martedì 29 aprile 2008

E' notte a Roma


L'angoscia disperata viaggia sul cellulare. A pomeriggio inoltrato mi devasta con un sms. “Vivo in una città imperiale e fascista”, la mia amica icasticamente proclama. “Ma è ormai certo? Dimmi che non è vero, ti prego…” – la imploro, più come pro forma, perché interiormente so che è tutto reale. E lei, dopo alcuni minuti, non può che confermare con accorata incredulità: “È terribile, ma ormai ha il 53,2%”.

Onestamente non pensavo che il regresso di questo Paese si fosse spinto così indietro, eppure la mutazione genetica è in atto e una valanga ci travolgerà. Non credo proprio che sia esagerato affermare che dovremo affidarci alle prerogative costituzionali per preservare il 25 aprile, per esempio, dalla furia iconoclasta e xenofoba dei vincitori di oggi. Il giornalaccio, che è già una trivialità nella testata (“Libero”, ma da chi? Da che cosa?) esultava: “Roma liberata”.

Eppure i segnali, le stigmate erano ben visibili, la loro percezione dolorosa ma ineludibile. Pochi giorni fa un amico, dalla Capitale, così mi relazionava (ho preferito lasciare lo scritto in dialetto, perché è più immediato e magari stempera un po’ la delusione).

“C'ho 'na preoccupazione. Che cresce da qualche giorno.Tanto pe' di' ieri stavo a guarda' due-tre tv private romane dove c'ereno du' trasmissioni ugualo ugualo. 'A ggente telefonava e diceva perché votava per chi ar ballotaggio de Roma. La media era de 25 telefonate contro Rutello e Veltronio e 1 a favore... L'argomenti sempre i soliti: i zzingheri, i 'stracomunitari, Veltronio  che ha spostato i campi nomadi da 'na parte all'artra, e Alemagno che invece fa bene a cacciarli subito a tutti, ché a mi' nonno quann'è annato in ammereca j'hanno fatto 'a visita medica prima de fallo entra'. (mi veniva da pensare che a Mohamed Atta forse nun aveveno fatto manco mezza visita, eppure hai visto'r danno c'ha fatto). Lunedì invece stavo ar mercato alla disperata ricerca de'n par de chili de broccoletti (gniente da fa', co' 'sto cazzo de caldo so' fioriti tutti, 'tacci loro) e nun te dico che cazzo ho dovuto senti' in mezz'ora, che la sinistra ha'ffamato Roma, che i posti de lavoro so' tutti pe'i romeni, che sotto a casa mia spacciano e ammazzano e prostituiscono e menano a tutti ma co' Alemagno ch'è venuto sabbbato a parla' so' già spariti tutti ché Alemagno j'ha detto che je fa' un culo così ai stracomunitari mica cazzo.

Oggi mentre mi apprestavo a sguazzare in piscina ho beccato ben quattro gruppetti (percorso obbligato per arrivare alla piscina: all'ingresso, davanti alla palestra, davanti ai campi da tennis e drento allo spogliatoio d'aa piscina, età dai 40 ai 60) che parlaveno de Ballarò ier'assera tutti colle medesime idee, ovvero ch'ar pupazzo j'hanno scritto quello che doveva da di', che a'n certo punto sembrava che stava a fa'r sindeco de Mil'ano, che la sinistra c'ha rovinato pe' sedici anni, che prima quanno c'era la destra a Roma c'era un sacco de lavoro e se guadambiava tutti, che'nvece Alemagno sì che c'aveva 'na risposta a ogni domanda, precisa decisa recisa incisa sess'accisa a essa e alla mamma.

Ora la mia preoccupazione è la seguente: ma che cazzo d'ambienti frequento?”.

E puntuale, ieri sera, mi arrivava una sua ode barbara composta nella notte nera capitolina.


Maschio e virile il saluto s'innalza dalle sponde dell'amato fiume!


ROMA È NOSTRA!


Orgogliosi e fieri romanamente salutiamo il nostro sindaco, che


stentoreo si staglia dalla sommità del finalmente fiammeggiante


Campidoglio!


ROMA È NOSTRA!


Vinta è la battaglia, sconfitto l'infame nemico, rigettata l'orda


barbarica comunista che da tempo immemore aveva piantato le tende sui


sette virginali colli!


ROMA È NOSTRA!


Uno spirto di soave appagamento aleggia lieve nell'alme dei


combattenti per la libertà, che in questo giorno vedono finalmente la


città in festa!


Si tolgano i drappi, si riaprano le finestre!


ROMA È NOSTRA!


E stasera caccia al negro!


EIA!


E dopo fuoco allo zingaro!


EIA!


E poi stupro alla rumena!


ALALÀ!!!


Oggi Fiorello-La Russa, proclamava che Alemanno d’ora in poi sarà “centurione”, alloggerà in una tenda da campo mimetica e le auto in seconda fila verranno rimosse con la catapulta.

Risate, ancora a denti sempre più stretti. Finché si può…


P.S. Il blog si prende una pausa di alcuni giorni. A leggervi il prossimo mese, spero non troppo tardi, perché devo molte risposte (e mi scuso per il ritardo) a chi ha avuto l’amabilità di passare da queste parti. Buon Primo Maggio!

domenica 27 aprile 2008

La notte dei tempi


Risate a denti stretti, per alleggerire un po’ la domenica, sperando che la sapida fantasia, musa ispiratrice del misterioso autore di questo testo, non venga sorpassata un giorno (naturalmente il più lontano possibile) dalla realtà. Stiamo vedendo cose che voi extraterrestri non potreste immaginare…


 


Uffisi immigrasiun


Piasa del Domm, 50


20100 MILAN (PADANIA)


EL' SUTUSCRITT...................................................


NAT' A............................................. (TERONIA)


EL DI' DE...................................................


FORTUNATAMENT DUMICILIA`....................................


Vist i risulta` de le ultime elesiun voeri dumandà se fus pusibil avegh la


 


CITADINANSA MILANES


Se dichiara:


- De vess pentiì de vess un TERUN


- De rinnegaà tucc i sò urigin meridiunal


- De mangiaà almen du volt al dì la cassoeula e la cutuleta alla milanesa


Dumandi de pudeè frequentà el curs de Lingua e Cumpurtament Lumbard.


Prumett de nun ess puseeè racumandaà, de lavurà com un asin, pagaà i tass,


ciamà men tucc i malnatt balabiott e ciaparatt dei me parent in teronia, de


fà men casin la nott e de tifaà per il Milan, per l'Inter o per la squadra


de Bergum!


De dir no pussè la parola "minchia" ma quand me fan giraà i ball disarò "VA


DA VIA I CIAPP"


Ve garantisi che prima de andaà in lett dumandaria perdun a Sua santità


Bossi Umberto e de vutaà per la Lega per i prosim cinc ann.


Cun la speransa che la dumanda la vegna acetada curdialment ve ringrasi.


 


IN FEDE


Il terun sig. ........................

venerdì 25 aprile 2008

Le radici della libertà



























Barletta 12 settembre 1943. “Fucilate dodici guardie municipali uno spazzino et un inserviente comune che opponevansi invasori...."). La città ha voluto lasciare intatti i fori della mitragliatrice tedesca nel muro dell’Ufficio postale.


Il 1945 fu l’anno del ritorno di tutta l’Italia alla libertà e alla democrazia. Il 25 aprile, in particolare, segnò la fine della guerra nel nostro Paese e la riunificazione. Sembra strano che sfugga ancora a molti il significato della libertà, anzi lo stesso termine viene oggi interpretato in modo perlomeno singolare e assai discutibile. E per questo sarà necessaria una nuova Resistenza contro il vandalismo istituzionale, contro l’osceno e irrefrenabile desiderio di revisionismo per riscrivere i libri di storia. È stato annunciato, verrà attuato.


Una nuova Liberazione è indispensabile contro la dittatura della criminalità organizzata, contro le collusioni e l’indifferenza che l'alimentano. Di grande impatto, ieri sera ad Annozero, la presenza e la testimonianza di Roberto Saviano, "il romanziere" che ha raccontato "il Sistema" e per questo gli è stata negata la libertà, costretto ad una segregazione forzata dal cancro che ha metastatizzato questa Repubblica che vide gli albori in quel 25 aprile 1945.


