lunedì 13 luglio 2015

Quando l'amore finisce/2



L'ho amata tanto. Lo so che è così, perché i ricordi non mentono, le emozioni non tradiscono e guardandomi indietro vedo solo una lunga strada, un rettilineo che ho percorso condividendo. Mi è sempre piaciuto molto il passaggio dalla prima persona singolare, alla prima plurale, perché trascina con sé una crescita, un arricchimento. E i ricordi sono tutti declinati alla prima persona plurale. Parlando assieme si adoperava il “noi”, decidendo quale iniziativa seguire si adoperava il “noi”, anzi no, magari arrivava prima l'uno o l'altra a chiedere: “Cosa vorresti fare?”, ma poi sempre in due si agiva.
Le foto hanno contrassegnato il cammino insieme, persino qualificandolo. Si capisce, osservando quelle immagini, che erano scatti di amore. Che sono scatti di amore, perché le foto non scompaiono e, in taluni casi, diventano materia via, palpitano.
Il piacere dell'attesa di rivederla, che poi era gradevolissimo prolungare qualunque fosse stato il motivo. Magari un ritardo, una coincidenza che salta. L'irritazione prima e la considerazione ponderata dopo, trasformavano il negativo in positivo. Pure se quel ritardo non si sarebbe più recuperato. Ma c'era la pienezza del rapporto che assorbiva senza scorie l'imprevisto. Il problema nasceva alla partenza, anzi il giorno prima della partenza che già sapevi sarebbe stato l'ultimo tutto completo. E per allontanare, rimandandola, la mestizia del distacco, il proposito immediato era quello di godersela totalmente quella giornata, seppur caratterizzata, nei vari periodi, dall'ultimo pranzo o dall'ultima cena (ma quella portò male a qualcuno già in illo tempore).
Si fingeva, fingevo con me stesso, ma sapevo che non era la stessa cosa e incombeva il giorno dopo che, rifletto adesso, non era che l'inizio di un nuovo conto alla rovescia per il successivo incontro. Già.
Sapevo, anzi sapevamo che ci sarebbe stato. Non ne avevamo già parlato forse? Non avevamo compulsato il calendario alla ricerca della giusta convergenza? Tutto bene, no? Tutto risolto? Era sempre un penultimo saluto. Mai l'ultimo. Già.
Ma la sequenza si sarebbe interrotta e stringe troppo il cuore, fino a far male, focalizzare l'ultima immagine, l'ultimo sguardo, l'ultimo bacio”.

Si interrompe. Si alza. Se ne va. Gocce di pioggia sul vetro della finestra scivolano come lacrime sul viso.

lunedì 29 giugno 2015

Quando l'amore finisce


“Quando un amore finisce non evapora all'improvviso, ma perde piccoli pezzi un po' per volta. E ogni dialogo toglie e non aggiunge. Sottrae speranze, modifica orientamenti. Le conversazioni, da piacevoli e divertenti, rappresentano sempre più un'occasione per evidenziare i contrasti, dividere e non unire.

Un muro che viene costruito, forse senza neppure averne piena consapevolezza, eppure sostituisce quel ponte che invece si vorrebbe o potrebbe stendere da una riva all'altra del cuore. Era un sentiero prima percorribile, senza scorciatoie, senza diramazioni. Un fondo magari non uniforme, ma scorrevole e che giorno dopo giorno diventa acciottolato, un'erta difficile da scalare, ma su cui si prova ad inerpicarsi, perché ancora qualche speranza è possibile.

Poi ti ritrovi più povero. Ti accorgi che le risorse si stanno esaurendo, che quei dialoghi racchiudono irritazione e producono amarezza. Che non sono il momento tanto atteso della giornata, ma un'esperienza da sfuggire, da evitare. Che angoscia, invece di rallegrare. O almeno rasserenare.

Quando un amore finisce ti aggrappi ai ricordi, alle giornate più luminose, alle parole dette e ascoltate con apprensione. Ma non quella che sembra adesso precedere la frase definitiva, ma un'apprensione gioiosa, nell'attesa che precede quel momento particolare. 

Ti chiedi, anche, se sia stato reale quello già vissuto, talora con incredulità, perché quello attuale prelude ad una realtà che una volta sarebbe stata inverosimile e invece, adesso, è immanente, toglie il respiro, come facevano mancare il fiato quelle emozioni indimenticabili. E adesso sì irripetibili.

Quando un amore finisce non esistono artifici per mantenerlo in vita, perché le emozioni non si possono camuffare, soprattutto quelle negative che poi si trasformano da emozioni in angosce fino a conficcarsi in quel cuore ardente e pulsante. Sono frecce acuminate, intinte nel curaro, fanno male, ma non producono lo svenimento che vorresti, oh no. Anzi si fanno strada nella ferita aperta e stordiscono. Ma resti, purtroppo, lucido. E vorresti razionalizzare il fatto, analizzarlo, scomporlo in tanti frammenti, anatomizzarlo... No, adesso no, non è quel momento e non sai neppure se sarà utile farlo, se servirà a qualcosa. A cosa poi?

