martedì 16 agosto 2011

Anni dannati
















 



COSA RESTA DOPO 8 ANNI DI GOVERNO BERLUSCONI



FRANCO CORDERO



Secondo l'oracolo d'Arcore ( hard core nel calembour d'un foglio inglese), l'Italia sopporta meglio d'altri Paesi eminenti la congiuntura planetaria: in fondo, stiamo bene; importa poco che il debito pubblico sfondi ogni parametro e i Btp siano collocabili solo a tassi esosi; «le borse sono un orologio rotto», racconta giovedì 4 agosto, visto come Piazza Affari accolga lo stupido discorso nelle Camere, applaudito dalla ciurma (il ministro degli Esteri, viso impassibile da capovoga, batteva il ritmo a manate sul banco); en passant consiglia d'investire in Mediaset. Un tedesco direbbe Galgenhumor, umorismo da patibolo.



Dopo otto anni sub divo Berluscone, i conti fanno spavento. S'è arricchito da scoppiare, indifferente agl'interessi collettivi, senza la minima idea del cosa sia fare lo statista, perché l'unica sua abilità, formidabile, sta in affari penalmente rischiosi, donde la fobia dei tribunali: nel clownesco contratto elettorale figuravano Stato leggero, fisco arrendevole, vita comoda, soldi a palate, opere pubbliche faraoniche; e passata la sbornia, i poveri contraenti vedono in faccia la bancarotta.



L'ipotesi migliore è una dura terapia in lacrime e sudore, ma il danno genetico lascia segni permanenti. Nella crisi mordono fattori italiani. Il più importante ha un nome, "corruzione": borsa nera dove infedeli addetti alla res publica vendono favori alterando i meccanismi selettivi; è un vorace fisco occulto; vent'anni fa divorava diecimila miliardi l'anno in lire. Lì cade una classe politica bacata, 1992. S'estingue la Dc, cerca identità l'ex Pci. In vacuo emergono l'antipolitica leghista e la pseudo novità berlusconiana. Il beneficiario della tempesta giudiziaria è lui, supremo corruttore (magnifico trasformismo): doveva salvarsi e sinora vi è riuscito occupando lo Stato; l'adopera disinvolto, quasi fosse roba sua; in particolare, trucca la giustizia mediante norme su misura, ubbidito da squadre parlamentari del cui ceffo non s'era ancora visto l'eguale. Diciannove testi promulgati sono il monumento d'una fraudolenta soperchieria. Il ventesimo, votato a Palazzo Madama, gli offre il modo d'allungare i dibattimenti portando testimoni a migliaia, finché i delitti siano estinti dal tempo; al quale fine s'era ridotto i termini; e un altro capolavoro in corso d'opera decapita i processi imponendo limiti alla durata nei singoli stadi.



Il berlusconismo implica l'impunità dei colletti bianchi.



La portava nelle insegne: documenti sonori dicono che greppia fossero gli appalti gestiti dalla Protezione civile; emergono una P3 e P4, ma il Protettore aborre questo canale investigativo, l'unico efficace, e appena abbia mano libera, lo spranga. Naturale il rigoglio malaffaristico. Gli analisti quantificano l'attuale prelievo in sessanta miliardi d'euro, dodici volte quello d'allora, pari alla manovra che doveva quadrare i conti.



Nei materiali raccolti figura Denis Verdini, triumviro forzaitaliota: martedì 2 agosto Montecitorio dichiara tabù le relative emissioni verbali; «non mi lascerò colpire dai giudici», afferma quel prode. L'indomani l'Unto viene nelle Camere a elogiarsi e gli eletti sciamano in vacanza fino al 5 settembre: centosettanta parlamentari andranno in Terrasanta, condotti dal templare Cl Maurizio Lupi; accudisce le onorevoli anime monsignor Rino Fisichella, arcivescovo evangelista (ogni tanto interloquiva in senso governativo).



In proposito circola una dottrina. Il capostipite è Licio Gelli, venerabile maestro della P2: era idea sua il pubblico ministero ubbidiente al governo («Piano di rinascita democratica», databile 1976), così nessuno molesta i gentiluomini ben visti da chi comanda; pochi anni dopo suona musica analoga Bettino Craxi. L'argomento tiene banco nella commissione bicamerale dalemiana (5 febbraio 1997-9 giugno 1998), il cui quarto comitato studia «le garanzie»; lo presiede un verde dal passato camaleontico: ultras cattolico, Lotta Continua, partito radicale, Psdi, Psi modulo craxiano. Castigamatti antigiustizialista, l'on. Marco Boato vuole una magistratura ridotta a ordine professionale, come gli avvocati o i dentisti et ceteri: un Consiglio superiore subordinato al parlamento; al diavolo l'obbligo d'agire; procure immobili finché non arrivino notitiae criminis qualificate; e punto capitale, ubbidiscano al ministro. Il Venerabile chiede spiritosamente i diritti d'autore.



