cuore della notte. E non solo. Il silenzio annulla le presunte inibizioni e il dialogo assume un carattere confidenziale, complice, di considerevole impatto sensuale. Ora i toni delle voci cambiano, i sospiri esprimono passioni, la immagino accovacciata su un divano o sul letto. Non me lo dice e io non glielo chiedo, ma l’importanza è assolutamente trascurabile.

Adesso ogni parola è morbida, come una coccola, la distanza annullata. Per qualche istante è come se ci fossimo toccati, cercati, esplorati: un’unione di anime straordinariamente intensa. La percezione comune. Le pause integrano le confessioni, nell’attesa della frase anelata, del sospiro rivelatore. Il desiderio tocca l’acme e confligge con i confini noti, ma resta nell’aria e in quel congedo soffice: ”a domani”. Che è oggi.

All’1:40, dopo tre ore e mezza, il ritorno sulla terra e una calda carezza sul cuore.

giovedì 17 febbraio 2005

Una voce sola

 

Quella donna bionda, minuta, rivestita e quasi soffocata da una tunica verde, che prega, supplica, invoca, trasmette una disperazione senza eguali che mi ha choccato questa mattina, accompagnandomi per l’intera giornata con un profondo stato di malessere.

Giuliana Sgrena, giornalista e operatrice di pace, che parla dicendo le stesse cose che ripeteva da donna libera. Un paradosso. La miseria e lo schifo di una guerra più misera e schifosa, se possibile, di altre guerre, perché illegale, spacciata in Italia per missione di pace, dichiarata goffamente e trionfalisticamente terminata dal pericolo numero uno per la pace mondiale e che ha trasformato l’Iraq in un verminaio, ci ha schiaffeggiato violentemente, un pugno nello stomaco da cui, almeno io, devo ancora riprendermi.

Non aggiungerò altre parole. Lascerò che siano le sue, di Giuliana, le parole da leggere, mentre defilandomi chiedo a me stesso: quanto vale la sua vita? E per chi dovrà morire? In nome di che cosa?

Le truppe italiane, ormai di occupazione, devono essere ritirate non perché lo intimano i terroristi infami, ma perché era, è la cosa da fare più evidente e giusta. Ma non ora, già da tempo.

Se ciò non accadrà che il suo sangue possa ricadere su coloro, infami come i suoi sequestratori, che non l’hanno voluta salvare.

 

“Sono in Iraq dalla fine di gennaio, per testimoniare la situazione di
questo popolo, che muore ogni giorno, migliaia di persone sono in prigione,
bambini, vecchi, le donne sono violentate e la gente muore ovunque, per
strada, non ha più niente da mangiare, non ha più elettricità, non ha
acqua. Vi prego mettete fine all'occupazione, lo chiedo al governo
italiano, lo chiedo al popolo italiano perché faccia pressione sul governo.
Pier aiutami, per piacere, fai vedere le foto dei bambini colpiti dalle
cluster bomb, chiedo alla mia famiglia di aiutarmi, chiedo a tutti, a tutti
quelli che hanno lottato con me contro la guerra, contro l'occupazione, vi
prego, aiutatemi. Questo popolo non deve più soffrire, così, ritiratevi
dall'Iraq, nessuno deve più venire in Iraq, perché tutti gli stranieri,
tutti gli italiani qui sono considerati nemici, per favore fate qualcosa
per me. Pier, aiutami tu, sei sempre stato con me in tutte le mie
battaglie, ti prego aiutami a chiedere il ritiro delle truppe, fai vedere
tutte le foto che ho fatto, questo popolo non vuole occupazione. Aiutami,
aiutatemi, la mia vita dipende da voi, fate pressioni sul governo perché
ritiri le truppe. Conto su di voi, potete aiutarmi. Bisogna mettere fine
all'occupazione, la situazione qui è intollerabile, i bambini muoiono, la
gente muore di fame per strada, le donne vengono violentate, bisogna
ritirare le truppe. Pier aiutami, fai vedere le foto che ho fatto dei
bambini colpiti dalle cluster bomb, fai vedere quel che ho fatto per le
donne. Nessuno dovrebbe venire in Iraq in questo momento, neanche i
giornalisti, nessuno". (16 febbraio 2005)

 

domenica 13 febbraio 2005

Quando si ama

 

Il sole irrompe nel mio studio non appena spalanco la finestra, illumina la stanza, ma non riscalda. Almeno non ancora. Gli oggetti riflettono la luce che a loro non serve, perché non ne modifica lo stato. Inanimati erano e inanimati rimangono.