Ho scelto, per celebrare questa data, una poesia che Natalia Ginzburg (1916-1991) dedicò alla memoria di suo marito Leone Ginzburg, morto nelle carceri di Roma il 5 febbraio 1944, ucciso dalla ferocia della Gestapo. Lo sposò nel 1938, seguendolo due anni dopo al confino in Abruzzo, a Pizzoli, un villaggio a quindici chilometri dall'Aquila. Nel 1943, il 26 luglio Leone Ginzburg lasciò il confino, rientrò a Torino e di lí passò a Roma, dove in settembre cominciò la lotta clandestina. Il primo novembre, coi tre figli, Natalia raggiunse il marito a Roma, in un alloggio di fortuna in via XXI Aprile.


Il 20 novembre Leone venne arrestato dalla polizia italiana nella tipografia clandestina di via Basento e trasferito nel braccio tedesco di Regina Coeli, dove morì. Dal giorno dell'arresto fino a quello della morte, Natalia non vide mai il marito.


Memoria

Gli uomini vanno e vengono per le strade della
città.

Comprano cibi e giornali,

muovono a imprese diverse.

Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.

Sollevasti il lenzuolo

per guardare il suo viso, Ti chinasti a baciarlo

con un gesto consueto.

Ma era l’ultima volta.

Era il viso consueto,

Solo un poco più stanco.

E il vestito era quello di sempre. E le scarpe eran quelle di sempre.

E le mani eran quelle

Che spezzavano il pane

e versavano il vino.

Oggi ancora nel tempo

che passa sollevi il lenzuolo A guardare il suo viso

per l’ultima volta.

Se cammini per strada

nessuno ti è accanto.

Se hai paura nessuno ti prende

la mano.

E non è tua la strada,

non è tua la città.

Non è tua la
città illuminata. La città illuminata è degli altri,

Degli uomini che vanno e vengono, comprando cibi e giornali.

Puoi affacciarti un poco

alla quieta finestra

E guardare in silenzio

il giardino nel buio.

Allora quando piangevi

c’era la sua voce serena. Allora quando ridevi

c’era il suo riso sommesso. Ma il cancello che a sera s’apriva

resterà chiuso per sempre; E deserta è la tua giovinezza,

spento il fuoco, vuota la casa.

lunedì 21 aprile 2008

L'epidemia mediatica


Emma ha 6 anni e frequenta con assiduità e profitto la 1ª elementare. Giovedì scorso non è andata a scuola. La maestra se n’è accorta al momento dell’appello e si è un po’ preoccupata. In fondo, l’insegnante che accoglie bambini così piccoli, finisce col considerarli, soprattutto verso la fine dell’anno scolastico, come propri figli e questi alunni, spesso pasticcioni, capricciosi, esuberanti, dispettosi, tenerissimi, tutti da coccolare, vedono nella maestra una seconda madre, l’educatrice che ha il delicato e prezioso ruolo di infondere loro quei piccoli semi che dovranno germogliare e poi sbocciare in modo proficuo.


Il giorno dopo Emma torna a scuola, vivace come sempre, accompagnata dalla madre che così giustifica l’assenza alla maestra: “Sa ieri sera è andata a dormire dopo mezzanotte e mezza”. “Ma, signora, una bambina non può andare a dormire così tardi”. “Ha guardato la televisione con la sorella di 12 anni. C’era la finale di Amici”.


Ecco che, racchiusa in questa storia minima, c’è la sciagura nazionale degli ultimi due decenni, il morbo che ha infettato una buona parte degli italiani, facendoli regredire all’anno zero. La mamma di Emma non si è proprio posta il problema della lezione del giorno dopo, non ha avuto alcuna esitazione a scegliere, anzi non ha dovuto vagliare proprio nulla, perché in un Paese che ha fatto dell’ignoranza il valore costitutivo l’unica scuola che può funzionare è quella televisiva, quella di “Amici”, quella messa in piedi dell’imbonitore truffaldino che offre al popolo della (pseudo) libertà (e non) una realtà dorata, disgustosamente finta che diventa la meta, l’obiettivo finale, il sogno che potrà tradursi nell’affermazione, nella comparsata sul piccolo schermo, nell’obnubilamento della memoria per poi rimuoverla e sostituirla con la vulgata corrente. Con gli “eroi” moderni.


La “cattiva maestra televisione” ha preso il posto delle tante buone maestre che oppongono ogni giorno, all’eversione sociale e alla deriva culturale in atto, la loro determinazione, la volontà, la capacità di disegnare orizzonti nuovi e di sperare che quei semini possano crescere, nonostante tutto. Perché credono in ciò che fanno. Alla stregua di ultime visionarie.


È illuminante ciò che scrive, in proposito, Karl Popper nel saggio “Cattiva maestra televisione” richiamato poco fa. Ne propongo ampi stralci dall’introduzione di Giancarlo Bosetti.


Il progetto di Sir Karl


“La prima volta che Popper mi parlò della televisione non sospettavo certo che le sue idee in materia avrebbero avuto tanta fortuna, che sarebbero diventate un piccolo-grande caso. È evidente che la risonanza dei giudizi di Popper è stata amplificata in Italia dalla particolare e stravagante stagione che questo paese ha attraversato tra il ‘93 e il ‘94. «Una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione», essa «è diventata un potere politico colossale, potenzialmente, si potrebbe dire, il più importante di tutti, come se fosse Dio stesso che parla». Il filosofo mi dettava queste parole, a poche settimane dalla sua morte, nell’agosto del ‘94, proprio mentre da noi si attraversava la fase più acuta del contrasto tra il circo mediatico berlusconiano e le norme di buona condotta di una decente democrazia. Va da sé che Karl Popper non aveva alcun particolare interesse per le vicende italiane, che conosceva molto sommariamente. Quando parlava di televisione, poi, aveva in mente soprattutto la letteratura pedagogica e psicologica e, in generale, quello che si scriveva sull’argomento nei tre paesi ai quali la sua vita era più legata: gli Stati Uniti, la «società aperta» per antonomasia e, anche televisivamente, il paese numero uno; l’Inghilterra, dove aveva scelto di vivere; la Germania, dove si parla la sua lingua madre e dove passava una parte dell’anno. Ebbene, pur trascurando dunque gli strani eccessi italiani, lo colpiva la tendenza evolutiva delle comunicazioni di massa verso il peggio: il peggio per la democrazia in termini di squilibrio di poteri ed il peggio per i bambini, in termini di diseducazione. Egli vedeva innescata nelle società sviluppate più forti una tendenza rovinosa e voleva dare l’allarme.


Il mio interesse giornalistico, filosofico, politico per Popper, quando cominciai a incontrarlo nel ‘91 riguardava altre cose che la televisione.(…) Ma fu lo stesso Popper a richiamare in modo molto deciso la mia attenzione sulla urgenza di alcuni grandi problemi di attualità, sui quali sperava si impegnassero le grandi autorità di questa terra (…) e, poi, la crisi televisiva che pure considerava di gravità estrema e che non esitava a mettere sul piano dei grandi flagelli, comprese le guerre, che affliggono periodicamente l’umanità.


Il paragone tra la televisione e la guerra non era per Popper una battuta, come sanno molti suoi autorevoli amici e allievi che hanno raccontato le interminabili discussioni che egli provocava su questo argomento. Sapeva di incontrare molto scetticismo quando lo affrontava. Del resto quando lui con un sorriso cattivo dichiarava che in casa sua la televisione non era e non sarebbe mai entrata si era portati a trattarlo come un nonno ribelle e refrattario a una tecnologia, per lui nato nel 1902, tutto sommato ancora nuova e aliena. (…) E poi non ci voleva molto a capire che non si trattava di una idiosincrasia, ma di una riflessione meditata e collegata sia alla sua concezione evoluzionistica dell’educazione sia alla sua visione liberale della politica. Era lui a rovesciare il gioco: io posso anche sbagliare, replicava, ma credo fino a prova contraria che siate voi a non capire le conseguenze della televisione perché, immersi in questo mondo di immagini, non vi rendete conto di quanto in profondità essa modifichi le basi della educazione. La televisione cambia radicalmente l’ambiente e dall’ambiente così brutalmente modificato i bambini traggono i modelli da imitare. Risultato: stiamo facendo crescere tanti piccoli criminali. Dobbiamo fermare questo meccanismo prima che sia troppo tardi, anche perché da quando voi - adulti, giornalisti e professori, quaranta-cinquantenni che obiettate - eravate bambini fino ad oggi la televisione è peggiorata. Se non si agisce, infatti, essa tende inesorabilmente a peggiorare per una sua legge interna, quella dell’audience, che Popper formulava più familiarmente come legge dell’ «aggiunta di spezie», che servono a far mangiare cibi senza sapore che altrimenti nessuno vorrebbe”.(…)


Karl Popper, Cattiva maestra televisione, Donzelli 1996, pagg. 7 e segg..

mercoledì 16 aprile 2008

Nepal, bel suol d'amor...