Quando un amore finisce hai perso ogni punto di riferimento, la bussola dei sentimenti è impazzita, non ritrovi più niente nel disordine amoroso. Ci si avvita su se stessi, evitando l'errore esiziale di farsi forza con i ricordi, di leggere ciò che si era scritto, di ricordare attraverso le foto quanto tu sia stato felice. Mentre la guardi in quelle immagini sorridenti e non sembra possibile che adesso, quella stessa meravigliosa persona, ti addebiti ogni colpa. Maledetto il giorno in cui ti ho incontrato. Certo, non lo dice, ma sostituisce l'espressione con una frase equivalente del genere: «sono responsabile del male che mi sono fatta conoscendo te».
Ecco, adesso l'amore è finito”.

Si interrompe. Si alza. Se ne va. Gocce di pioggia sul vetro della finestra scivolano come lacrime sul viso.



mercoledì 8 aprile 2015

La tortura che non c'è



Testimonianza raccolta ieri su una bacheca di Facebook.
“Io ero scappato da Genova la sera prima. Avevo 24 anni. Non so se sono solo un ragazzo fortunato o se ho un affinato sesto senso. Sta di fatto che me la sono cavata in tante brutte situazioni. Da solo. Anche a Genova nel 2001. Avevo la prevendita per il concerto degli U2 a Torino quella sera che avrei dovuto convertire in biglietto d'ingresso, anche se non avevo più speranze di riuscire ad andarci. Dopo il grande corteo del sabato, non so nemmeno io come, arrivai stradina per stradina fino alla stazione di Genova Bolzaneto senza mai essere fermato dalle forze dell'ordine, a parte una volta. L'atmosfera era terribile, a Genova non esistevano più garanzie civili, non eri più niente, poteva accaderti di tutto. Dietro le divise non c'erano solo bravi ragazzi, c'erano anche tanti animali. È stata una delle poche volte in vita mia in cui ho avuto paura di morire. Un po' confuso su cosa fare, se restare o scappare, riuscii a prendere uno dei pochi treni che lasciavano la città verso Torino. Genova era bloccata, una trappola per topi. A Torino vidi così il concerto, già iniziato quando arrivai e senza il biglietto scavalcai con impeto le altissime cancellate dello Stadio pur di entrare. Dormii poi nelle aiuole della stazione di Torino e la mattina presto presi uno dei primi treni che tornava verso Genova. La notte prima avevo dormito per strada, per terra, alla Foce, vicino al mare, sede del Genoa Social Forum, coperto con un telo di cellophane preso da una pedana di casse d'acqua. Era morto Carlo Giuliani. Era l'unico posto dove mi sentivo sicuro, avvertivo che quella notte sarebbe accaduto qualcosa di brutto. Quella notte invece non accadde nulla. Al mattino, infreddolito, stanco, puzzolente e incazzato nero col mondo, andai a vedere che fine avessero fatto la mia tenda, il mio zaino e il mio sacco a pelo nel parco dove dormivo insieme ad alcune centinaia di persone. Di li a poco c'era il grande corteo. Arrivai che c'era un'aria tesa, nessuno aveva dormito sereno perché tutti temevano retate violente e improvvise. Non accadde nulla quella notte. Ma tutti sentivamo che prima o poi sarebbe successo qualcosa, da qualche parte, a qualcuno. E poteva essere a te dove eri in quel momento senza che te lo aspettassi. Non eravamo più persone. Eravamo carne da macello. Fu allora che pensai che quella notte sarei andato a dormire alla Scuola Diaz, che era uno dei pochi posti sicuri, per non dormire all'aperto di nuovo qualora non fossi riuscito ad andare a Torino. A Torino quella notte invece inaspettatamente ci arrivai. Quando poi rientrai a Genova la mattina seguente in una assolata domenica di luglio l'atmosfera a Genova era di una calma surreale. Sembrava il day after in un film di fantascienza. Io non sapevo nulla di quello che era accaduto in quello ore, ero ignaro di tutto. Non era ancora il tempo dei social network e degli smartphone. Le cose le conoscevi perché le vivevi davvero. Arrivai alla Foce al GSF che era già in corso un'accesa assemblea pubblica sotto un sole cocente. Parlavano di quello che era accaduto la notte prima. Respiravi rabbia. C'era tensione. Io non capivo, ero spaesato. Sembrava mancassi da giorni ma mancavo da meno di dodici ore. Anche io ero nervoso e arrabbiato per tutto quello che avevo visto e vissuto in quei giorni. Fu nel corso delle ore che conobbi quello che era accaduto quella notte in quelle ore in cui io ero scappato a Torino. E quello che stava in realtà ancora accadendo. Quello che tutti temevano. Ed era accaduto alla Scuola Diaz dove non te l'aspettavi. Sangue di gente, ragazzi e non, che si trovava lì per caso. Carne da macello à la carte. Come me. Salvato io però da un concerto degli U2. Noi tutti lì presenti sapevamo cosa era accaduto davvero, mentre tutto il mondo ha dovuto attendere oggi una sentenza a Strasburgo. Noi sapevamo. Noi abbiamo visto. Noi c'eravamo. Noi siamo scampati o sopravvissuti. Noi eravamo in pochi migliaia fuori dal Matrix. Quella sera di luglio quel treno che mi ha portato per poche ore al sicuro a Torino e quel concerto mi hanno salvato la vita in più forme. Perché io non perdono. Io voglio ancora sapere chi sono, dove abitano e dove sono i loro figli. Loro non hanno pagato e forse non pagheranno mai così come però nemmeno noi non dimenticheremo mai. E forse un giorno pagheranno, in qualche modo la pagheranno, e se non loro i loro figli. Genova ha rappresentato per me l'inizio della fine delle cose in cui credevo e per la quale avevo combattuto un'adolescenza e una giovinezza intera, quasi sempre da solo e controcorrente. Quella notte sono stati pestati a sangue i miei valori. Hanno sanguinato i miei ideali. Qualcuno scrisse su un cartello nella Scuola Diaz "Non pulite il sangue". Era qualcuno che nonostante tutto aveva ancora vivi i suoi valori e i suoi ideali. Io ho perso a Genova. Quella persona oggi ha vinto a Strasburgo”.