Il mio cuore è un oggetto, privo di palpiti emozionali e refrattario al calore. Esalta il ruolo di muscolo involontario che continua a battere che lo si voglia o meno. Per me è indifferente e infatti non mi preoccupo del suo battito. E’ un cuore d’inverno, congelato, quasi rattrappito nella cassa toracica. All’altezza dello sterno continua a far male.

Immagino che anche Lei s’inebri di questo sole. Era naturale richiamarlo. Attraverso l’ampia porta-finestra i raggi irradiano il soggiorno-cucina, ancora vuoto a quest’ora. Forse la figlia l’ha svegliata, si scambiano reciproche coccole nel lettone. Quindi si alzerà, aprirà le finestre e inizierà le pulizie domenicali accendendo lo stereo. Prima, però, la colazione: latte e caffè scaldati nel forno a microonde. Lei seduta con le spalle al lavello e la figlia al suo fianco, dove mi mettevo sempre io. Sulla sedia rossa. Di fronte, per entrambi, il giardino e la promessa di una giornata splendida, anche se triste. Perché la domenica mattina da Lei era quasi sempre triste, infatti nel primo pomeriggio l’avrei lasciata per ritornare a casa.

Darei anni della mia vita per rivivere quella tristezza.

Uno stato d’animo solo un po’ malinconico però, sia perché restavano ancora altre ore da trascorrere insieme, sia perché con la partenza iniziava anche il conto alla rovescia per il ritorno. E così si indugiava un po’ di più a letto.

Credo che nulla sia più bello che risvegliarsi accanto alla persona amata. Aprire gli occhi e incrociare i suoi, di occhi, quelli che non mi stancherò mai di descrivere come meravigliosi e sconvolgenti che, magari già da qualche minuto, mi stavano osservando. Altre volte, invece, ero io che m’incantavo a guardarla mentre ancora dormiva. Seguivo il suo respiro calmo e regolare. Mentalmente avrei voluto prolungare all’infinito quegli istanti. Poi, quando si svegliava, l’attiravo a me per sentire il profumo del suo corpo, gustare il sapore delle sue labbra, avvertire la morbidezza del suo seno e riprendere con le mani l’esplorazione interrotta poche ore prima. Incontrare la sua pseudoresistenza, verificare, dopo un soffio di minuti, la capitolazione. Amarla in modo completo e totalizzante. Non ho mai amato così profondamente una donna alla quale avevo consegnato le chiavi della mia anima.

Una ragazza, dotata di una squisita sensibilità e sublime femminilità, ha rilevato questo e ne sono rimasto ammirato, perché sono le stesse parole che tante volte ho adoperato con Lei. Gliel’ho anche scritto. Dopo. Tante cose ho fatto, dopo.

Un anno fa, al telefono, nella drammatica e conclusiva conversazione che sanciva ufficialmente la fine, seppure senza addio, le urlai il mio amore, dopo averglielo dimostrato con i fatti. Un ultimo appiglio a cui aggrappare i miei sentimenti. Non se l’aspettava. La sua voce s’incrinò. Affondai il colpo, ormai disperato, aggiungendo che avrei voluto avere un figlio da Lei. Credo stesse piangendo, riuscii solo ad afferrare che l’avrei allora fatto con un’altra, ma ormai le parole stavano svanendo. Il tempo a disposizione era scaduto.

Ricordo che una sera, mentre stavamo cenando in un ristorante (secoli fa, era ancora sposata) si affrontò l’argomento, ma in toni leggeri, disimpegnati. Non vi erano nubi all’orizzonte. Mi domandò se mi sarebbe piaciuto avere un figlio. Le risposi: “Più una femmina che un maschio”. Me ne chiese il motivo e le spiegai che una femmina sarebbe stata bella come Lei. Gli occhi le brillarono, ricacciò indietro le lacrime. Sussurrò un “grazie” che mi commuove ancora.