Dalla stessa matrice discendono i disegni berlusconiani (nella P2 aveva il numero 1816). Altrettanto vi pescano chierici d'una scuola pseudoneutrale. L'ultimo (E. Galli della Loggia, Corriere della Sera, 31 luglio) rileva «livelli spaventosi d'inquinamento», speriamo ancora reversibili: vero; e dalle cronache non appare indenne la sinistra. Falso invece che il nodo scorsoio sia insolubile fin quando gli antagonisti non transigano sulle regole dell'azione penale. Vale l'opposto: accordi transattivi implicano logiche illegalistiche, i cui canoni risalgono a Gelli, ricalcati nella Bicamerale; messeri d'ambo le parti ventilavano uno scioglimento parlamentare delle pendenze penali berlusconiane. Cantori Pdl e finti neutrali salmodiano contro l'«uso politico della giustizia».



In chiaro il discorso suona così: «vogliamo un sistema dove le persone siano penalmente diseguali; alcune meritano riguardi fino all'impunità». La corruzione è delitto grave: quanto pesi, lo dicono i conti pubblici; ed esiste un solo rimedio, punirla, qualunque sia il distintivo all'occhiello; cosa impossibile dove un ministro comandi le procure e i partners del commercio delittuoso parlino sicuri al telefono, non ascoltabili. Al quale proposito spigoliamo una notizia (Corriere della Sera, 5 agosto). L'Olonese diagnostica il morbo italico: toghe invadenti tarpano la crescita economica; e ha la terapia pronta. Eccola: «fermare le intercettazioni», farina del diavolo; sminuire la Consulta affinché non dichiari invalide norme votate dal parlamento; strigliare gl'irrispettosi. Non è più perdonabile fingere che il caso penal-psichiatrico B. sia materia quasi innocua.



(11 agosto 2011)


Vergogna senza fine




LA MANOVRA DELLA DISPERAZIONE



MASSIMO GIANNINI





Il Governo della dissipazione ha infine raffazzonato la manovra della disperazione. Come i peggiori esecutivi andreottiani della Prima Repubblica, costretti a turare in extremis gli allegri buchi di bilancio, buttavano giù in tutta fretta i decretoni di Natale, così anche il gabinetto di guerra berlusconiano, obbligato dal direttorio franco-tedesco e dal board della Banca centrale europea, improvvisa il suo decretone d'agosto. Quarantacinque miliardi "aggiuntivi" di tasse e di tagli, dicono Berlusconi e Tremonti, per accentuare il peso simbolico dello "sforzo" di fronte alla business community.



In realtà si tratta di misure che solo in minima parte si sommano, mentre in massima parte si integrano e anticipano la "prima rata" di norme, già evanescenti nel merito e urticanti nel metodo, varate a metà luglio. È il prezzo da pagare all'improvvisazione politica, come i fatti di questi tre anni dimostrano, e non certo alla speculazione finanziaria, come la vulgata governativa si affanna a far credere. È un prezzo altissimo. Nella quantità: una manovra complessiva che, sia pure su base pluriennale, si avvicina ai 50 miliardi di euro, non ha precedenti nella storia repubblicana. Nella qualità: una stangata che, sia pure con un qualche apparente rispetto del principio di progressività del prelievo, ruota per tre quarti sull'aumento della pressione fiscale, ha precedenti forse solo nella storia sudamericana. Per fortuna che questo dice di essere il governo che «non mette le mani nelle tasche degli italiani».



Berlusconi e Tremonti continuano a ripetere che «in cinque giorni tutto è cambiato e tutto è precipitato». Sappiamo bene che non è così. Tutto sta cambiando dall'inizio della crisi globale del 2007, con il crac dei mutui subprime americani. Tutto sta precipitando dall'inizio della crisi europea del 2010, con il crac del debito irlandese e poi di quello greco. Tutto sta precipitando dall'inizio della crisi occidentale del 2011, con il fantasma della double dip recession che soffoca Stati e mercati. Non averlo capito per tempo è la colpa più grave e imperdonabile che il governo italiano si porta dietro. E che ora si scarica sugli italiani, già provati da una caduta del reddito, del risparmio e dell'occupazione senza paragoni con il resto di Eurolandia, e adesso obbligati a questo drammatico supplemento di sacrifici.



La vera e unica novità di questa stangata è il cosiddetto "contributo di solidarietà" per i redditi più alti. Una misura che, nella forma, vorrebbe ricordare l'eurotassa introdotta dal governo Prodi nel '96 per raggiungere il traguardo di Maastricht. Ma nella sostanza la nuova norma è mal congegnata, e alla fine ha il solito sapore "di classe", come tutte le scelte fatte dai liberisti alle vongole cresciuti nell'allevamento di Arcore.



La scelta di aggredire l'Irpef penalizza soprattutto il lavoro dipendente. La soglia scelta per il doppio prelievo fa sì che a pagare siano pochi "super-ricchi" (511 mila italiani, cioè l'1,2% dei contribuenti secondo la Cgia di Mestre). E il tetto scelto per i lavoratori autonomi (55 mila euro l' anno) fa sì che all'imposta straordinaria sfuggirà la stragrande maggioranza di chi già evade abbondantemente le tasse (e infatti dichiara in media poco meno di 30 mila euro l'anno). Dunque, l'intenzione del governo poteva anche essere buona, ma la realizzazione è pessima sul piano pratico, e discutibile sul piano etico.