domenica 5 aprile 2015

Il ritorno


Alla fine la vita non è fatta solo di labirinti pieni di giravolte, strettoie, spigoli e gomiti dove uno rimane intrappolato. Ci sono anche sentieri, strade, pianure, praterie e orizzonti illimitati da esplorare. Si tratta solo di non aver paura, di mettersi in cammino e non voltarsi mai verso il passato”.
Sono le righe conclusive del noir di cui è raffigurata la copertina. Si tratta di considerazioni che elabora Petra Delicado, ispettrice capo della polizia di Barcellona, felice creazione della scrittrice Alicia Giménez-Bartlett. E il libro, letto alcuni mesi fa, lo consiglio per la piacevolezza della scrittura.
Le frasi riportate nulla hanno a che vedere con il racconto (e quindi non viene rovinato alcun finale), ma possono avere una valenza comune, facilmente adattabile. A me stesso, per esempio, per rimettermi in cammino sulle strade del blog da troppo tempo abbandonate, rivalutando non solo la “creatura” che affannosamente avevo trasferito dalla piattaforma originale a questa, ma anche le riflessioni più accurate, meditate, che nel frenetico mondo dei social network non trovano accoglienza. E neppure possono. Meglio così. Meglio riapprodare su sponde un tempo amate, tra cerchie più ristrette e selezionate. In fondo i sentimenti non possono essere condivisi con superficialità, ma vanno tutelati da tutto ciò che potrebbe nuocergli. Sono fragili, i sentimenti. Esporli alle intemperie, seppur metaforiche, non è certo la cosa migliore. A meno che non si voglia farli deperire. 

domenica 8 settembre 2013

Impressioni a settembre


Fanno quasi tenerezza queste giornate settembrine di sole. Come se l'estate evaporando volesse lasciare una carezza calda e farsi perdonare il pugno rovente di luglio. E io, che di luce e calore mi nutro, le assaporo con voluttà, mentre la consapevolezza della stagione declinante incide la malinconia nell'anima. 
Settembre, nei ricordi dell’infanzia, rappresentava il terzo e ultimo mese di vacanza, quando le scuole iniziavano il 1° ottobre e c’erano i “remigini” in prima elementare.
Perciò era necessario ricominciare a prendere confidenza con libri e quaderni, allegramente abbandonati nella prima metà di giugno. Magari un po’ si sbuffava, il giusto però, senza isterismi. Eravamo più tranquilli tutti. E poi collaborava il tempo, nella persuasione, che s’incaricava di dissolvere ogni immagine vacanziera con quella pioggia sottile, che pareva sospesa per aria e l’ineluttabile progressivo calo delle temperature. Anche questo vissuto senza drammi, perché in tv ci pensava il colonnello Bernacca a rassicurare, con bonomia e pacatezza. E i telegiornali non aprivano con la “sconvolgente” notizia che cominciava l’autunno.
Rivedo, tra la caligine delle immagini, un maglione a trecce color corallo, quello che mia madre mi faceva indossare prima di uscire, al posto delle magliette a maniche corte (che non erano ancora t-shirt) destinate ad essere riposte nei cassetti. E poi, rientrato a casa, avvertivo nell’aria quell’aroma di naftalina, perché dagli armadi si tiravano fuori le prime leggere coperte per dormire al caldo durante la notte.
Adesso, che queste suggestioni non esistono più, è il calore dei sentimenti a riscaldarmi, mentre calano le ombre della sera e la domenica è già finita.