Già, sono ancora così fragile che anche una parola basta a commuovermi.

Accendo lo stereo, parte un cd che avevo dimenticato nel lettore. Gino Paoli. Mi interrogo dove e quando l’abbia acquistato e mentre realizzo che era stato un suo regalo, si diffondono le struggenti note di “Una lunga storia d’amore”. E crollo.  

La sofferenza passerà pure, ma  l’aver sofferto resta.

sabato 12 febbraio 2005

La cattiva maestra

 

 

Ho contato in edicola almeno una decina di riviste sulla televisione. Non saggi, come quello scritto da Karl Popper, raccolte antologiche o pubblicazioni tecniche per elettricisti. Si tratta proprio di settimanali che si occupano esclusivamente dei programmi televisivi, raccontando ogni minimo dettaglio di tutto ciò che ruota attorno a quello che, una volta, era un semplice elettrodomestico, un novello focolare per la famiglia e che invece, adesso, è diventato un formidabile strumento di consenso (e rimbecillimento) di massa, oppure di persuasione occulta, parafrasando Vance Packard.

Proprio qualche giorno fa un lettore de “la Repubblica” (la rubrica della posta di ogni quotidiano è sfiziosissima, dopo la prima pagina è lì che plano, anche se la domenica vengono prima i “cattivi pensieri” di Gianni Mura) si lamentava perché, costretto a casa dall’influenza, aveva (dovuto?) seguire una serie di programmi non esaltanti (ma di leggere non ci riusciva proprio?).

Sembra davvero che non si possa prescindere dal video e così, più per creare una tendenza piuttosto che intercettare le esigenze delle persone, sono fiorite nell’ultimo periodo una serie di pubblicazioni che guidano alla visione del mezzo. Ce n’è perfino una che costa venti centesimi, che lascia perplessi per un prezzo chiaramente stracciato e che, evidentemente deve avere solide basi o altro. Persino il gruppo editoriale de “L’Espresso”, dopo l’acquisto di Rete A da parte di De Benedetti, ha deciso di andare a contrastare la concorrenza (che poi sarebbe B. tessera P2 n°1816) sul terreno specifico. E allora mi viene da pensare che su questo campo si giochi qualcosa di più rilevante che non il semplice predominio della prima serata, la conquista dello share più elevato, il monopolio dell’Auditel. Mentre la pubblicità entra nelle vene e agisce.

Ma intanto che si dia al teleconsumatore ogni opportunità di aggancio al video, la possibilità di avere i palinsesti sotto controllo vivendo in una virtualità che più virtuale non si può, abitando in un paese irreale, popolato da venditori di sogni. E che possa palpitare per le Elise di Rivombrosa, il bel finanziere o l’affascinante maresciallo dei carabinieri, mentre il padrone del vapore in ben altre faccende è affaccendato e se la ride per lo spettatore che paragona ad uno studente di seconda media e neppure tanto brillante.

Questo moderno oppio dei popoli annulla le capacità critiche, crea ad arte oltre che bisogni, come osservava giustamente una blogger alcuni giorni fa, drammoni popolari (Cogne e il teatrino dell’assurdo a “Porta a porta”), oppure mette il dito dove non dovrebbe, cioè tra moglie e marito: la separazione fra la Ventura che ha deformato quell’ottimo programma che era “Quelli che,,,” trasformandolo in una volgare marchetta per i cafoni di turno e Bettarini, ex brillante calciatore di buone speranze, è stata seguita passo dopo passo, in uno stucchevole spettacolo dove dei presunti sentimenti che avrebbero dovuto legare e poi sciogliere quel rapporto, non vi era traccia. Tutto quanto fa spettacolo e audience, insomma. Non ci si può stupire, quindi, se una ragazza preferisce fare la velina e non l’infermiera.