Katmandu | 14 aprile 2008


In Nepal maggioranza assoluta per i maoisti. Il leader Prachanda: sorpresi del vantaggio


Nelle prime elezioni dopo nove anni in Nepal, gli ex ribelli maoisti sono vicini alla vittoria. La Commissione elettorale, che ha reso noti i risultati di un terzo dei seggi, ha confermato che gli ex ribelli maoisti sono in vantaggio sui due partiti dati inizialmente come favoriti, il centrista Congresso nepalese e il Partito Marxista-leninista unificato (Uml). I due gruppi hanno finora conquistato rispettivamente 17 e 23 seggi dei 213 scrutinati, contro i 104 dei Maoisti.

I risultati finali si sapranno però solo dopo il 20 aprile, vista la lentezza dello spoglio e la complessità del sistema elettorale.


I nepalesi hanno votato giovedì per dar vita all'assemblea da 601 membri che dovrà scrivere una nuova Costituzione per il paese himalayano, mettendo fine formalmente a 240 anni di monarchia.


L'attuale monarca, Gyanendra, sarà dunque l'ultimo della dinastia salita al potere nel 1769 a rappresentare l'incarnazione di Vishnù sul trono di Katmandu. I risultati definitivi delle elezioni sono attesi per la fine del mese di aprile. L'ex presidente americano Jimmy Carter, la cui fondazione ha inviato una squadra di osservatori per seguire le elezioni nepalesi, ha auspicato nei giorni scorsi che, "anche se i maoisti dovessero conquistare un sostanziale numero di seggi nell'Assemblea costituente in Nepal, gli Stati Uniti riconoscano e trattino con il nuovo governo".


Il leader maoista, Prachanda (il temerario), destinato a diventare presidente del Paese himalayano, si è detto "sorpreso" del risultato: "Sapevamo di avere il sostegno di gran parte del popolo", ha dichiarato, "ma non speravamo in una vittoria così ampia". La sfida "più grande sarà quella di portare avanti il processo di pace contrastando eventuali attacchi alla stabilità nazionale da parte delle forze conservatrici uscite sconfitte dalle elezioni", ha avvertito Prachanda "il feroce", soprannome conquistato in oltre dieci anni di guerra civile.

Due anni fa gli ex ribelli, che per la loro rivolta si erano ispirati alla guerriglia peruviana di Sendero Luminoso e che tuttora compaiono nella lista dei gruppi terroristici stilata da Washington, si sono trasformati in partito e sono entrati nella scena politica ufficiale. Abolire la monarchia sarà uno dei primi atti dell'Assemblea costituente e del futuro presidente della Repubblica del Nepal, che i sostenitori di Prachanda danno già per vincitore.


Fonte: www.rainews24.rai.it


Una prospettiva per il futuro, c’è anche aria fresca e pulita. Chissà…

Per adesso: intervallo.

lunedì 14 aprile 2008

Il mio cuore è rosso


Tornando a casa, dopo aver votato, mi chiedevo dove fosse finito quel popolo comunista che invase Roma il 13 giugno 1984 per partecipare ai funerali di Enrico Berlinguer. La domanda è ricorsa spesso in questi 24 anni, direi ad ogni svolta, ad ogni cambiamento, ad ogni perdita progressiva di identità. Quando in ciascuna di queste circostanze la base veniva erosa e alla volta successiva, a contarsi con il voto, si era sempre di meno. Non si eclissavano, però, soltanto le persone, tesserati o simpatizzanti che fossero, ma anche i simboli: ridimensionati, congelati, accantonati e infine ripudiati, vecchi arnesi di un passato di cui, evidentemente, c’era e ancora c’è da vergognarsi.


È una gara, ormai, a proclamare di non essere mai stati comunisti. Come dichiarò Walter Veltroni nel 1995: “Si poteva stare nel Pci senza esser comunisti. Era possibile, è stato così”. Concetto che ha poi voluto ribadire nei giorni scorsi per rassicurare, forse, ulteriormente l’elettorato. Il 15 giugno 1975, subito dopo l’avanzata comunista in Italia, proclamò, tra l’altro: “Il socialismo e il comunismo devono esser il progetto di più alta realizzazione della libertà, di più grande valorizzazione del lavoro come forza motrice della scuola”. Ardori giovanili evidentemente.


Lo sottolineo, perché non mi è piaciuta l’”arroganza gentile” di Veltroni mentre spiegava, assai compiaciuto, che aveva espunto la sinistra radicale e si sentiva libero da ogni pastoia. Peccato solo che a far cadere il governo Prodi sono stati esponenti di quel centro verso cui tende. Non mi è piaciuta quella vena liquidatoria di una storia che è anche la nostra storia, perché occorre guardare al futuro e abbandonare definitivamente il passato. Un passato che, invece, caratterizzava l’appartenenza, l’identificazione, mentre nel presente significa accogliere tra le proprie fila di tutto, una tendenza corporativa o da figurine Panini (che l'ex sindaco di Roma, quando dirigeva l'Unità, pensò bene di allegare al giornale nei mitici album). In maniera indifferenziata. Va benissimo, per esempio, una giovane e carina precaria, come Marianna Madia, distintasi molto per le dichiarazioni antiaboriste e di non dissimulata simpatia verso Giuliano Ferrara (“anche se non condivido lo strumento della moratoria”). “L’aborto è il fallimento della politica, un fallimento etico, economico e culturale … la vita è vita dall’inizio alla fine”. E “un Paese che non fa figli, di futuro non ne ha”. Eccellente poi la presenza di Paola Binetti, nota omofoba, alla quale ha dato recentemente manforte Mauro del Vecchio, ex comandante delle truppe italiane in Afghanistan  e candidato con il Pd nel collegio del Lazio. “I gay nell’esercito sono inadatti. Io rispetto ogni scelta legittima e lecita della persona, ma credo che nell’ambito di una struttura come l’esercito, dove le attività si svolgono sempre insieme, è opportuno non dichiarare ed evidenziare la propria omosessualità.”. Niente male come inizio per un nuovo partito. Che ha preferito non candidare Nando Dalla Chiesa, noto per le sue battaglie contro mafie e corruzione. Ma si è eccitato alla scelta di un padrone autentico come Calearo, mettendogli accanto (come contrappeso) uno degli operai scampati alla strage della ThyssenGroup. Dico: Calearo, “falco” di Federmeccanica, uno che ha costretto i metalmeccanici ad almeno 50 ore di sciopero affinchè venisse rinnovato loro il contratto di lavoro scaduto da mesi.


No, non ero in grado di cambiare voto e scegliere il Pd. Così mi sono orientato verso il meno peggio e non è stato, anche questo, piacevole. L’idea che ho è quella di una sinistra senza capo né coda, guidata dalla stessa casta, ripiegata su se stessa, dove i vari “capi” sono pronti a regolare i conti dopo il 14 aprile. Che tristezza.


Promesse improbabili, eccessive, compiacenti, mi è parso che Veltroni in questo si sia parecchio sbilanciato e, analogamente alle liste aperte a tutti, ogni giorno si è trovato a garantire facilitazioni, disimpegni, prospettando orizzonti limpidi senza nuvole. Forse è l’enfasi della propaganda elettorale, ma qualche argomento scomodo è stato evitato, oppure non trattato con l’attenzione che avrebbe richiesto. Penso al sistema scolastico che è un vero colabrodo, alla pratica sportiva, alla difesa della laicità dello Stato. Benedetto XVI ha condannato aborto, divorzio ed eutanasia proprio alcuni giorni fa. Mancava solo che aggiungesse all’elenco la masturbazione e i rapporti prematrimoniali, così il quadro sarebbe stato completo. Prese di posizione? Zero, da quello che so. C’è poi quell’anomalia che da 15 anni imperversa, senza che venga neutralizzata, mi riferisco alla pervasività della televisione e all’ineleggibilità del suo proprietario. E mi pare che pure sulla sanità si sia sorvolato con leggerezza. Quanto alla presenza femminile Zapatero è lontanissimo da noi, molto avanti e temo che il numero delle donne in un governo Veltroni si ridurrà ad un ruolo di facciata. Ma può darsi che mi sbagli e il leader spagnolo verrà presto riacciuffato. Silenzio anche sulle spedizioni all’estero, mascherate da “missioni di pace”, sulle spese militari sempre crescenti, sulle basi americane in Italia: esistenti o prossime venture. Ci sarebbe poi la piccola questione che riguarda il voto agli immigrati regolari, circa tre milioni che lavorano, fanno figli e pagano le tasse in Italia, ma è un altro tasto delicato da non toccare. Meglio fingere che siano tutti invisibili.