Per il resto la stangata è una miscela caotica di vuoti e di pieni, che conferma l'impianto sostanzialmente regressivo seguito dalla maggioranza in questi tre anni. Da un lato, il carniere del rigore è sicuramente pieno per quanto riguarda il ceto medio, che sopporta da solo quasi l'intero onere del risanamento. È ceto medio il pubblico impiego che, ancora una volta, è il perno ideologico intorno al quale ruota la politica economica del centrodestra: dal Tfr agli straordinari, i dipendenti pubblici sono anche oggi la vittima sacrificale di una coalizione che si accanisce senza pietà contro le categorie che non la votano. È ceto medio l'universo dei pensionati, che tra disincentivi all'anzianità e anticipo dell'età delle donne, subisce un altro colpo necessario ma pesante, perché non bilanciato da una degna politica attiva del Welfare.



Dall'altro lato, il carniere del rigore è altrettanto pieno per quanto riguarda i ministeri e gli enti locali, che patiscono il danno più devastante perché accompagnato dalla beffa del federalismo, ormai un feticcio virtuale persino per Bossi. Dopo la mannaia indiscriminata dei tagli lineari, il colpo di scure su dicasteri, regioni e comuni si accelera rispetto alla tempistica già prevista nel pacchetto di luglio: nulla di nuovo, dunque, ma l'esito non potrà non essere l'aumento dei tributi locali e l'azzeramento dei servizi sul territorio. Se è vero che c' è da soffrire (ed è doveroso farlo, perché il Paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e chi lo governa ha fatto di tutto per non farglielo capire) è anche vero che non possono soffrire sempre gli stessi.



Ma quello che abbaglia di più, in questa manovra dell'emergenza agostana, sono i vuoti. Il primo vuoto riguarda i famosi tagli ai "costi della politica". Ancora una volta l'improntitudine di questa casta berlusconiana ha tradito tutte le già mal riposte attese della vigilia. C'è finalmente una sforbiciata delle province e l'accorpamento dei piccoli comuni (merce inutilmente "svenduta" nella campagna elettorale del 2008). Ma per il resto, tra stipendi pensioni e benefit dei parlamentari, c'è poco e niente, a parte il modestissimo "obolo" sulla tassa di solidarietà raddoppiata per deputati e senatori e la trasformazione dei loro viaggi in business class in voli in economy.



Il secondo vuoto, che conferma la visione corporativa e aziendalista di questa maggioranza, riguarda la cosiddetta "patrimoniale": l'unica forma di imposizione che, se ben architettata, avrebbe potuto far pagare davvero chi ha di più e lo nasconde, e che avrebbe dato un segno di vera equità a una manovra altrimenti squilibrata. E non bastano, a bilanciare questa assenza che salva ancora una volta gli evasori, norme pur sacrosante come la tracciabilità delle operazioni sopra i 2.500 euro, che Prodi e Visco avevano introdotto nel 2006 e che il Cavaliere aveva voluto colpevolmente eliminare all'inizio della sua legislatura perché le considerava «leggi di stampo sovietico».



Ma il vero vuoto più clamoroso e più rovinoso di questa manovra riguarda, anche stavolta, il sostegno alla crescita dell'economia e alla produzione della ricchezza. È l' aspetto più inquietante e deprimente di questa stagione politica, marchiata a fuoco da una leadership inconsistente e imbarazzante che a tutto ha pensato fuorché agli interessi del Paese. Senza un' idea e senza un progetto per lo sviluppo, questa stangata estiva, che pure andava fatta, non potrà che generare nuova recessione, e aggiungere declino al declino.



Tutti gli stati dell'Eurozona stanno somministrando cure da cavallo ai propri popoli. La differenza è che insieme ai sacrifici quei Paesi sanno costruire anche i benefici, mentre in Italia ci sono solo i primi senza i secondi. Occorreva dire la verità, agire prima e dotarsi di una politica. Così si uccide un'economia. «Gronda il sangue dal cuore, ma dovevamo farlo», ha detto il premier in conferenza stampa alla fine del Consiglio dei ministri. Se è vero, è sangue di coccodrillo.



 



(13 agosto 2011)


lunedì 15 agosto 2011

La casta gattopardesca









 Sugli enti locali solo un primo passo


Le poltrone e i tagli. Le scelte non fatte dalla classe politica



Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella





Dice il presidente pidiellino della provincia di Isernia, Luigi Mazzuto, che è tutta colpa del «solleone di Ferragosto che dà alla testa e gioca brutti scherzi». Figurarsi se il «suo» Berlusconi, solo perché le Borse hanno avuto un crollo apocalittico, va a tagliare davvero la sua Provincia! E intorno a lui, dal profondo Nord al profondo Sud, cova la rivolta.