Aspettiamoci una liturgia ininterrotta, poi, quando si avvicineranno le ultime ore di vita del Papa: è già pronto, secondo precise direttive Rai, l’appalto in mondovisione a Bruno Vespa con tanto di pronostici per la successione e, almeno qui, B. tessera P2 n°1816, non sarà candidato. O sì?

mercoledì 9 febbraio 2005

Le conseguenze dell'amore

Quando si è innamorati si vive una condizione di pienezza. E di armonia con tutto e tutti. Esiste una sola stagione: quella del sole. Esiste un solo nome: il suo, bellissimo. Esiste una sola prospettiva che il trascorrere delle giornate accompagna e favorisce: quella di rivederla.

Un mese dopo averla conosciuta, siamo dunque nel mese di giugno di quattro anni fa, mi dovetti sottoporre ad un piccolo intervento chirurgico. In condizioni normali, avrei vissuto la fase di avvicinamento al ricovero con parecchia apprensione, anche per le ridotte esperienze ospedaliere in qualità di paziente. Ho avuto una grande fortuna in questo. La memoria delle mie due degenze mi porta molto indietro nel tempo: 1969 e 1976. Non solo. Ma non ero mai stato operato prima di allora, grazie all’assistenza di un destino, almeno con me, benevolo.

Perciò, per quanto banale potesse essere l’operazione e breve il ricovero previsto (tre giorni) si trattava pur sempre di andare sotto i ferri ed essere sottoposto ad anestesia. Insomma, tante prime volte (o quasi). Eppure, proprio in virtù di quella straordinaria propulsione che lo stato di amore nascente produce, mi accostai a quell’esperienza con una tale carica vitale da contagiare i compagni di avventura. Tranquillità e sicurezza, sotto la sua ala protettiva.

Mi ero portato un libro (“L’incendiaria” di King), ma non mi fu possibile terminarlo, perché sempre impegnato in svariate conversazioni. Avevo troppo da esprimere. da raccontare, soprattutto cercavo conferme, consigli, perché uno in più non fa mai male, su come gestire la delicata situazione di una donna che avrei voluto incontrare più spesso, ma essendo ancora sposata non avevo la possibilità di concretizzare i miei (e suoi) desideri. E poi la presenza e il ruolo del marito, cosa sapeva, quali rischi si correvano (in passato, al massimo, ero incappato in qualche fidanzato poco socievole, per adoperare un eufemismo).

Evidentemente, quando si è innamorati lo sanno pure le stelle che diventano più luccicanti, perché nel reparto di chirurgia lavorava un infermiere che si era separato da poco e con il quale si stabilì, ovviamente un immediato affiatamento. Perfino al mio compagno di stanza, un signore anziano, trovai modo di raccontare la complessa situazione e questi, lungi dallo scandalizzarsi, non solo mi incoraggiò ad andare avanti, ma mi confidò che anche lui, da sposato, qualche peccatuccio l’aveva commesso. Mi riuscì perfino di scherzare con l’infermiera che doveva eseguirmi la cardiografia: il cuore stava funzionando perfettamente.  

Il giorno dopo, quello fissato per l’operazione, mi vide depositario di una calma olimpica e quindi, esauritosi l’effetto dell’anestesia parziale, strinsi i denti, ma non accettai nessun farmaco per poter dormire durante la notte. Per contrastare il dolore disponevo di altre risorse.

Trascorse 48 ore di degenza le dimissioni, il ritorno a casa e la convalescenza (anche il medico che mi aveva operato era stato reso edotto, poiché gli avevo chiesto quando avrei potuto affrontare un viaggio). Amene prospettive, nel dopo ospedale, alimentate non solo dal riposo forzato, ma naturalmente dalla possibilità di poter riprendere a parlare con Lei, senza l’assillo del cellulare che si scarica, sebbene le volte in cui potevo chiamarla sul fisso non fossero numerose, almeno all’inizio. Quando però accadeva e il display si illuminava con il suo nome seguito da “casa”, era come se gli abitanti piumati di un’intera foresta si fossero messi a cinguettare all’unisono, era un arcobaleno luminescente di dieci, ma che dico: cento, ma neppure. Mille colori almeno.

Quando si è innamorati si è forti, più forti di sciagure, catastrofi, apocalisse terrene. E coraggiosi, impavidi, senza timore degli uomini e, oserei aggiungere, pure di Dio.