Un paio di osservazioni positive ci sarebbero pure e riguardano una il linguaggio e l’altra la capacità di attrattiva verso i giovani esercitata da Veltroni. Se vincerà il confronto – cosa difficilotta, ma che mi auguro, con il tesserato P2 n°1816 – la rivoluzione dei toni e delle parole avrà pagato e sarà attiva e inarrestabile. Un futuro meno imbarbarito ci attenderà, anche se poi sono le persone a mettere in atto tutto ciò. Però sarà stata una cosa buona, ecco. Come positiva l’aggregazione di forze anagraficamente nuove. È verso costoro che si sarà investiti di molte responsabilità, perché se verranno delusi da atteggiamenti che rifaranno il verso alla vecchia politica: quella del malaffare, delle connivenze, delle complicità, delle furberie, il futuro di alcune generazioni sarà stato immolato.


Volevo terminare con questi buoni pensieri, aggiungere anche che personalmente sono molto più preoccupato della recessione che ci piomberà addosso dagli Usa, più che da un eventuale B. III (anche perché di un esecutivo a tempo si tratterà: referendum o legge elettorale, poi si dovrà comunque tornare alle urne), ma leggendo l’editoriale di Sergio Romano, sul Corriere della Sera di domenica, mi sono incupito. Queste le ultime righe. “Oggi il Pd e il Pdl hanno la possibilità di fare, lavorando insieme, alcune delle cose di cui il Paese ha urgente bisogno per ricominciare a produrre e a crescere. I sacrifici saranno più sopportabili e gli ostacoli più facilmente sormontabili se il Paese avrà la sensazione di rispondere a un disegno nazionale, condiviso dalle due maggiori forze politiche”. Certo è l’opinione, seppure autorevole – come si usa dire – di Sergio Romano, ma potrebbe essere molto vicino alla realtà dei fatti, quando magari si giustificheranno scelte di campo, negate, fortissimamente negate in campagna elettorale, dovute a superiori esigenze del Paese. Almeno non avrò contribuito alla soluzione finale e continuerò a sperare (e sognare) che un altro mondo sia possibile, anche se ormai non ne parla più nessuno.

sabato 12 aprile 2008

Con la testa e con il cuore - 3

Contro ogni dubbio, contro ogni (giustificata) tentazione astensionista, contro il chissenefrega, un voto contro questo buffone, tessera P2 n°1816.

In fondo, dopo l’appello del 2001 dei “grandi vecchi”, il link al Piano della Loggia Propaganda 2.






Bobbio, appello contro il Polo


Tra i firmatari Sylos Labini e Galante Garrone. Roberto Benigni manda un video

di MASSIMO NOVELLI
 


TORINO - L'asso nella manica si chiama Roberto Benigni. Chiamato anche lui a raccolta dall'invito del filosofo Norberto Bobbio, dello storico Alessandro Galante Garrone, del giurista Alessandro Pizzorusso e dell'economista Paolo Sylos Labini a votare contro la Casa delle libertà "per salvare lo Stato di diritto", il regista toscano ha girato per l'occasione un breve ma esplosivo video in cui finge di essere un grande sostenitore di Silvio Berlusconi, chiamato addirittura il "mio sposo". Per poi demolirlo sotto un diluvio di battute e di gag. Il piccolo film satiricopolitico di Benigni, questa sua "cospirazione autarchica", è stato ovviamente il momento più spettacolare della manifestazione che si è tenuta ieri a Torino, in un cinema dello storico quartiere operaio di San Paolo straboccante di folla.


Originata dall'appello di Bobbio, e promossa dal movimento "Giustizia e Libertà" nonché da alcun riviste ("Il Ponte", "MicroMega", Critica Liberale", "Laicità", "L'Incontro", "L'Indice" e "Rinascita"), la mattinata si è svolta all'insegna della "emergenza morale". Perché un'eventuale vittoria di Berlusconi metterebbe "in pericolo la democrazia" per vari fondati motivi: dalla volontà annunciata di cambiare la prima parte della Costituzione, "che contiene i valori su cui si fonda la nostra società", a quella di subordinare il potere giudiziario al potere politico. Fino al controllo pressoché assoluto delle televisioni che Berlusconi potrebbe esercitare.


Ad aderire all'appello, duramente criticato da Enrico La Loggia, presidente del gruppo di Forza Italia al Senato, che ha persino invitato Bobbio a "vergognarsi", sono stati in tanti. Da scrittori come Andrea Camilleri e Antonio Tabucchi a scienziati come Rita Levi Montalcini, astronomi come Margherita Hack, grandi avvocati come Franzo Grande Stevens. Non tutti hanno potuto intervenire di persona ieri al cinema Eliseo. Ma chi lo ha fatto via video, come Benigni, e chi ha parlato dal palco (Sylos Labini, Pizzorusso, Claudio Pavone, Alberto Papuzzi, Marcello Rossi, Gian Giacomo Migone e soprattutto l'applauditissimo Marco Travaglio, autore del fortunato libro "L'odore dei soldi" su Berlusconi), ha voluto testimoniare con passione civile la preoccupazione per un'affermazione elettorale della Casa delle libertà.


la Repubblica (30 aprile 2001)




 


E' necessario battere col voto la cosiddetta Casa delle Libertà. Destra e sinistra non c'entrano: è in gioco la democrazia. Berlusconi ha dichiarato di voler riformare la prima parte della Costituzione, e cioè i valori fondamentali su cui poggia la Repubblica italiana. Ha annunciato una legge che darebbe al Parlamento la facoltà di stabilire ogni anno la priorità dei reati da perseguire. Una tale legge subordinerebbe il potere giudiziario al potere politico, abbattendo così uno dei pilastri dello Stato di diritto. Oltre a ciò Berlusconi, già più volte condannato e indagato, in Italia e all'estero, per reati diversi, fra cui uno riguardante la mafia, insulta i giudici e cerca di delegittimarli in tutti i modi, un fatto che non ha riscontri al mondo. Ma siamo veramente un Paese civile? Chi pensa ai propri affari economici e ai propri vantaggi fiscali governa malissimo: nei sette mesi del 1994 il governo Berlusconi dette una prova disastrosa. Gli innumerevoli conflitti di interesse creerebbero ostacoli tremendi a un suo governo sia in Italia, e ancor di più, in Europa. Le grandiose opere pubbliche promesse dal Polo dovrebbero essere finanziate almeno in parte col debito pubblico, ciò che ci condurrebbe fuori dall'Europa. A coloro che, delusi dal centrosinistra, pensano di non andare a votare, diciamo: chi si astiene vota Berlusconi. Una vittoria della Casa delle Libertà minerebbe le basi stesse della democrazia.


Firmato: Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Alessandro Pizzorusso, Paolo Sylos Labini




 



http://ritaglidistampa.splinder.com/post/16672827/Loggia+P2%3A+il+Piano



 


venerdì 11 aprile 2008

Con la testa e con il cuore - 2


Ancora un paio di contributi elettorali. Se Giorgio Bocca, ci scherza un po’ sopra lo psudoliberismo del Popolo della Libertà Provvisoria (Travaglio dixit), Curzio Maltese, che ammiro a prescindere, traccia un quadro disillusorio e realistico del dopo voto. Sulle sue considerazioni mi appare difficile essere in disaccordo. Entrambi i pezzi sono apparsi sullo scorso numero de “Il Venerdì di Repubblica”.


Con la testa e con il cuore, mi raccomando.


 


fatti nostri


di GIORGIO BOCCA


Liberismo? Meglio sposare un milionario


La libera concorrenza è la salvezza dell’economia, ma i padroni del vapore ogni giorno esortano a «fare squadra». Che cosa significa? Credo voglia dire ottenere aiuti e sussidi da parte del vituperato Stato. Se la libera concorrenza ci fosse stata veramente, nell’Italia del Regno e del fascismo, nessuna delle grandi industrie che ci ritroviamo sarebbe nata e cresciuta: solo il vituperato protezionismo ha permesso alla Fiat, alla Edison, alle acciaierie di nascere e crescere. Le grandi industrie tessili, del cuoio, dell’auto, dell’energia, si sono fatte le ossa con le forniture militari. I giganti della finanza e del petrolio di Stato (l’Iri, l’Eni, l’Enel) sono stati i pilastri portanti della nostra rivoluzione industriale.