sabato 15 dicembre 2012

I falsi problemi del mercato del lavoro


I falsi problemi del mercato del lavoro

Mario Sai

Il governo Monti motiva i suoi interventi di "riforma" (dalla previdenza al mercato del lavoro) con la necessità di affrontare la questione giovanile, che deriverebbe dalla netta separazione che si è venuta formando tra "garantiti" (i lavoratori sindacalizzati) e "non garantiti" (i giovani precari o i nuovi lavoratori autonomi). In questo contesto la questione dell'art. 18 viene considerata contemporaneamente "marginale" (interessa pochi casi) e "decisiva" (perché senza flessibilità in uscita non si creerebbero nuovi ingressi al lavoro).
Non sono vere né l'una, né l'altra cosa. I lavoratori privati protetti con il reintegro nel posto del lavoro in caso di licenziamenti senza giusta causa sono dieci milioni. La norma ha un'indubbia efficacia generale dimostrata proprio dallo scarso contenzioso che genera. Invece il processo di sostituzione giovani-anziani è in Italia in corso da tempo. Lo dimostra il tasso di occupazione delle persone tra i 60 e i 64 anni: e da noi è al 20 per cento contro una media europea del 30 per cento.
Dove ci sono più anziani al lavoro, come in Germania dove sono quasi il 40 per cento degli occupati, il tasso di disoccupazione si ferma al 5,5 per cento e quello giovanile è al 7,8 per cento, il più basso in Europa. In Italia l'espulsione dei lavoratori anziani va insieme con un tasso di disoccupazione alto (oltre il 9 per cento); l'aumento dei giovani disoccupati (al 31 per cento); un tasso di inattività femminile da record (il 48,9 per cento).
Lo sciopero generale proclamato dalla Cgil avrà tanta forza nel contrastare le politiche del Governo non solo se cresceranno le lotte unitarie nei luoghi di lavoro ma se si creerà anche un vasto fronte di mobilitazione politico-sociale e culturale fondato sul convincimento che la condizione di giovani e anziani, di subordinati e autonomi, di stabili e precari deriva da cause comuni e solo con un programma comune può essere affrontata.
L'Italia è un Paese senza un'idea di sviluppo, senza una politica industriale, senza un piano energetico. Mentre il Governo Berlusconi si trastullava con il nucleare, la Cina è diventata il primo produttore mondiale di infrastrutture per lo sviluppo sostenibile, dai pannelli fotovoltaici all'eolico.
I bassi salari concorrono, con il calo degli investimenti pubblici e dei consumi privati, alla contrazione del nostro mercato interno. La struttura produttiva è scarsamente innovativa: questa è la vera causa della perdita di competitività delle nostre merci e servizi sui mercati globali. Tutto ciò sta alla base della crescente separazione tra competenze formate dalla scuola e dall'università ed occasioni di lavoro sempre più segnate da scarso contenuto professionale e modesto riconoscimento salariale.
L'esplosione del lavoro autonomo è una risposta a questa contraddizione: l'Italia con oltre tre milioni e mezzo di lavoratori in proprio, di cui il 40 per cento è tra i 15 ed i 39 anni è al primo posto in Europa.
Il processo di svalorizzazione economica e sociale del lavoro colpisce tutti, partite Iva e salariati. Le imprese hanno la necessità di chiedere ai lavoratori, a cominciare dagli operai, più autonomia e responsabilità, più capacità di ideazione e di soluzione di problemi, per realizzare la total quality. Questa richiesta di "partecipazione" mette in crisi la capacità di governo dell'impresa per cui può essere concessa a gruppi limitati di dipendenti, quelli centrali per le sue strategie. Per gli altri deve valere l'obbedienza alla gerarchia, la precarietà, la dispersione nel mondo frantumato dell'indotto.
Le ridotte dimensioni delle imprese italiane sono derivate, proprio, dall'applicazione particolarmente intensa dell'organizzazione del lavoro toyotista, basata sulla esternalizzazione massiccia di parti dell'attività produttiva verso le piccole imprese. Se esse sono fattore di rallentamento della competitività del Paese, ciò non ha a che fare con il vincolo dell'art. 18. Il punto di arrivo di questo processo è una società senza mobilità sociale e senza speranza di futuro. Si è prodotto un blocco che può produrre pericolose distorsioni nel percorso di vita e nelle prospettive di lavoro delle nuove generazioni.
Oggi esiste un "welfare" familiare che sostiene i tanti che perdono lavoro, in larga misura garantito da un sistema pensionistico che, però, sta perdendo potere d'acquisto (lo Spi-Cgil calcola un 30 per cento in meno il 15 anni). L'80 per cento dei giovani con meno di trent'anni vive in famiglia e un 10 per cento vi rimane fino a quarantaquattro anni.
La trappola dell'assistenza crea perdita di identità e depressione; fa oscillare tra rabbia e opportunismo, su cui si impiantano culture consolatorie che proclamano il pieno diritto all'appagamento immediato e assoluto di ogni esigenza, a quel "godimento" che Massimo Recalcati analizza nemico del "desiderio" di cambiamento, che ha bisogno di tempo e di senso del limite. Soprattutto cresce la velenosa cultura neo-liberista del conflitto intergenerazionale, che punta a mettere sotto accusa le conquiste sociali del passato, presentando le generazioni anziane come garantite da privilegi non più sostenibili a danno di una condizione giovanile fatta di precarietà e marginalità.
Ad un Paese che si ribella il Governo tenta di rispondere mettendo, nell'applicazione di regole e tutele, di nuovo i lavoratori privati contro i lavoratori pubblici; i giovani neo-assunti contro gli anziani stabili. Non è nel mercato del lavoro che sta il problema, sta nella macchina dell'accumulazione e nel modo in cui sono disciplinati i rapporti di lavoro, creati i bisogni, destrutturate le relazioni sociali e creata la "falsa coscienza" che tiene individui e comunità separati in mondi paralleli senza un progetto comune di cambiamento.
Cresce, però, la consapevolezza di quanto il capitalismo sia incapace di valorizzarsi attraverso la produzione di quei beni e servizi che sono basilari per il benessere delle persone e di come, invece, siano necessari investimenti pubblici orientati da una programmazione economica partecipata ed un grande Piano del lavoro.