L’11 settembre capitò proprio nella settimana al termine della quale sarei andato a trovarla, come in precedenza concordato. Era un martedì e i giorni seguenti vennero vissuti nel segno dell’incredulità, dello smarrimento e di innumerevoli dubbi, annichiliti da quanto era accaduto. Mai però, per un solo istante, pensai che forse sarebbe stato meglio rinviare, perché mettersi in viaggio poteva anche equivalere ad esporsi a qualche rischio, magari imprecisato, magari indefinito (surreale l’idea di incrociare Bin Laden in coda alla biglietteria).

Così, venerdì 14, la partenza secondo i piani stabiliti. Ricordo l’atmosfera insolita, di fermento attorno alle edicole principali, giornali spalancati in quantità industriali, copertine di settimanali che “strillavano” edizioni straordinarie. Ma resta indimenticabile, soprattutto e significativamente, anche quell’incontro con Lei così spaventata e smarrita. Lei che, generalmente, non era molto coinvolta da avvenimenti esterni, m’inondò di interrogativi sullo stato del  mondo, di domande ansiogene, di riflessioni maturate improntate alla preoccupazione per il futuro della figlia, ancora così piccola.

“Ci sarà la guerra?” mi chiesero i suoi occhi extraterrestri, mentre si stringeva ancora di più a me. Ed io, guardandola come temo non sarò più in grado di guardare un’altra donna, le risposi che se il mondo fosse stato percorso da almeno un decimo di quello che era (in quel momento) il nostro amore, quel rischio non si sarebbe mai corso.

Forse, proprio per il clima di pervasiva inquietudine, lo ricordo come uno dei fine settimana più calorosamente trascorsi, limitatamente a quella fase che precedeva la sua separazione. Successivamente sarei salito in paradiso, giusto il tempo di uscire a rivedere le stelle e poi il rovinoso e catastrofico precipitare nell’inferno dei sentimenti, senza neppure la consolazione di un Virgilio accanto a farmi da guida.

lunedì 7 febbraio 2005

Scuola di carta...veline

Mi ostino ancora a considerare fondamentali l’istruzione e la cultura e, di conseguenza, attribuire la massima importanza alla scuola, riconoscendo il ruolo delicato che rivestono gli insegnanti. In particolare, mi riferisco alla scuola elementare (ora primaria?) e media inferiore, perché proprio qui si gettano le basi del futuro cittadino, ormai abitante del mondo. Per questo motivo sarebbe indispensabile un riconoscimento, a tutto tondo, per maestri e professori sia dal punto di vista morale che economico, fatto di gratificazioni, incentivi e stipendi proporzionati al compito che affrontano quotidianamente. Riprendo da www.repubblica.it :

"Scuola, un giovane su tre
si ferma alla licenzia media

ROMA - Un ragazzo su tre si accontenta della licenza media. Il 31,7% dei giovani si ferma alla scuola dell' obbligo, rinunciando a proseguire gli studi. Con il meridione che si aggiudica il primato della scolarizzazione ai minimi livelli. Mentre il record di laureati non si trova più al Centro-Sud ma al Nord. Lo afferma un'anticipazione di TuttoscuolaNews, che ha elaborato dati dell'Istat sul censimento 2001".

- Un ragazzo su tre si accontenta della licenza media. Il 31,7% dei giovani si ferma alla scuola dell' obbligo, rinunciando a proseguire gli studi. Con il meridione che si aggiudica il primato della scolarizzazione ai minimi livelli. Mentre il record di laureati non si trova più al Centro-Sud ma al Nord. Lo afferma un'anticipazione di TuttoscuolaNews, che ha elaborato dati dell'Istat sul censimento 2001".