Al punto che perfino l'aspetto più «spettacolare» della nuova manovra viene messo a rischio. Chiariamo subito: il proposito di tagliare le Province è un segnale importante.

Tanto più che solo un mese fa Pdl e Lega avevano sepolto sotto una valanga di no la proposta dipietrista di togliere gli enti dalla Costituzione, primo passo per la loro abolizione. La rottura della diga leghista, che aveva fino ad oggi impedito ogni taglio è una svolta poche settimane fa impensabile. Evviva.



Sarebbe ingiusto se chi chiede alla politica di tagliare in modo significativo non lo riconoscesse: è un passo avanti. Come quello del Pd che propone oggi, in alternativa al piano tremontiano, non solo lo «snellimento di Regioni, Province, Comuni», ma addirittura il «dimezzamento o più delle Province». Puzza di ipocrisia, dopo l'astensione di un mese fa che rafforzò il «no» della destra e più ancora dopo le motivazioni («Non si vota una cosa sbagliata e demagogica per mandare un segnale», tuonò Dario Franceschini) che erano state addotte. Ma è un passo avanti.



Detto questo, facciamo un po' di conti. L'annuncio era stato: «Abolite tutte le Province sotto i 300 mila abitanti». Totale: 37. Poi è arrivata la precisazione: tranne quelle più grandi di tremila chilometri quadrati. Ed ecco sfilarsi Oristano e Sondrio e poi Olbia-Tempio Pausania e Matera e Siena e Grosseto e Nuoro e Belluno. E siamo già a 29.



Poi è entrato in campo, contro il governo berlusconiano, il berlusconiano governatore del Friuli-Venezia Giulia Renzo Tondo, ricordando che la competenza su queste faccende, a casa sua, non è di Roma e dunque le Province di Trieste e Gorizia non saranno abolite, ma semmai accorpate. Anzi, già che c'era ha precisato che lui non abolirà neppure i Comuni sotto i 1.000 abitanti: «Manterranno i municipi e i sindaci, ma verranno accorpati i servizi». E da 29 scendiamo a 27.



Mille chilometri più a sud, a quel punto è stata la volta dei siciliani che per bocca sia del leader democratico Antonello Cracolici sia dell'assessore lombardiano Gaetano Armao hanno precisato che l'isola è ancora più autonoma e dunque, semmai, le Province le aboliscono tutte loro, senza diktat romani. Per precisare meglio la cosa è intervenuto anche Gianfranco Micciché, che è sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma scrive sul suo blog: «In questo governo siede tanta gente che non conosce il Paese. Esempio: l'accorpamento delle Province regionali di Enna e Caltanissetta è il risultato "matematico" del criterio adottato dal governo, ma è un risultato aberrante». E così, tolte Enna e Caltanissetta, caliamo a 25.





Potevano a quel punto tacere i sardi? Manco per idea. Ed ecco arrivare da Cagliari un'agenzia, chiaramente ispirata ai vertici regionali, che ricorda come «tutte le Province della Sardegna potrebbero sopravvivere alla soppressione» (e così i comuni sotto i 1.000 abitanti) perché «l'articolo 3 dello statuto speciale, testo di rango costituzionale mentre il decreto delineato dal Consiglio dei ministri avrà valore di legge ordinaria, attribuisce alla Regione potestà legislativa in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni, seppure "in armonia con la Costituzione"». E anche se il governatore Ugo Cappellacci ribadisce di avere lui pure l'intenzione di tagliare, sfiliamo per ora dalla lista anche quelle di Carbonia-Iglesias, del Medio Campidano, dell'Ogliastra. E da 37 siamo già scesi a 22. Un quinto del totale. A dispetto di quanto annunciato da Roberto Calderoli: «Aboliremo dal 25 al 35%. Ovviamente dopo il censimento previsto a ottobre».



Avanti così rischiamo di entrare nel giochetto caro ad Agatha Christie: «Dieci poveri negretti / Se ne andarono a mangiar / uno fece indigestione, / solo nove ne restar. / Nove poveri negretti / fino a notte alta vegliar / uno cadde addormentato, / otto soli ne restar...».

Tocchiamo ferro, ma alla fine potrebbe spuntarla il coro di quanti si ribellano come il presidente molisano: «Se le Province sono inutili allora perché ne aboliscono solo alcune?». Per salvare quelle che pesano di più dal punto di vista elettorale o contano di più per Bossi che disse «se toccano Bergamo scoppia la guerra civile»? Meglio una scelta netta: via tutte. Magari procedendo con una road map che abbia date e scadenze fisse. Ma tutte, come era già previsto dai padri costituenti. Oppure il processo rischia di incepparsi e rivelarsi una boutade per placare i cittadini infuriati. L'idea di uscirne con un «dose omeopatica» di Province può essere suicida.