Ha ragione, a suo modo, Silvio Berlusconi quando consiglia alle giovani precarie di sposare un milionario. Del resto il Cavaliere, fra i massimi sostenitori del liberismo, aveva capito anni fa che o entrava in politica e diventava padrone dello Stato o rischiava il fallimento. Tutti i sostenitori della libera concorrenza usano lo Stato, magari per farsi pagare un giornale aziendale o familiare. L’odiata dittatura fascista di Mussolini, che ostentava disprezzo per i padroni «pescecani», e aveva nostalgie socialiste, favorì le aziende private, e con l’Iri creò il loro «convalescenziario».


Fra le sue varie boutade Berlusconi ha accusato il segretario del Partito democratico, Walter Veltroni, di «non aver mai lavorato». L’idea che il Cavaliere ha del lavoro è singolare: uno come Veltroni, che per anni ha lavorato seriamente nell’amministrazione civica, nella direzione di un giornale e nella politica, è un fannullone. Grande lavoratore è chi si è impegnato a fare miliardi, e a usare lo Stato per diventare il padrone di metà informazione e del sistema pubblicitario. I sociologi dicono che è finita la società delle classi, che proletariato, media borghesia, aristocrazia, sono cose del passato. Che cosa c’è al loro posto? Una grande minoranza di ricchi sempre più ricchi e una maggioranza sempre più povera e succube, la «poltiglia» di cui parla il sociologo De Rita.


La retorica della libera concorrenza è sempre meno credibile. Non a caso oggi la politica non è più un fine, il fine del buongoverno, ma un mezzo per utilizzare lo Stato per interessi privati. La scomparsa delle vecchie classi ha comportato anche la scomparsa delle vecchie regole, che favorivano i potenti, ma che comunque stabilivano un ordine, una gerarchia. Con l’economia globale siamo all’anarchia e alla rapina generali. Ha ragione il Cavaliere: meglio sposare un milionario.


 


contromano


di CURZIO MALTESE


Chi, dopo il voto, potrà davvero alzare gli stipendi


Destra e sinistra promettono di aumentare gli stipendi dopo le elezioni. Nessuno ha spiegato bene con quali risorse, ma si sa che nella politica italiana basta il pensiero. Sarebbero tuttavia un po’ più credibili se, invece di promettere la Luna, spiegassero le ragioni per cui in Italia il potere d’acquisto dei lavoratori è sceso in questi dieci anni come in nessun altro Paese d’Europa.

Siccome non sono un economista, provo ad avanzare alcune ipotesi sulla base dell’esperienza. Finora, del resto, le spiegazioni degli economisti si sono rivelate in gran parte sballate. La spallata più pesante ai salari degli italiani è arrivata con il passaggio dalla lira all’euro. Un passaggio epocale gestito con dilettantismo dal governo Berlusconi, senza controlli, senza neppure uno straccio di ricerca preventiva sulle possibili speculazioni. Che naturalmente ci sono state. In misura incomparabilmente superiore al resto d’Europa. Soltanto in Italia l’avvento dell’euro ha significato un massiccio trasferimento di ricchezza dai lavoratori dipendenti a imprenditori e commercianti. Le famiglie hanno sperimentato un cambio reale «a mille lire».


Personalmente mi è sempre sfuggito il meccanismo psicologico per cui un Paese prima elegge a sua guida uno degli uomini più ricchi del mondo e poi si sorprende dell’aumento delle differenze sociali. Comunque, il danno non si può rimediare. C’è soltanto da augurarsi che un futuro governo Berlusconi non debba gestire un altro passaggio così importante. Per esempio la fuoriuscita dall’euro, in passato e ancora vagheggiata dall’asse Tremonti-Lega. Nel caso, il consiglio è: emigrate.


Le altre cause dei bassi salari sono più strutturali e si può intervenire, ma bisogna fare la rivoluzione. Riguardano l’arretratezza del sistema imprenditoriale italiano, fondato sull’esportazione di prodotti a bassa tecnologia e quindi in competizione con Cina e India, dove i salari sono infinitamente più bassi. Per reggere la competizione, per giunta, da noi si è deciso di rendere precarie le nuove generazioni. Un modo ingegnoso per tagliare il ramo sul quale siamo seduti. Ma ve lo immaginate un governo di destra o di sinistra che parte alla rivoluzione del sistema industriale e rovescia il rapporto fra le generazioni?


L’unica strada che si può prendere, con effetti limitati ma significativi, è un patto fra il governo e i sindacati per aumentare la produttività del lavoro, in cambio di aumenti salariali. Insomma, una concertazione. In questo Veltroni è più attendibile di Berlusconi, tutto qui. Il resto è sogno.


4 APRILE 2008


IL VENERDI Dl REPUBBLICA 17

giovedì 10 aprile 2008

Con la testa e con il cuore


L’editoriale che segue è il miglior “manifesto” elettorale, pubblicato naturalmente sul quotidiano omonimo,  che abbia finora letto. Lo ha scritto Rossana Rossanda e mi trova sulla stessa lunghezza d’onda. Si tratta di un lungo pezzo che può anche esser stampato e letto, magari andando verso la cabina elettorale e pensandoci sopra. Ma per davvero. Sarebbe oltremodo antipatico passare, dopo, per quelli che: “Ve l’avevamo detto”.


Pensiamoci

Rossana Rossanda

A una settimana dal voto, tutto è stato detto dai leader. Dai microfoni su piazza e in tv. Tutto di basso profilo, qualche bugia, qualche furberia ma il quadro è chiaro. È il momento di pensare da soli, elettori maschi e femmine e giovani che avranno la scheda per la prima volta. Non affidiamoci agli umori, quelli che piacciono ai sondaggi. Come è successo al tempo del «Silvio facci sognare», lo slogan più scemo del secolo. Siamo alfabetizzati, abbiamo non solo speranze e delusioni ma comprendonio e memoria.


Gli elementi per valutare a chi dare il voto ci sono tutti, nel presente e nel passato prossimo. Facciamo parlare i dati di fatto.


1. L'ultimo, arrivato fresco fresco dal Fondo Monetario Internazionale è che l'Italia è a crescita zero (0,3). E non è la crescita zero preconizzata dagli ecologisti, cioè una selezione degli investimenti che protegga e risani l'ambiente. È crescita zero nell'insieme caotico dell'attuale modello, crescita zero nell'occupazione, crescita zero del potere d'acquisto. Sarebbe utile che si incazzassero i candidati premier di fronte alle loro trovate, tipo: con me, mille euro mensili a ogni precario. Ottimo. Chi li paga? L'azienda che lo ha assunto per dodici giorni al mese? Gli intermediari, Adecco o Manpower? La cooperativa fasulla che lo costringe a essere socio-lavoratore o niente? Lo stato? E da dove fa entrare i soldi? Visto che nessuno propone di accrescere le tasse. Eppure si dovrebbe almeno redistribuirne i carichi, toglierli ai ceti più deboli, aggravare quelli più forti, bastonare un po' le operazioni finanziare - ma tutti sono contro. E poi la Banca centrale europea di una sola cosa ha paura - che il potere di acquisto aumenti e si riaffacci l'inflazione... chi mangia poco continui a digiunare, per favore.


Nell'ultima settimana si sono ventilati ottocento o mille euro minimi di pensione al mese. Sette anni fa Berlusconi ne aveva promessi mille. Poi s'è visto che ne avevano diritto solo quelli in tardissima età e condizioni più disastrate. L'estate scorsa tutti salvo l'abominevole «sinistra radicale» hanno strillato che l'Inps era in deficit, e sulla parola di Epifani i pensionati hanno votato in massa come se fosse vero. E intanto né Berlusconi né Veltroni né Casini accennano a mettere un tetto alle pensioni superiori a una certa cifra - tipo Banca d'Italia e altre. Forse redistribuire non basta, ma sarebbe una misura di decenza.