(19 aprile 2012)

Le radici dell' odio contro gli ebrei


Le radici dell' odio contro gli ebrei
Pietro Citati

Le origini dell'antisemitismo sono antichissime. Era già diffuso, lungo i paesi del Mediterraneo, nel quarto o terzo secolo avanti Cristo, quando ebbe luogo la prima emigrazione giudaica. Sugli ebrei circolavano leggende simili a quelle narrate dai cattolici sino alla fine del diciannovesimo secolo, e oggi ripetute dai musulmani. Persino Tacito, il più grande e severo tra gli storici, che non sapeva niente di Israele, raccontava che gli Ebrei - questa taeterrima gens, «pervicacemente superstiziosa», «odiata dagli dei» - venerava una testa d' asino. Un altro storico, Apione, diceva che nel loro Tempio compivano sacrifici rituali di stranieri, ingrassati a forza come Pollicino. Solo la menzogna è immortale. La spiegazione di questo antisemitismo è semplicissima.
Tra i popoli del Mediterraneo e del Medio Oriente, gli Ebrei erano (quasi) gli unici Monoteisti. Mentre gli altri popoli possedevano un pantheon colorato, che accoglieva sempre nuove figure, fuse e mescolate con quelle antiche, gli Ebrei avevano un solo Dio: unico, esclusivo, eternamente immutabile, che non nasceva come gli dei greci e non moriva come quelli egiziani. Questo Dio era possente e tremendo, e non poteva venire rappresentato con immagini umane o animali. Bisognava osservare la Legge, che egli aveva promulgato, i riti che aveva imposto, ed essere puri. Chi cercava di restare puro, doveva vivere separato: non condividere i pranzi con i vicini pagani, dove si mangiavano cibi che il rito proscriveva; e a volte nemmeno parlarne la lingua. Come dice Tacito, questi «misantropi» erano «separati a tavola». Nessuno straniero doveva entrare, pena la morte, nel Tempio di Gerusalemme. Nessun ebreo doveva venerare le statue degli altri dei o degli Imperatori, mentre i pagani veneravano sia Dioniso sia Osiride, sia Demetra sia Iside, Augusto, Nerone e Caligola. Così la vita degli Ebrei, per quanto attivi, mobili e curiosi (quali occhi chiari ed avidi spalancarono sul mondo!), era concentrata su un punto: quel Dio luminoso-oscuro, che si rivelò durante l'esodo tra le fiamme e le nuvole del cielo.
Mai un popolo portò sino a un punto così alto e profondo la passione religiosa: furibonda, ardente, meticolosa, capace di sottigliezze intellettuali meravigliosamente acute. Per questo, sebbene fossero le persone più tolleranti (come Filone d'Alessandria, vissuto al tempo di Cristo), furono anche i più fanatici: come gli Zeloti, che nel 66-70 d.C. difesero contro i Romani il Tempio di Gerusalemme. La passione religiosa dei cristiani e dei musulmani è, nel suo fondo, quasi completamente ebraica; e per questo alcuni di loro, oggi, odiano gli Ebrei. Si odiano soltanto i propri simili.
Molti parlano con sufficienza delle religioni politeistiche. Quale bellissimo cosmo era quello egiziano o greco, dove l'essenza divina si moltiplicava in migliaia di forme, il sacro veniva rappresentato in ogni figura, sia astratta sia animale sia umana; e dove cento rapporti legavano tra loro le divinità, fino a farci intravedere, dietro le differenze apparenti, la parola segreta di un solo Dio! Nel mondo greco, il fanatismo religioso era molto più raro che nei monoteismi ebreo, cristiano, ed islamico. Non c'è violenza peggiore di quella dell'imperatore cristiano Teodosio, che nell'anno 426 d.C. fece abbattere le bellissime colonne dei templi di Olimpia: il terremoto lo soccorse. Ora le colonne doriche e corinzie stanno a terra, tagliate come fettine d'arancia; e solo i pini, dolcemente smottati dalle vicine colline, le consolano in silenzio per le ferite della storia.
Proprio perché gli Ebrei vivevano separati, attraevano le immaginazioni dei popoli antichi. Molti stranieri portavano offerte votive e ordinavano sacrifici ai sacerdoti dell'immenso Tempio scintillante d'oro, due volte costruito, due volte distrutto: la seconda volta per sempre. Quale era il vero Dio d'Israele? Cosa accadeva nel Tempio di Gerusalemme, dove i pagani non potevano penetrare? Qual era il nome segreto di Jahwe, ignoto persino al suo popolo? Quando sarebbe venuto il Messia, il Cristo? Forse non ci fu evento che colpì le fantasie antiche come ciò che accadde nel 63 a.C.. Pompeo Magno entrò nel Tempio di Gerusalemme, penetrò sino al Santo dei Santi, la piccola stanza dove aleggiava lo Spirito di Dio, e dove solo il Sommo Sacerdote poteva insinuarsi una volta l'anno. Non scorse nulla. La stanza era completamente vuota. Dunque il cuore della religione giudaica era un bugigattolo pieno di ragni? Certo, alcuni Greci e Romani compresero che il Santo dei Santi era vuoto perché solo il Vuoto può alludere all'essenza inafferrabile e incomprensibile di Dio.
* * *
Nel primo secolo dopo Cristo, dall'ebraismo si distaccò, come un gracilissimo albero presto destinato a diventare una foresta rigogliosa, il Cristianesimo, questa eresia giudaica. Quasi tutto il Nuovo Testamento può essere commentato, come circa ottant'anni or sono hanno fatto due studiosi tedeschi, L. Strack e P. Billerbeck, con frasi che appartengono alla tradizione ebraica. L'Apocalisse di Giovanni è un testo giudaizzante scritto contro i Giudei. Certo, queste frasi non contengono mai l'affermazione che Gesù è il figlio di Dio incarnato (perché per gli Ebrei e l'Islam è scandaloso che Dio assuma un corpo umano); né che è morto e risorto (affermazione ancora più scandalosa). Queste furono le fondamenta della nostra fede. Per gli Ebrei, Gesù era soltanto un falso Messia: un Messia eretico; qualcuno di loro lo trovava "un uomo saggio"; qualche altro (non Pilato) lo fece uccidere. Una generazione più tardi, il sommo sacerdote sadduceo, Anano, ordinò di lapidare Giacomo, fratello di Gesù, capo della comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme. Molti Farisei, ancora vicini ai giudeo-cristiani, non approvarono questa uccisione.