In questo momento in cui gli statali scoprono che dovranno aspettare due anni (due anni!) per avere la liquidazione, nulla è più controproducente per la casta politica che dare l'impressione di rifilare alla plebe zuccherini propagandistici. Due esempi? Lo sbandieramento di un taglio di «54 mila poltrone», che avverrebbe attraverso l'accorpamento (giusto) dei Comuni piccoli e piccolissimi. Che senso ha vantarsi di tagli simili? Non prendono un centesimo, nella stragrande maggioranza dei casi, i consiglieri di quei comuni. E spesso sono proprio loro, con gli assessori e i sindaci, i più generosi testimoni della politica sana e disinteressata.




Ancora più peloso è menar vanto, senza toccare mille altre cose, per la decisione che deputati e senatori paghino non il 10%, ma il 20% sui loro guadagni che eccedono i 150 mila euro. Quello che viene accuratamente rimosso è che larga parte della busta paga «vera» di un parlamentare (che poi dia dei soldi al partito ingordo è un'altra faccenda) consiste in diarie e rimborsi che non finiscono nell'imponibile. Tanto è vero che ci sono parlamentari che denunciano meno di 50 mila euro. Bene: sapete quanti senatori, stando all'ultima denuncia dei redditi disponibile, non arrivano a quel tetto che prevede la soprattassa? Il 45%, abbondante. Quanti deputati? Addirittura 378, pari al 60%. Totale: 523 parlamentari su 951 non lo pagheranno, quel raddoppio di una tantum . E gli altri lo pagheranno solo perché, oltre a quello del parlamentare, fanno troppo spesso altri lavori. Cosa che, nei Paesi seri, è vietata. Perché, direte, non introducono invece questo divieto a mantenere i piedi in due staffe? Ovvio: è molto più conveniente pagare la soprattassa. E magari vantarsene pure.




(14 agosto 2011)


Scandalose evasioni













L'EDITORALE


Pagano sempre i soliti noti



di EUGENIO SCALFARI 



Sintesi della manovra per Berlusconi: "Il mio cuore gronda sangue, ma ho dovuto farlo per il bene del Paese".



Sintesi della manovra per Tremonti: "La mia coscienza è tranquilla perché ho operato per il bene del Paese".



Sintesi della manovra per noi commentatori cattivi secondo il ministro Sacconi: "È una tardiva e inutile schifezza".



Queste sono le sintesi, ma ora andiamo alle analisi. Questo decreto-manovra che modifica dopo appena due settimane il decreto approvato in tre giorni dal Parlamento, rappresenta il combinato disposto d'un asprissimo conflitto tra Berlusconi e Tremonti nel corso del quale l'uno e l'altro si sono paralizzati a vicenda. Il primo aveva come sponda e come scusante Mario Draghi e la Bce, il secondo combatteva da solo e con un braccio legato da una catastrofe incombente da lui non prevista.



Berlusconi avrebbe voluto aumentare l'Iva di uno o due punti, Tremonti gliel'ha impedito dimostrandogli che il gettito sarebbe stato insufficiente e il rischio di inflazione elevato.



Tremonti voleva un'imposta di scopo sulla ricchezza, analoga a quella che fu varata da Prodi per l'entrata nell'euro. Berlusconi gliel'ha impedito. Berlusconi voleva sbloccare 15 miliardi che i concessionari di beni pubblici erano in grado di mobilitare subito per investimenti in infrastrutture a cominciare dalle autostrade, porti, aeroporti, ferrovie. Tremonti gliel'ha impedito.



Tremonti voleva tassare la prima casa. Berlusconi gliel'ha impedito. Bossi, terzo incomodo, non voleva che fossero manomesse le pensioni d'anzianità. In parte c'è riuscito ed ora ne mena vanto.



Il decreto esce oggi in "Gazzetta Ufficiale" ed è il risultato di questa singolarissima collaborazione tra il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia. Una collaborazione perversa che non è mai avvenuta in nessun Paese del mondo dove, quando si manifestano dissidi e versioni così contrapposte uno dei due contendenti (di solito il ministro) rassegna le dimissioni. Da noi no, dimettersi non si usa, c'è sempre uno Scilipoti a tenerli a galla.



Domani in tutto il mondo riaprono i mercati perché il ferragosto è una vacanza solo italiana. Noi commentatori cattivi speriamo di tutto cuore che questo aborto di manovra sia preso sul serio a Francoforte, a Parigi, a Londra, a Wall Street. Ma se così non sarà, saranno guai terribilmente seri.





* * *





C'è stato un preludio alla manovra-schifezza. Il ministro dell'Economia era profondamente offeso da come i giornali della famiglia regnante (ma non solo loro) l'avevano trattato. E ancor più offeso dal fatto che il presidente del Consiglio aveva pubblicamente assunto come sua guida il governatore Draghi che lui vive come un trave in un occhio. Chiese perciò, a tutela della sua reputazione, l'immediata nomina di Vittorio Grilli, attuale direttore generale del Tesoro e suo fidato seguace, a governatore della Banca d'Italia. Berlusconi chiamò Letta e l'incaricò di darsi da fare: voleva evitare che Tremonti si dimettesse in uno dei suoi sempre più frequenti attacchi di rabbia.