Questo dato sconfortante, lasciando da parte l’immancabile divario che, purtroppo, si registra tra Nord e Sud, lo collego ad un’altra notizia, sempre fornita dallo stesso sito: "Sanremo, Fiorello ci riprova
"La valletta è Federica Felini"

La fanciulla ci tiene a farci conoscere le sue prerogative."Ho due grandi obiettivi. Il primo è quello di sfondare davvero nel mondo della moda. E poi mi piacerebbe tanto un domani poter condurre un programma in tv", dichiara la Felini, top model emergente delle sfilate milanesi, in un'intervista su Internet, nel corso della quale dice anche di essere fidanzata e timida. "In passerella mi trasformo, cambia tutto, paure e timidezze scompaiono. La prima volta in cui sarei dovuta sfilare con un seno scoperto tremavo all'idea. Poi in pedana è sparito ogni timore".

Non so se la ragazza si sia fermata alla scuola media, oppure abbia proseguito oltre, ma è significativo che le massime aspirazioni siano veicolate dalla televisione, dai modelli imperanti e non da altro. Francamente non sono ansioso di conoscere se sarà effettivamente lei a copresentare quello che viene ancora pomposamente definito "Festival della canzone italiana". Di certo, agli occhi dei più giovani, rappresenta il simbolo di colei che ce l’ha fatta. E suggerire che, se si possiedono risorse estetiche, può anche essere sufficiente non andare oltre la scuola media.

Forse l’accostamento potrebbe essere fuori luogo, forse troppo arbitrario, ma c’è qualcosa che mi sfugge (e non comprendo) se si sgomita per diventare veline, letterine, posare per i calendari, rincorrere i "saranno famosi", per fare capolino sul video, mentre l’ignoranza viene elevata a valore assoluto. E così, lo smantellamento della scuola pubblica può proseguire, senza incontrare molta resistenza.

"Scuola, un giovane su tre
si ferma alla licenzia media

ROMA - Un ragazzo su tre si accontenta della licenza media. Il 31,7% dei giovani si ferma alla scuola dell' obbligo, rinunciando a proseguire gli studi. Con il meridione che si aggiudica il primato della scolarizzazione ai minimi livelli. Mentre il record di laureati non si trova più al Centro-Sud ma al Nord. Lo afferma un'anticipazione di TuttoscuolaNews, che ha elaborato dati dell'Istat sul censimento 2001".

Questo dato sconfortante, lasciando da parte l’immancabile divario che, purtroppo, si registra tra Nord e Sud, lo collego ad un’altra notizia, sempre fornita dallo stesso sito: "Sanremo, Fiorello ci riprova
"La valletta è Federica Felini"

La fanciulla ci tiene a farci conoscere le sue prerogative."Ho due grandi obiettivi. Il primo è quello di sfondare davvero nel mondo della moda. E poi mi piacerebbe tanto un domani poter condurre un programma in tv", dichiara la Felini, top model emergente delle sfilate milanesi, in un'intervista su Internet, nel corso della quale dice anche di essere fidanzata e timida. "In passerella mi trasformo, cambia tutto, paure e timidezze scompaiono. La prima volta in cui sarei dovuta sfilare con un seno scoperto tremavo all'idea. Poi in pedana è sparito ogni timore".

Non so se la ragazza si sia fermata alla scuola media, oppure abbia proseguito oltre, ma è significativo che le massime aspirazioni siano veicolate dalla televisione, dai modelli imperanti e non da altro. Francamente non sono ansioso di conoscere se sarà effettivamente lei a copresentare quello che viene ancora pomposamente definito "Festival della canzone italiana". Di certo, agli occhi dei più giovani, rappresenta il simbolo di colei che ce l’ha fatta. E suggerire che, se si possiedono risorse estetiche, può anche essere sufficiente non andare oltre la scuola media.

Forse l’accostamento potrebbe essere fuori luogo, forse troppo arbitrario, ma c’è qualcosa che mi sfugge (e non comprendo) se si sgomita per diventare veline, letterine, posare per i calendari, rincorrere i "saranno famosi", per fare capolino sul video, mentre l’ignoranza viene elevata a valore assoluto. E così, lo smantellamento della scuola pubblica può proseguire, senza incontrare molta resistenza.

mercoledì 2 febbraio 2005

Caro diario

Il blog (questo, grazie alla vostra partecipazione, ha da pochissimo girato attorno alla boa del primo mese) è diventato, nel tempo di Internet, quasi l’equivalente virtuale del diario cartaceo.