Oggi, colla nostra apparente tolleranza, condanniamo quei delitti religiosi: ma non posso dimenticare che quei morti innocenti si moltiplicarono durante venti secoli in milioni di morti ebrei (non conto quelli sterminati da Hitler). Purtroppo, la passione religiosa porta anche a questo. Malgrado ciò, è la migliore delle passioni: accende la fantasia, risveglia l'immaginazione, dà forza e movimento alle idee, costruisce edifici intellettuali, incanalando la follia umana. Nel secolo scorso, abbiamo visto che la pura passione politica - nazismo e comunismo - conduce ad Auschwitz e alla Kolyma: massacri incomparabili con qualsiasi pogrom.
Dopo la metà del secondo secolo dopo Cristo, Israele rinunciò (sebbene non completamente) a realizzare il regno di Dio in terra, qui ed ora: il più terribile dei desiderii. Cominciarono i secoli oscuri, nei quali la diaspora si moltiplicò in ogni direzione, perché gli Ebrei erano destinati a diventare il sale della terra. Israele accettò di porre il collo "sotto il gioco delle potenze terrene", come aveva detto Geremia. Israele visse bene, o relativamente bene, sotto il dominio dei Califfi e dei signori islamici, immerso nel profumo dell'Islam, come ha raccontato stupendamente Abraham B. Yehoshua in Viaggio alla fine del millennio (Einaudi). Gli Ebrei vissero male o malissimo sotto il dominio dei re, dei papi e dei sacerdoti cristiani, perseguitati per il deicidio che avevano commesso (e che avevano effettivamente commesso, senza saperlo): sfruttati, derubati, uccisi con la spada, sgozzati, bruciati, stuprati, costretti con la forza alla conversione. La causa principale di questa persecuzione sono i Vangeli, le Lettere di San Paolo, gli Atti degli Apostoli e soprattutto l'Apocalisse: testi fatalmente antisemiti, perché la nuova religione si liberava con violenza dalla antica Madre. La storia si ripeté quindici secoli dopo, tra luterani e cattolici.
Israele visse in segreto dal III al XVIII secolo, leggendo la Bibbia, interpretandola secondo la lettera, i simboli e le speculazioni numeriche, cercando testi arabi, cristiani e greci, creando grandiosi miti cosmogonici e teologici, come nel sedicesimo secolo la Cabala di IzchakLuria. Allora, gli ebrei immaginarono un doppio atto creativo da parte di Dio. In un primo momento, Egli si espande, si allarga, si apre, si manifesta, ispirato dalla forza dell'amore, gettando nello spazio la luce delle sue emanazioni, le dieci Sefirot. Questa luce è troppo sfolgorante, perché lo spazio possa sopportarla; e viene contenuta e fasciata in dieci "vasi". La sorte dell'universo resta in bilico per un istante. La forza della pura luce divina è così sovraeminente, così "tremenda e meravigliosa", che non sopporta adombramenti. I "vasi" delle sette Sefirot inferiori si frantumano sotto l'urto violentissimo della luce; e le scintille divine si sparpagliano in ogni angolo della futura creazione - negli uomini, ebrei o gentili, negli animali, nei laghi, nei ruscelli, nei fiumi, nei mari, nelle pietre, nelle erbe, nei cibi, nel Male. Le scintille divine sono dovunque: ma esiliate, degradate, avvilite, prigioniere delle potenze demoniache. Tutto viene macchiato, spezzato, frantumato. Tutto è desolazione e disperazione.
La Shechinà, il volto femminile di Dio, percorre esiliata le contrade dell'universo. Ora brilla soltanto di una debole, pallida, luce riflessa, come la "sacra luna": menomata, rimpicciolita, coperta d'ombra. Ora è una principessa che il padre e la madre hanno cacciato, senza colpa, dal regno: ora è una donna bellissima, che un pirata ha reso schiava; ora una vedova vestita di nero, che piange ai piedi del Muro di Gerusalemme; rapita, calunniata, esposta a tutte le debolezze umane. Avvolta in manti che le nascondono il viso, essa fugge, scompare, si nasconde - e sulla terra restano poche tracce: orme di passi, vesti abbandonate, fuscelli di paglia.
Durante uno dei suoi viaggi, un rabbi polacco arriva, verso il far della notte, in una piccola città dove non conosce nessuno. Non trova alloggio, fino a quando un conciatore lo conduce con sé, nel triste vicolo dei conciatori. Egli vorrebbe dire le preghiere della sera, ma l'odore della concia è così acuto che non riesce a pronunciare una sola parola. Esce e va alla scuola rabbinica, che tutti hanno già lasciato. Mentre prega a capo chino, comprende che anche la Shechinà è finita in esilio, abbandonata nel vicolo dei conciatori. Scoppia a piangere per l'afflizione, versa tutte le lacrime che la sofferenza e l'angoscia avevano raccolto nel suo cuore, finché cade a terra svenuto. Mentre giace esanime, la Shechinà gli appare nella sua gloria: una luce abbagliante in ventiquattro gradazioni di colori. "Sii forte, figlio mio", gli dice. "Grandi dolori ti attendono: ma non temere finché io sarò presso di te". Sebbene la gloria di Dio sia stata umiliata e ferita, essa splende come sempre. Le piccole scintille divine si sono diffuse in ogni luogo, come il lievito che penetra il pane. Tutto è diventato sacro.