Letta non trovò di meglio che chiedere l'aiuto di Bersani, ma aveva scelto molto male l'eventuale aiutante o forse l'aveva scelto benissimo. Bersani fece quello che onestamente riteneva giusto: informò Napolitano di quanto gli veniva chiesto. La nomina del governatore è un atto complesso e il presidente della Repubblica ne è uno degli attori principali. Perciò dal Quirinale avvertirono Letta che una richiesta del genere in un momento così agitato sarebbe stata respinta. Come preludio alla manovra non c'è male.



Ma ci fu anche un altro preludio, passato quasi sotto silenzio benché gravido di presagi: la Banca d'Italia diramò venerdì la notizia che il nostro debito sovrano aveva toccato la sua punta massima, pari a 1.900 miliardi, un rapporto del 120 per cento rispetto al Pil valutato per quest'anno all'1,1. Se il Pil dovesse ulteriormente scendere come probabilmente avverrà, quel rapporto sarà ancor più elevato.



                                                                * * *



Di buono nel decreto-schifezza c'è una sola cosa e ci sembra doveroso darne atto: l'abolizione d'una trentina di Provincie e dei relativi Prefetti e Questori, più i loro cospicui "indotti". E l'accorpamento dei Comuni piccoli e piccolissimi.



Era un progetto da tempo allo studio, dall'epoca del governo Prodi del '96, ma mai approdato in Parlamento. È stato tirato fuori dal ministro Calderoli col forcipe dell'emergenza. Si tratta d'una riforma vera e strutturale. Bravo Calderoli. A sentirlo ieri nella conferenza stampa con Tremonti e Sacconi, sembrava uno statista al punto da farci dimenticare il ministro che disse d'aver abolito 476mila leggi semplificando lo Stato. Di quella semplificazione nessuno si è accorto, nessun cittadino, nessun contribuente, nessun utente e nessuna istituzione. Il ministro che ieri parlava da statista ha avuto la dabbenaggine di ricordarcelo. Dia retta: non ne parli mai più, consideriamolo un videogame e cerchiamo di scordarci tutti di quella pagliacciata.



Una parola viene qui acconcia a proposito del ministro Sacconi il quale durante la conferenza stampa di ieri ha più volte attaccato il governo Prodi per aver anticipato anziché postergarla l'età dei pensionati. Mancava però il contesto in cui quell'attacco andava collocato. Prodi si era trovato di fronte allo "scalone" di Maroni e l'aveva trasformato in altrettanti scalini per renderlo equamente accettabile.



Egregio ministro, lei appartiene ad un governo di cui c'è solo da vergognarsi. Ma noi, commentatori cattivi, cerchiamo di collocare nel contesto perfino lei. Pensi dove arriva la nostra pietà cristiana e cerchi  -  se può  -  di fare altrettanto.



                                                                 * * *



La manovra-schifezza per anticipare il pareggio del bilancio ha bisogno di almeno 20 miliardi subito e li ha trovati in questo modo: 8 miliardi e mezzo di tagli ai ministeri nel biennio 2011-12; 10 miliardi e mezzo di tagli a enti locali e Regioni; 1 miliardo dalle rendite tassate al 20 per cento, un altro miliardo dal contributo dei redditi oltre i 90mila e i 150mila euro. Il totale fa 21 miliardi, dei quali 19 da ministeri ed enti locali. Questi ultimi significano semplicemente altre tasse locali e/o azzeramento dei servizi.



Non parliamo della macelleria sociale, per altro notevole; parliamo del fatto che, dopo questi 21 miliardi ne restano ancora da reperire 27 per arrivare al totale dell'operazione. Dove andarli a cercare? La risposta c'è: nella delega assistenziale, nello sfoltimento delle detrazioni, nelle pensioni di invalidità, di reversibilità, nei costi della Sanità.



Tutto spremuto e ridotto all'osso si arriva sì e no a 7-8 miliardi. Ne restano altri 20, sui quali c'è il buio assoluto.

Schifezza perché pagano solo i meno abbienti e i soliti noti. Insufficienza perché questa schifezza non basta. E infine non c'è assolutamente niente che finanzi provvedimenti di crescita. Il Tremonti della conferenza stampa rispondendo alla domanda di un giornalista ha detto: "Io sto alle previsioni dell'Istat: il Pil crescerà quest'anno dell'1,1 per cento. Le liberalizzazioni che faremo potranno aumentare questa cifra dello 0,1 nel breve periodo. E poi la crescita non dipende da noi ma dall'America e dall'Europa".



Questa è l'analisi della manovra.