Iniziai a scrivere il mio primo quaderno nel 1969 e l’esigenza nacque contemporaneamente all’apparizione del primo amore, quello che non si scorda mai e all’arrivo, nella mia classe di media inferiore, di una ragazzina accompagnata da Cupido. Anzi N. la trovai in aula, nel primo giorno di scuola di prima media, per un personale ’68 sentimentale.

Proveniva da un’altra località, timidissima e sempre accanto all’inseparabile compagna di banco. Era molto graziosa, poco loquace e assai impegnata nello studio, tra le prime della classe.  Io, ancora più imbarazzato di lei e alla ricerca, ogni giorno, di qualche artificio per suscitare la sua attenzione, con risultati mediocri assai. Non si accorgeva di me, non facevo effetto insomma e, mentre Cupido mi tormentava, dovevo sfogarmi con qualcuno. Scrivere un diario mi parve perciò la cosa migliore.

Potevo raccontarmi, immaginare situazioni, definire strategie, anche se il termine era certamente eccessivo. Ma quel primo anno scolastico si chiuse senza risultati significativi. Poiché però l’ormone dell’adolescente stava germogliando, l’estate ne accelerò la maturazione. E così trovai nuova materia per i miei resoconti serali che solo io, naturalmente, leggevo e rileggevo. Nessuno sapeva che custodivo i miei segreti in un quaderno.

Fu in quel periodo che apparve A. una ragazzina, anche lei timida, ma già in grado di attirare l’attenzione dei ragazzi più grandi. Dalla mia godevo del vantaggio di avere una cugina che faceva parte del suo gruppo e così, estasiato da film e da letture fatte, decisi di compiere un passo compromettente e audace: le feci pervenire uno “smack”, con tanto di labbra disegnate su un bigliettino, tramite questa cugina. E attesi la risposta assieme al mio diario. Più che risposta si trattò di una domanda, vale a dire se il bacio fosse da intendersi sulle labbra o sulla guancia. Inconsapevole e poco addentro a come lo preferissero le ragazze, optai per la guancia. Il nuovo messaggio fu recapitato e la risposta si concretizzò, sotto forma di un altro bigliettino, che riproponeva lo stesso “smack”, ma più colorato e le stesse labbra con tanto di punto esclamativo.

Il diario s’incendiò, anche se quell’estate non fu torrida, così dai bigliettini senza parole, passai alle prime incerte frasi, brevi, essenziali, che suscitarono un favorevole riscontro. Ma essendo A. più piccola di me, con l’inizio di un nuovo anno scolastico tornò a prendere il sopravvento N, e la gestione della situazione amorosa divenne  singolare. Al mattino la compagna di scuola timidissima, ma ancora più carina, davvero amabilissima, mentre nel pomeriggio e nei fine settimana, proseguiva la tenera corrispondenza a distanza, molta distanza e per interposta persona, con A.

Per effetto della duplice attrazione lievitò anche il numero dei quaderni. Riempivo pagine su pagine, in vari momenti della giornata, segnando i successi (pochi) e gli insuccessi (frequenti). Custodivo tutti quei diari, un carico di segreti ingombrante, in un cassetto della scrivania che aveva, però, l’imperdonabile difetto di non avere una chiave e così i quaderni avevano trovato un loro rifugio proprio in fondo al cassetto da cui, poi, li recuperavo quotidianamente. E proprio lì andò a trovarli la cugina, piombata in camera in mia assenza e A. lesse per la prima volta ciò che provavo per lei. Al ritorno trovai fra le pagine un pupazzetto di lana gialla. Il cuore mi faceva provare emozioni inedite e perfino paralizzanti.

Ma la notizia di quella visita aveva suscitato scalpore tra le altre amiche del gruppo e quei messaggi, quelle letture e le troppe confidenze sparpagliate in giro, arrivarono pure alle orecchie dei genitori di A. i quali stabilirono che si stavano oltrepassando i limiti e imposero lo stop, credo interpretabile già da allora come senza “se” e senza “ma”.