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Due secoli or sono, i ghetti si aprirono. Gli Ebrei vennero alla luce, ebbero un cognome, entrarono all'Università, scrissero, composero musica, studiarono la scienza e il diritto, insegnarono, diressero Banche, industrie e giornali. Fu l'esplosione più grandiosa della storia europea: una immensa vitalità e intelligenza percorsero all'improvviso le vene dei nostri paesi. Questa esplosione ha una sola analogia: quella dell'Islam, nel settimo, ottavo e nono secolo, quando gli Arabi conquistarono paesi, appresero il greco, studiarono le scienze, fabbricarono automi, costruirono moschee imitando le basiliche cristiane, assorbirono la eredità della religione zoroastriana, raccontarono al mondo le Mille e una notte. Quale forza trassero gli Ebrei da una vita vissuta, per diciotto secoli, sotto il segno dell'immaginazione religiosa e della intelligenza talmudica. La letteratura, la scienza e la psicologia del diciannovesimo e specialmente del ventesimo secolo sono, per metà, dovute ad ebrei, o a mezzi ebrei, nei quali la goccia del sangue giudeo dava nuovo vigore a quello cristiano.
Venuti dalla Russia, dalla Spagna, dalla Polonia, dal Medio Oriente, gli ebrei diventarono francesi, tedeschi, italiani, inglesi meglio dei francesi, dei tedeschi, degli italiani e degli inglesi. Con la loro straordinaria qualità di metamorfosi, diventarono come noi. Le sofferenze e i massacri erano dimenticati: non c'era più né Bibbia, né Shechinà vagabonda, né il suono delle trombe d'argento davanti al Tempio, né il nome segreto di Dio. Ricordo, per esempio, la famiglia di Simone Weil, completamente ebraica, dove c'era lo stesso profumo che nella casa di Proust: ma più antico e profondo, perché la famiglia della madre di Simone veniva dalla Galizia. C'era lo stesso sapore di Francia borghese: la buona cultura, l'agio nascosto, i bei modi eleganti, la finezza psicologica, la musica, l'arte della conversazione, la discrezione, la gaiezza sapientemente velata con la malinconia - come se soltanto il sangue ebraico potesse portare il genio della Francia borghese alla sua espressione più pura.
In questa entusiastica aderenza alla civiltà occidentale, gli Ebrei guadagnarono e persero molto. Qualcuno di loro, come Simone Weil, odiò (senza conoscerla) la propria eredità biblica. Qualcuno la ignorò completamente. Avevo un amico carissimo, Giorgio Bassani, che era vissuto a Ferrara, borghese ebreo tra borghesi cattolici, con appena un lieve ricordo di cucina giudaica e di candelabro dalle sette braccia. Molti anni fa, gli feci leggere un mio saggio su Nachman di Breslav, un narratore chassidico del diciottesimo secolo. Mi guardò coi suoi dolcissimi e durissimi occhi azzurri e mi disse: "Pietro, che cose strane hai raccontato!". Quasi soltanto Kafka comprese che qualsiasi sradicamento dalla tradizione si paga. Con ogni probabilità, anche noi, cristiani, lo pagheremo. Ma gli Ebrei lo pagarono troppo.
Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, l'antisemitismo fu soprattutto borghese. I medici, gli ingegneri, gli scrittori, gli avvocati, i giornalisti, gli scienziati cattolici o protestanti erano invidiosi degli ebrei, perché erano più intelligenti e fantasiosi di loro. Non invano essi portavano, occultata nel sangue, la Bibbia. La borghesia europea dell'Ottocento fu, in buona parte, antisemita: perfino mio padre, il più mite tra gli uomini. Tutto questo ha condotto ad Auschwitz. Alle vecchie leggende e ai nuovi rancori, bastò aggiungere il genio criminale di un pittorucolo austriaco.
Tra le scoperte degli Ebrei, oltre alla Recherche, Il Castello, la psicoanalisi e la Teoria della relatività generale, ci fu anche la Rivoluzione Russa. Non voglio scoprire dappertutto segni genetici: ma forse, come molti hanno scritto, Lenin e Trockij avevano il desiderio nascosto di realizzare con la forza il regno di Dio in terra, come venti secoli prima i giudei Zeloti, ribelli contro Roma. Ma Stalin li espulse, li esiliò, li massacrò, li accusò di congiure immaginarie. Anche in Russia, paese dell'impossibile, gli Ebrei restarono separati, diversi, stranieri: anche là non appartenevano alla terra, della quale non hanno mai veramente fatto parte. Questa è, per noi, la loro benedizione.