                                                                  * * *



La sorpresa di ieri è il contropiano di Bersani. Fatti salvi i suoi giudizi politici su un governo irresponsabile, sugli errori macroscopici di previsione, sul mancato ascolto di quanto da molti mesi propongono le opposizioni e le parti sociali, giudizi sui quali coincidono quelli dei cattivi commentatori, il contropiano si articola così:



1) prelievo "una tantum" sui capitali illecitamente esportati e poi rientrati in Italia con uno scudo fiscale ottenuto pagando soltanto il 5 per cento dell'ammontare. Negli altri paesi europei che fecero analoghe operazioni il prelievo fu mediamente del 30 per cento. Il Pd propone ora una tassa del 20 per cento che frutterebbe all'erario 15 miliardi.



2) Una lotta all'evasione seguendo lo schema che fruttò, quando Visco era ministro delle Finanze, 30 miliardi in un anno, basati sulla tracciabilità dei pagamenti e sull'elenco dei fornitori.



3) Una descrizione del patrimonio da effettuare ogni anno come allegato alla dichiarazione dei redditi.



4) Un'imposta ordinaria sui cespiti immobiliari ai valori di mercato, con ampie esenzioni sociali e inglobando le imposte comunali relative agli immobili.



5) Dimezzamento dei parlamentari dalla prossima legislatura.



Questi sono solo alcuni dei punti ai quali si affiancano liberalizzazioni negli ordini professionali, della Rc auto, dei mutui e dei conti correnti bancari, dei servizi pubblici locali (acqua esclusa) nonché la separazione della Rete gas dalla Snam.



Il pacchetto poggia interamente sul presupposto che debbano esser messi a contributo i ricchi e gli evasori e non le famiglie, i lavoratori e le imprese che sono già oberati oltre misura.



                                                                 * * *



Sarà interessante assistere al confronto tra queste due filosofie. Berlusconi ha fatto molte aperture all'opposizione. È la prima volta. Se accettasse di ritassare i "patrimoni-scudati" sarebbe una vera bomba.



L'accetterebbe anche Tremonti? E come l'accoglierebbero i mercati?



Maledetti benedetti mercati. Avete svegliato i dormenti, ridato l'udito ai sordi e la vista ai ciechi. Ma purtroppo non possedete la magia di evitare la recessione ed è questa la vera minaccia che grava su tutto l'Occidente e non solo.



Sta calando la domanda globale e il rigore che i mercati pretendono aggraverà quel calo. Della crescita questo governo se ne infischia. A noi sanguina il cuore. A Sacconi no, lui sogna di poter mandare la Camusso in galera e solo allora si addormenterebbe in pace nella convinzione d'aver operato per il bene del paese.  



(14 agosto 2011)




Gli zombi


 


















 



L'EDITORIALE



La polmonite americana e gli zombie italiani



di EUGENIO SCALFARI



LE TEMPESTE non vengono mai sole, ma una ne porta appresso un'altra. Si pensava che nella giornata finanziaria di domani il sole si sarebbe aperto un varco tra le nuvole nere dei giorni scorsi e che i mercati avrebbero respirato. Ma probabilmente non sarà così: l'agenzia di rating Standard & Poor's ha declassato il debito americano. Non era mai avvenuto e gli operatori si aspettano il peggio in tutto il mondo a cominciare dal governo cinese che ha chiesto ad Obama con toni ultimativi di prendere drastiche decisioni per ridurre il disavanzo federale americano.



Non si era mai visto prima d'ora che uno Stato estero desse ordini alla Casa Bianca. Semmai accadeva il contrario. C'è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street. A quell'ora Piazza degli Affari a Milano sarà già da sei ore sull'Ottovolante. Forse ci sarebbe stata in tutti i casi perché la conferenza stampa di venerdì sera a Palazzo Chigi non era stata affatto rassicurante. Se l'America ha il raffreddore  -  si diceva un tempo  -  in Europa abbiamo la polmonite. Ma se la polmonite ce l'ha l'America, che cosa può accadere qui?



                                                                       * * *



In attesa degli eventi e per capire meglio i fatti nostri bisogna rievocarla quella conferenza stampa, i suoi antecedenti e quello che dovrebbe avvenire nel nostro piccolo ma per noi essenziale cortile di casa. Non è un insulto ma una constatazione: sembravano tre zombi quei personaggi appiccicati l'uno all'altro dietro quel tavolo, con l'aria imbambolata di pugili suonati dai pugni che hanno ricevuto.



Berlusconi spiegava alla platea dei giornalisti che l'Italia, cioè lui, erano tornati al centro dell'attenzione mondiale ed enumerava le telefonate ricevute da una parte e dall'altra dell'Atlantico. Cercava le parole per spiegare le decisioni prese, in totale contrasto con quelle comunicate al Parlamento appena 48 ore prima. Ma non le trovava. Si capiva soltanto che per rassicurare i mercati aveva deciso di accelerare d'un anno la manovra. Il pareggio del bilancio previsto per il 2014 sarebbe avvenuto nel 2013. Così, con un colpo di bacchetta magica. I partner europei erano stati informati e anche gli americani e tutti avevano applaudito. I mercati erano un orologio rotto ma stavano producendo un sacco di guai. "Tremonti vi spiegherà i dettagli" così aveva concluso dopo dieci minuti.