Il diario registrò, in quella circostanza, la data fatidica, anche se non ricordo particolari traumi, perché a scuola restava l’imprendibile e silente N. Il terzo e conclusivo anno scolastico, poteva rivelarsi determinante e non c’era tempo da perdere. Di progressi, sul piano della comunicazione, ne erano stati fatti. Piccoli passi, intendiamoci, certo non tali da permettere una dichiarazione a cuore aperto, quel cuore all’inizio degli anni ’70.

In compenso era il diario, ormai arrivato all’ottava edizione intesa come numero di quaderni, a raccogliere tutti i miei desideri e confortare, assecondandola, la mia fantasia che, sulla carta, scorreva fluidamente. Era poi al contatto con la realtà che perdeva ogni contorno, diventando evanescente e facendomi perdere l’attimo fuggente. Non servirà aggiungere che si concluse anche il terzo anno di scuola media, senza che ulteriori ed apprezzabili progressi fossero stati fatti: mancava il salto di qualità. Di fronte alle ragazzine che mi piacevano, mostravo preoccupanti incertezze che poi tradivano il mio stato d’animo e così restavo fregato.

L’ultima immagine di N. è racchiusa in un delizioso cameo. Il giorno degli esami indossò un abito che confermava la mia scelta (virtuale): un completo color sabbia, con una mini che suscitò unanimi consensi tra i maschietti. Infatti, abituati a vedere le ragazze nell’austero grembiule nero, N. fu una rivelazione per tutti.

Terminato l’esame, la nuova estate segnò anche la fine definitiva dell’infanzia e il passaggio verso l’adolescenza con l’iscrizione all’istituto superiore. Invano confidai che N. proseguisse gli studi, ma non seppi altro. Mentre quei quaderni cominciavano a pesare nel cassetto, ingombranti con il loro carico di confidenze e per la facilità con cui potevano essere carpite.

La cugina di era defilata, A. pareva irreperibile, continuare a scrivere un diario mi sembrava troppo infantile e sterile. Perciò, i quaderni rimasero al loro posto per qualche anno, poi al compimento della maggiore età, posseduto da una furia iconoclasta li bruciai e rimasi ad osservare quei pensieri, quelle emozioni, quelle tante prime volte, quella lieta adolescenza vissuta che si accartocciavano anneriti, fino a diventare cenere. Solo allora sollevai la mia bocca dal fiero pasto.

Ho sempre rimpianto, a posteriori, quel gesto dissennato e imperdonabile.

A. mantenne tutte le promesse diventando una splendida donna: alta, slanciata, capelli lunghi biondi. In seguito, più volte l’ho incontrata, non nascondendo un certo tremore, spesso chiedendomi se anche in lei fossero rimasti vivi e palpitanti quei primi battiti del cuore, ma non l’ho mai coinvolta in queste rimembranze. Da anni si è trasferita, con il marito e i figli, in un’altra città.

N. l’ho rivista, invece, pochi anni fa, in occasione di una tradizionale rimpatriata (la prima del genere) tra compagni di scuola, a distanza di quasi trent’anni. Sposata e con tre figlie. L’emozione di ritrovare una donna carinissima è piacevole da rievocare oggi. Al termine di quella cena di gruppo ci congedammo intrecciando promesse di arrivederci. Tornato a casa, nel cuore della notte, mi misi a scrivere di getto inondando i fogli (non avevo ancora il pc) di tutte le infinite suggestioni assaporate in quella serata (dove, per la cronaca, non toccai quasi cibo, io che cerco di onorare ogni tavola imbandita), troppo grandi per poter essere compresse nella mente. Mi rispose, gradevolmente impressionata e confermata nei positivi ricordi che aveva di me, credo anche le goffaggini. Non mancò di confidarmi un tenero dettaglio, vale a dire che se avesse risposto ad un mio messaggio e ad una poesia che le avevo inviato (particolari inediti che non ricordavo proprio) chissà... Avrebbe potuto essere la ripresa, dopo tantissimi anni, di emozioni sospese in aria, pronte per poter essere afferrate e anche gustate, ma un tragico evento che mi coinvolse spezzò quel timido sogno, riportando N. nella pinacoteca dei ricordi di un’adolescenza lieta e remota.