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Mi scuso di una breve appendice contemporanea. Ho letto che, a Oslo, i giurati del Premio Nobel per la pace avrebbero voluto togliere il premio a Peres, perché partecipa al governo Sharon. Arafat, assediato a Ramallah con la sua patata bollita al giorno, come Pinocchio con le pere e le bucce di pera nella casina di Geppetto, è invece degno di qualsiasi Premio. Mi pare giusto che coloro che danno i Premi e conferiscono la Gloria contendendo con l'eternità, si coprano di vergogna più di qualunque essere umano.
L'Europa del 2002 non sopporta che venga meno un suo luogo comune. Dopo Auschwitz, l'ebreo è la vittima: gasata nei campi di concentramento nazisti, morta di gelo tra i pini nani della Kolyma, sulla quale si possono piangere dolcissime lacrime sentimentali. Nulla è più commovente che una gita ad Auschwitz con una scolaresca, a cui insegnare ad essere buoni. Non si tollera che questo popolo di vittime predestinate abbia dei carri armati. Il massimo che gli si può concedere è andare al ristorante o al bar, ordinare una spremuta di pompelmo e persino un whisky, camminare per le strade di Gerusalemme o di Haifa, saltando per aria sotto le bombe dei kamikaze, questi nuovi Cristi che si immolano, come dice soavissimamente Giulio Andreotti, per la salvezza del genere umano.

(12 aprile 2002)