2. La recessione è in arrivo. Già imperversa sugli Usa, la Fed riduce i tassi, tutti sono preoccupati salvo Repubblica, quotidiano di Veltroni, che ha pescato a Cernobbio quattro persone (per la verità tre e mezzo, Spaventa è più cauto) disposte all'ottimismo. Sta arrivando in Europa e che significherà per l'Italia? Berlusconi, in un sussulto di sincerità, ha promesso lacrime e sangue - a tutti, meno ai ricchi cui ridurrà le tasse. Ma che significa l'arrivo d'una recessione su un paese che è già a crescita 0,3? In un'Europa a crescita 1,3 se va bene? Fra poco nessuno sarà in grado di pagare quel che importa e di farsi pagare quel che esporta. Per quale altro motivo la Cina sostiene il dollaro? In questo quadro l'occupazione - che per salire avrebbe bisogno almeno d'una crescita del Pil attorno al 3% (dieci volte di più dell'attuale in Italia) - non crescerà. Già gli occupati dichiarati dalle statistiche erano per almeno un quarto fasulli, mezzi-posti o quarti di posto del precariato, forma di disoccupazione travestita. Ormai trentenni già diplomati, laureati o dottorati, (se non in qualche disciplina scientifica per la quale c'è sbocco fuori dall'Italia) , figurarsi i non diplomati, sono ancora in cerca dell'impiego per il quale hanno studiato, pesano sui genitori, e non pochi si accingono a montare un bar o un'impresina del genere, perlopiù in subappalto, per rendersi indipendenti, sposarsi, fare un figlio. E poi ci si duole che le intelligenze se ne vadano e la natalità resti bassa.


3. Dagli anni '90 tutti i partiti, eccettuata Rifondazione e pochi altri, hanno piegato la testa al vecchio diktat liberista: lo stato non metta il becco in economia. Capitali e lavoratori, vanno lasciati al mercato e al suo occhio invisibile. Ah sì? Oggi l'occhio del mercato ha come minimo la congiuntivite acuta. Se no non saremmo a questo punto (dovrei scrivere «nella merda»). Anche gli europei lo sono, appena un po' meno la Germania perché ha difeso la qualità del prodotto e la Francia perché al mercato sottrae ogni tanto qualcosa. Ma la Commissione Ue strilla subito al protezionismo (sottace soltanto l'uso degli Stati Uniti delle spese militari a mo' di enorme offerta). E infatti il miliardario indiano Mittal s'è mangiato l'acciaio francese, non perciò pagando i lavoratori indiani come in Francia, ma proprio perché li paga quattro volte di meno. Da noi, i liberisti si rallegrano che l'Italia debba lasciare l'Alitalia a Air France-Klm, i sindacati sembrano accorgersi solo ora della gestione sciagurata dell'azienda della quale sono i soli a pagare il prezzo, la destra sanguina per l'«italianità» perduta, Berlusconi tira fuori conigli dal cilindro per far voti, l'insieme fa pena.


Non solo. Lo stato non ha da metter becco nell'economia, ma soldi nelle imprese sulla semplice fiducia che creeranno nuovi posti di lavoro. Così i furbetti prendono i soldi, alzano capannoni e se la filano senza aver assunto nessuno o licenziando subito. Non ci sono controlli. Ma non impossibile a sapersi: ce lo dice Report, cifre, nomi, luoghi, anni - ma anche noi telespettatori siamo strani, non so, non ho visto, se c'ero dormivo. L'Italia ha smesso di avere industria pubblica per dare i quattrini ai privati, che li prendono e scappano. Quanti? Vorrei saperlo, e anche perché, invece che spendere a destra e a sinistra senza controllo, lo stato non ha a suo tempo raddrizzato Alitalia. Non mi si dica che è colpa dei sindacati che non accettavano 2000 «esuberi». Se Air France la può comprare, come ha già fatto con la compagnia olandese, perché non lo ha fatto la nobile imprenditoria italiana? E magari, ahinoi, lo stato di cui sopra? Alla sottoscritta di una compagna di bandiera non importa niente, dei suoi lavoratori molto. Perché devono subire e pagare per le nefandezze di chi li ha gestiti? Il loro paese li deve difendere, e così i loro sindacati. Ma come possono farlo senza discutere la strategia dell'impresa? Se l'ideologia oggi in voga dice che proprio non si può, perché i leader della destra e del centro non dicono al microfono: «Lavoratori! Cavatevela! Noi sulle scelte delle imprese non siamo in grado di interferire! Né lo vogliamo!». Almeno così l'elettore lo sa. E' vero che potrebbe saperlo lo stesso, siamo nell'epoca della comunicazione totale, e rammentarlo al leader del Pd quando questi gli predica con voce commossa che padroni e dipendenti pari sono e hanno lo stesso identico interesse.


4. Ci dicono che bisogna tagliare la spesa pubblica. Dove? La teoria liberista dice che lo stato deve intervenire solo dove il privato non arriva. Ebbene, si diano ai privati scuole e sanità, e più o meno sottobanco i soldi per gestirseli da aggiungere ai costi che il cittadino deve pagare. Erano diritti? Ebbene, prendiamoli come semplici raccomandazioni. Non che in Italia sia enunciato così chiaro, ma largamente praticato. Due giorni fa il presidente francese Sarkozy ha deciso di «modernizzare» lo stato, cioè ridurne energicamente le spese, ogni due funzionari che se ne vanno, se ne prende uno solo. Peccato che la maggioranza dei funzionari siano nella scuola. Si dimezzino lo stesso. E poi a Lisbona hanno detto e sottoscritto che educazione e formazione sono l'asse della nuova Europa. Da quel che si capisce, soltanto le spese militari aumenteranno. L'Europa avrebbe finalmente il permesso degli Stati Uniti per fare la sua forza di difesa da aggiungere, si suppone, alle «missioni», parola con cui si nascondono le partecipazioni alle imprese belliche di Bush. Ecco un intervento statale ammesso: servono anche per dare impieghi, contratti detti condizioni di ingaggio, che stanno diventando sempre più strani. Vedi l'ammazzamento di Calipari.


5. Non dimentichiamo la sicurezza. Gli italiani sono buoni ma non amano essere assillati tutti i giorni dall'extracomunitario - pardon anche dal comunitario romeno - appena mettono il naso fuori di casa. Per la sicurezza sono disposti a spendere, gli elettori di nove decimi dell'arco politico, quel che non vogliono più spendere in beni pubblici o in solidarietà - diciamo che la sicurezza è il solo bene pubblico da privilegiare. E i candidati premier di destra e di centro e democratici non se ne privano. A Milano si fanno i pogrom contro i campi nomadi, e quella illuminata città non fa una piega. Da Roma Veltroni ha ottenuto in 48 ore non solo una calata di polizia contro un insediamento romeno, ma una legge che facilita le espulsioni, e sarebbe peggiore se la sinistra «estremista» non l'avesse parzialmente corretta.

La sicurezza è un tema imbroglione. Perché chi immigra è perlopiù un marginale e quindi malvisto. E come no? Chi viene senza un contratto di lavoro - ma come farebbe ad averlo da fuori, da lontano, senza appoggi perché si muovono i più disgraziati - si deve poter mandar via, perché se non ce la fa si muove sull'orlo della legalità, e magari ne esce, e alimenta la microcriminalità. Di chi sono piene per due terzi le italiche galere? Di immigrati. I quali servono, e come, alle imprese, anche se in nero, per cui il cavaliere ha pensato persino di dargli un voto amministrativo - arretrando subito davanti alla Lega su tutte le furie. L'attuale società afferma di essere per i diritti umani, ma produce marginalità, la sbatte in galera, produce crisi e bisogni crescenti nel resto del mondo e però tenta di bloccare l'immigrazione. Intanto l'occidente abbassa di anno in anno i già modesti aiuti che davano ai paesi di provenienza.


6. I costi della politica. Ecco un punto che unifica, a quanto sembra, gli italiani: la politica costa troppo, ma soprattutto gli addetti alla politica trovano il modo di compensarsi troppo. Falso? No, vero. Da quando? Dagli anni Settanta in poi, per salari da capogiro da una legislazione all'altra. Meno i politici sono stati apprezzati, più sono stati pagati. Facciamo l'esempio che conosco: il mio. Per essere stata cinque anni deputata (1963-1968) ricevo un vitalizio che oggi è di 2.162 euro netti. Si chiama vitalizio perché non si sommino due pensioni - la mia dell'Inps è 850 euro. Non so come sarei vissuta senza, ma ammetto che se me lo togliessero non oserei aprir bocca. Ma, negli anni Ottanta sono stati in molti a sostenere che se un deputato non veniva pagato bene, si sarebbero candidati solo i miserabili. No, la retribuzione per l'incarico politico, elettivo o no, ha da essere decente ma commisurata al tenore di vita medio del paese, non della sua parte privilegiata. Ma questa verità, che Salvi e Villone avevano scritto per primi, ma nessuno ha ascoltato finché non l'hanno ripetuta quelli del Corriere della Sera - non può servire da grimaldello per cambiare le Costituzione, perché diciamola tutta, quando Veltroni e Berlusconi litigano o si accordano per le riforme delle istituzioni, non intendono solo la legge elettorale né che si tratti di abbassare i costi delle Camere e dei ministeri. Si tratta di andare verso una repubblica presidenziale. Ci sono riforme e riforme: quando si sente la parola, bisogna chiedere: Scusi, precisiamo?


7 e finale. Ecco dunque altri sei punti, oltre quelli trattati finora dal povero gatto del lunedì - su cui ci sono state più oscurità che chiarezze nella campagna elettorale. O qualche chiarezza, se c'è stata, fa paura. Chi legge, ci pensi. Siamo a una svolta della storia italiana, vorrebbe esser la conclusione del 1989. Tabula rasa della sinistra. Per conto mio, tanto perché sia chiaro, voterò Bertinotti. So bene che la Sinistra Arcobaleno non ha dato tutte le risposte, ne ha date, siamo sinceri, solo alcune. Ma è la sola ad avere posto questi problemi. Ed è per questo che la si vuole cancellare dalla scena politica. Il più accanito sembra il Pd, come succede quando si ha che fare con il proprio passato, che non si riesce a elaborare e si vorrebbe liquidare. Bisogna essere ben obnubilati dalla passione, e forse da una certa angoscia, per accusare Bertinotti di aver «segato» l'albero di Prodi. Come fosse stato lui ad averlo fatto cadere, invece che Mastella, Dini e soci.


Lasciamo andare. Io voto Bertinotti perché voglio che una sinistra seria e non pentita resti su piazza. E perché la Sinistra Arcobaleno intende rielaborare tutto quello di cui sopra, e prima, e altro. Non sarà semplice, non dovranno essere loro soli. Tutti portiamo qualche livido addosso. Ma non siamo morti, né staremo zitti.


il manifesto (7 aprile 2008)

venerdì 4 aprile 2008

Sprofondo verdebiancorosso


Immerso nella lettura de “la Repubblica” non faccio caso al tipo che sta seduto di fronte a me. Il treno è da poco partito e sono rilassato. Alzo lo sguardo che incrocio con il suo, rivolto più alla prima pagina del giornale che a me. “Alitalia, l'argomento del giorno”, esordisce. “Già”, ribatto di malumore, perché certe interferenze m'infastidiscono. Almeno si fosse trattato di una ragazza sarebbe stato più gradevole. Eppure la persona non appare come il classico “incidente” da scompartimento ferroviario, una di quelle – per intenderci – pronta ad attaccare bottone sempre e comunque. Soprattutto se sono sprovviste di quotidiani, libri, raccolte di parole crociate. Accanto a sé ha soltanto una borsa portadocumenti. Direi sui 35 anni, ad occhio. Abiti finto-casual, l'aria benevola e accomodante di chi vuol soltanto scambiare quattro chiacchiere innocue, non impegnative intendo. “Stavo leggendo, appunto, delle reazioni tra gli addetti” - mi allargo, rassegnato alla conversazione. Tanto il viaggio è lungo e ci può stare. “Non sempre si può scrivere ciò che si vuole” - ammicca. “In che senso?” - ribatto. “Ascolta, possiamo darci del tu, vero?” “Certo” - rispondo e già questa richiesta mi predispone favorevolmente nei suoi confronti. “Conosco la compagnia di bandiera dall'interno” - esordisce “e posso raccontarti una storia esemplare. Ma ad un patto, però” “Dimmi pure, credo di essere un buon ascoltatore e non avrò difficoltà a mantenere l''impegno”. “Bene. Allora tu ascolta soltanto ed evita domande a cui non potrei rispondere”. “Vicende top-secret?” chiedo già incuriosito. “Diciamo che, se vengo interrotto, perdo facilmente le fila del discorso” e strizza l'occhio. Ripiego “la Repubblica”, mi rialzo sul sedile e apro il fedele moleskine. “Hai problemi se prendo appunti?” - chiedo prudentemente. “Fai pure. Nessun problema” - risponde sorridendo.

Lo scompartimento è semivuoto. Ci spostiamo proprio in fondo alla carrozza e Marco, come dice di chiamarsi, inizia il suo racconto che ho cercato di riportare fedelmente, comprese le divertenti espressioni colorite.

«Con Alitalia ci ho lavorato per un paio d'anni e per questo motivo andavo nella loro sede almeno due-tre volte al mese, come consulente informatico. Ci vedevamo con un gruppo del loro ufficio marketing, formato in maggioranza da “sgallettate” totalmente ignoranti, prive di qualsiasi specializzazione o competenza in merito. Nonostante questo, il loro stipendio era intorno ai 3 milioni di vecchie lire, ed era un bel grasso stipendio all’epoca. Di queste, stando ai “si dice”, una era entrata in Alitalia tramite uno zio, un'altra tramite uno a cui l’aveva data (me lo disse proprio lei, tutta compiaciuta). Oh, magari anche la prima l’aveva data allo zio, ma queste sono solo supposizioni... Delle altre non so, ma insomma...

Ora, andare in riunione in culo alla luna nella fantasmagorica cattedrale nel deserto (campagna, a dire il vero) Alitalia già era divertente di per sé, il problema è che poi ci si passavano delle mezz’ore per fare il badge, delle mezz’ore per essere annunciati, delle mezz’ore per essere ricevuti, delle mezz’ore davanti alla macchinetta del caffè (che fai, nun t’oo piji? Maddai, famo ‘na pausa, naa?!), poi, finalmente, ci si sedeva a tavolino. E lì partivano delle altre mezz’ore su quisquilie più o meno varie, tipo che te sei fatta ai capelli, l’hai visto ieri Biutifùl (qualcosa del genere, non proprio quello e mi piace pensare che l'avrebbero scritto così, aggiungo), ma, soprattutto, lo spettegolìo sul collega di turno.

In pratica si arrivava lì verso le dieci di mattina e, se si era fortunati, si usciva non meno di cinque ore dopo. In tutto questo tempo ti rendevi conto che - non esagero - la metà del personale non faceva un cazzo assoluto. Una tipa stava in una stanza dove giocava a solitario tutto il giorno, ogni tanto rispondeva al telefono e diceva “no, pe’ carità, dije che nun ce sto, questo m’attacca pippa io mica posso stallo a senti’ pe’n’ora, tanto nun se po’ ffa’ qu’oo che vòle, er capo nun ce sta, ah, no, dije c’ha detto de no, sì, er capo ha detto no. No che il capo nun ce lo sa, ma tanto si poi j’oo dimo mica s’oo ricorda, je dimo dotto’, ma di questo ne avevamo già parlato e lei aveva detto de no. Tanto è rincojonito, c’ha tremila cazzi da pensa’, mica se va a ricorda’ de ‘sta robba”. Io, giuro, questo dialogo l’ho sentito almeno due volte a diverso titolo (non so se rivolto pure a diverse persone o alla stessa).

Poi c’era la capa del gruppo, una che non c’era mai. La voce di corridoio diceva che l’aveva elargita al capo supremo di quella parte di stabile, per cui arrivava quando voleva (se voleva) e il badge glielo passava il segretario (che poi andava a prenderla quando arrivava. Lì non c’era il cartellino, strisciavi il badge ogni volta che entravi/uscivi dal palazzone).

Era bellissimo. L’aria che si respirava era di fancazzismo puro, totale, accanito. Gente che leggeva il giornale, gente che in sala riunioni (ce ne sono diverse ad ogni piano, salette più o meno dai 10 ai 50 metri quadri) si guardava i film in dvd sui primissimi schermi al plasma (ogni saletta ne aveva uno), gente che con lo stesso trucco del badge passato dall’amico compiacente era usa a passare il suo tempo al di fuori del labirinto, magari a fa’ un altro lavoro. In nero, of course.

Io, ogni volta che uscivo da lì ero scosso, mi sentivo obnubilato da quelle veneziane tirate giù (le varie stanze avevano la parete d’ingresso a vetri, quindi le tapparelline chiudevano la vista) nei corridoi, da quelle stanze parzialmente inondate dal sole (anch’esso schermato da altre tapparelle alle finestre) dove, una volta, ho visto dormire beatamente uno sdraiato su una poltrona, con la radio a basso volume (musica lounge). Non ne vedevamo lavorare uno che fosse uno, cazzo!

Si raccontava che la maggior parte delle persone che lavorava a quel piano, e ai due superiori, era totalmente inutile ad Alitalia, stava lì solo per questioni di raccomandazione, di posti da elargire, di quote di partito da soddisfare. Una specie di caravanserraglio dove depositare favori ad amici. Parliamo, ad occhio e croce, di circa 600 persone. Fatti i dovuti calcoli significano circa 4-5 miliardi di lire all’anno tra stipendi, contributi e benefits vari. E, attenzione, solo di quei piani. Poi ce n’erano altri che sfuggivano al loro pettegolìo (la sede è enorme). Un’ottica da ministero o società statale dei bei tempi andati, insomma.

Ma del resto, allo stile fantozziano, ci avevo fatto il callo. La prima volta che vidi una cosa del genere (e capii che i film, i libri e le opere di fantasia in generale sono solo il pallido specchio della realtà), fu qualche anno prima in un'azienda del gruppo IRI Finsiel. Là conoscevo un pezzo grosso dell'azienda che mi aveva fatto il piacere di mettermi a disposizione una serie di macchine per il test di un software.

Dovevo testare un'applicazione da distribuire in allegato ad un periodico. I tempi, come al solito, erano mostruosamente ridotti e non avevo sufficienti computer su cui fare le prove. È vero che esisteva solo Windows 3.11, ma la maggior parte dell'installato presentava varie versioni di DOS e OS2 e Warp e perfino DR-DOS, quindi mi servivano diversi computer con diverse configurazioni. Ero pronto al suicidio, ma mi venne in soccorso il sempiterno "amico dell'amico", che nella fattispecie era un compagno di merende di mio padre, il quale rivestiva una carica piuttosto importante in questa azienda, credo fosse capoladro o qualcosa del genere, il quale mi diede la possibilità di fare questi test in una delle sale informatiche del gruppo.

In queste enormi stanze (soffitti alti praticamente quaranta metri, stanze minimo di 50 metri quadri, i cessi erano di 30, più o meno) c’erano altre persone che lavoravano. Oddio, lavoravano.... Ce n’era uno che arrivava di prima mattina, apparecchiava quattro o cinque quotidiani sulla scrivania e leggeva fino alle 17. Seppi che era un sindacalista in rotta con la dirigenza, solo che non potevano licenziarlo e lui se la spassava così. Sempre meglio (almeno ti fai una cultura) del collega alla sua destra, quello che con un televisorino portatile, hai presente quegli scatolotti tipo a 5, 6 pollici con l’antenna, se vedeva tutte le trasmissioni più del cazzo che c’erano. Ovviamente, però, a volume altissimo (che, in quegli affari, significa una distorsione assoluta del suono, praticamente una scoreggia continua). Poi c’erano i tecnici che se facevano le canne al seminterrato e via così.

Questa era la normalità, stando alle confidenze dell'amico di mio padre. Era ed è. È così che si lavora nei posti pubblici, è così che poi le aziende vanno a farsi fottere. So che alcune delle sgallettate non lavorano più in Alitalia, ma gli hanno fatto causa e di recente hanno rimediato 150.000 euro cadauna, non so onestamente a che titolo. Così avrà fatto pure il sindacalista. E così avranno fatto migliaia di persone che non ho avuto il piacere di incontrare, ma sono in grado di immaginare».

Roma, stazione di Roma Termini: termine di corsa.



















Come i polli di Renzo


Sembra ormai essere diventato l’argomento principale, quello dell’Alitalia, al centro di dibattiti e campagna elettorale. L’unica cosa chiara è la contrapposizione di tutti contro tutti, a seconda delle convenienze del momento. Peccato che nessuno si faccia carico di riassumere la situazione, partendo dalle origini, perché messa così la questione sembra proprio che dipenda dal governo uscente. E invece si trascina da tempo.

Per esempio, nel quinquennio del centrodestra sono accadute parecchie cose che hanno peggiorato le sorti della compagnia di bandiera. Mentre il tesserato P2 n°1816 blatera di immaginifiche cordate…


Ai tempi d'oro... quando al governo litigavano la Lega e An

II quinquennio del centrodestra: immobilismo nel grande e costoso andirivieni di presidenti e amministratori


di Roberto Rossi / Roma    


Rinvii, piani industriali abortiti, privatizzazioni mancate, molti soldi pubblici, manager brucia­ti e Lega tanta Lega. I cinque an­ni di Alitalia sotto la gestione Berlusconi sono volati tra liti, ri­catti e mancate decisioni. Cin­que anni in cui la ex Casa delle Libertà ha avuto la responsabili­tà di gestire il sistema aeropor­tuale del Nord, compreso lo svi­luppo dello scalo di Malpensa. Un lustro d'attesa. Vissuto con il dualismo tra Malpensa e Fiu­micino, tra Lega Nord e Allean­za Nazionale. Un immobili­smo, che, per dirla come il mini­stro dello Sviluppo economico Pier Luigi Bersani, «ha portato l'azienda a una situazione pre­fallimentare» e a un sistema ae­roportuale tanto anarchico da vanificare il concetto stesso di hub di Malpensa.

Una via crucis per Alitalia. Tan­to che nel giro di una legislatura la società ha avuto tre ammini­stratori delegati, (Francesco Mengozzi, Marco Zanichelli e Giancarlo Cimoli) e altrettanti presidenti (Fausto Cereti, Giu­seppe Bonomi e Giancarlo Ci­moli). Air France, suo potenzia­le alleato, uno solo: Jean-Cyril Spinetta, dal 1997.

L'andirivieni di manager dal centro direzionale della Magliana ha una sua ragione economi­ca e politica. Quando nel 2001 il ministro dell'Economia Giu­lio Tremonti eredita Alitalia - il Tesoro è il principale azionista con oltre il 54% - la compagnia aeroportuale ha i conti gestibili. La società, grazie anche a parti­te straordinarie, nel 1998 aveva strappato persino un leggero utile. E problema è la gestione e la politica di alleanze. Il gruppo deve essere snellito e ridisegna­to. Si deve trovare poi un part­ner capace di garantire il salto. Va anche privatizzato. Lo vuole l'Europa e le tasche dei cittadini che negli ultimi dieci anni han­no versato nel gruppo oltre tre miliardi di euro. I punti sono concatenati. Ridisegnare il grup­po vuol dire anche farlo tornare alla redditività. Una società che fa utili è appetibile e può essere privatizzata più facilmente. Una volta privatizzata si può pensare alle alleanze. Come quella con Air France e Klm. Ed è a questo che il primo piano industriale di Francesco Men­gozzi, datato novembre 2001, due mesi dopo l'attentato alle Torri Gemelle, punta. Poche pa­role d'ordine: utile nel 2003, au­mento della flotta, ricapitalizzazione, esuberi per 2500 perso­ne, ma anche ridefinizione dell'hub di Malpensa. Perché l'aeroporto di Varese dalla sua na­scita nel 1998 non decolla. Le infrastrutture promesse dalle istituzioni locali non ci sono. I collegamenti veloci con le pro­vince limitrofe, le nuove metro­politane, i treni che devono spingere l'hub a diventare l'aeroporto di tutto il Nord Italia non vengono realizzati. Lo sca­lo, che doveva essere il punto di riferimento del Nord è isolato. E poi il Nord, almeno quello produttivo, preferisce volare da Brescia, Bergamo, Verona, Tori­no e addirittura da Linate. Al progetto di ridimensionare Malpensa si oppone la Lega Nord. Che chiede e ottiene, come con­trappeso, alle pretese di Allean­za Nazionale, la presidenza del gruppo con Giuseppe Bonomi. E siamo nel 2003.

Il piano Mengozzi annacquato da resistenze sindacali e politi­che è ormai vuoto. Così come il progetto di una privatizzazione. Al quale per ragioni simili, la salvaguardia di Fiumicino e Malpensa, cioè di bacini eletto­rali, vi si oppongono An e Lega. Mengozzi lascia nel 2004. L'azienda, rifiutata da Air France e Klm per una fusione parite­tica, arranca con perdite elevatissime (oltre 800 milioni). Il go­verno pensa a una gestione commissariale che consegni la parte sana di Alitalia in mano ad imprenditori disposti a rilan­ciarla. Si fa anche il nome del traghettatore: Maurizio Basile manager che ha condotto l'Eti, Ente tabacchi, alla privatizzazione. Ma il progetto non va in por­to, far fallire Alitalia significa ca­ricarsi costi sociali enormi. Si preferisce galleggiare. Con Giancarlo Cimoli, un passato al­le Ferrovie e una fama da risana­tore, un prestito ponte da 400 milioni e un'altra ricapitalizza­zione da un miliardo e 205 mi­lioni. Anche Cimoli promette il ritorno all'utile ma è solo una chimera. Alitalia affonda trascinata da Malpensa, che fa perde­re al gruppo oltre 200 milioni al­l'anno. Ma non la faccia al go­verno Berlusconi.


l’Unità (21 marzo 2008)