Tremonti, poveretto, era più imbarazzato e incespicante di lui. Non sembrava più quel ministro sicuro di sé, sprezzante, arrogante che conosciamo da tempo. Faceva lunghe pause, arruffava le frasi, si correggeva, tradiva continui vuoti di memoria. A un certo punto Letta l'ha interrotto. In realtà non aveva nulla da dire Gianni Letta, ma voleva comunque far sentire la sua voce affinché fosse chiaro che esisteva anche lui. Ma dopo quell'improvvida interruzione Tremonti non trovava più il filo per riprendere il discorso.



Una scena pietosa, conclusa nel modo più involontariamente comico dal presidente del Consiglio il quale, annunciando che il governo non sarebbe andato in vacanza, ha detto: "Palazzo Letta resterà aperto per tutto agosto".



Il giorno dopo è partito per la sua villa di Porto Rotondo. Un week-end rilassante evidentemente si imponeva.





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La verità è che il governo italiano, dopo il nerissimo giovedì con Piazza Affari a meno 5,16 maglia nera delle Borse mondiali e lo "spread" a quota 389, è stato commissariato. In un paese normale il premier e il suo governo si sarebbero dimessi, ma poiché la maggioranza Scilipoti esiste ancora, la soluzione dettata dall'Europa d'intesa con la Casa Bianca è stata il commissariamento.



Abbiamo ora un governo che deve eseguire gli ordini che gli vengono dati da Berlino e da Parigi tramite Barroso da una parte e Trichet dall'altra. Soprattutto quest'ultimo perché la Bce è il solo braccio operativo che l'Europa può usare nel tentativo di raffreddare i mercati.



Del resto è ormai ufficiale che l'atto di commissariamento è stato scritto e inviato al nostro presidente del Consiglio la mattina di venerdì con una lettera di Trichet controfirmata da Draghi che sarà a novembre il suo successore. In quella lettera sono fissate le condizioni: anticipare di un anno il pareggio del bilancio, iniziare da subito gli interventi per tagliare la spesa, avviare con decorrenza immediata interventi di stimolo per la crescita del reddito e dell'economia reale.



Per questa ragione quei tre personaggi dietro quel tavolo la sera di venerdì sembravano burattini mossi da fili tenuti da altre mani; appena due giorni prima avevano esposto con sussiego una politica economica che non si spostava d'un centimetro dal rovinoso immobilismo d'una manovra che aveva rinviato tutto di quattro anni. La maggioranza parlamentare aveva punteggiato di fragorosi applausi il discorso del premier. Il ministro dell'Economia, seduto alla sua sinistra, batteva anche lui le mani, felice della ritrovata armonia con il "boss"; il ministro degli Esteri, seduto alla sua destra, sottolineava gli applausi battendo la mano sul tavolo dei ministri.



Dopo un giorno e mezzo tutto ciò è stato capovolto. "È passato un mese e il mondo è completamente cambiato" ha detto Tremonti venerdì. È vero, è passato un mese, ma lui e tutta la banda mercoledì non se n'erano ancora accorti. Meno male che - non potendo dimissionarli - li hanno almeno commissariati. Ma purtroppo non basterà, polmonite americana a parte.



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Dal balbettio di Berlusconi e di Tremonti si è capito che proporranno nei prossimi giorni alle commissioni competenti di Camera e Senato due disegni di legge di riforma costituzionale da essi ritenuti fondamentali: la modifica dell'articolo 41 e quella dell'articolo 81.



Il primo stabilirà, una volta modificato, che i cittadini sono liberi di assumere ogni tipo di iniziativa salvo quelle vietate dalle leggi. Si tratta di una pura ovvietà ma il veleno sta nella coda: spetta agli interessati autocertificare che non vi sono leggi che vietano le iniziative intraprese. La pubblica amministrazione farà controlli ex post. Dire che si tratta d'un potente incoraggiamento all'illegalità è dir poco.



Quanto all'articolo 81, si tratta di introdurre in Costituzione il pareggio del bilancio come principio inderogabile "salvo specifiche condizioni di emergenza" (terremoti, guerre, eccetera). Non si spiega però se il pareggio riguarda il bilancio preventivo o quello consuntivo o tutti e due. Ma c'è un'altra condizione non ancora detta però ventilata: che la spesa non possa superare il 45 per cento del Pil salvo un voto parlamentare a maggioranza qualificata.



Se passasse una riforma costituzionale del genere il tetto alla spesa che Obama ha a stento superato per evitare il default sarebbe uno scherzo: scomparirebbe ogni politica economica, ogni programma di investimento, ogni politica fiscale di redistribuzione del reddito, ogni politica estera, ogni politica della difesa ed ogni autonomia locale. Il governo sarebbe affidato non al Parlamento ma alla Corte dei conti e alla Ragioneria dello Stato.

Non credo che iniziative del genere troveranno appoggio nell'opposizione e faciliteranno coesione sociale. Comunque ci vorrà un anno prima che l'iter parlamentare sia completato e ancor più se sarà necessario il referendum confermativo. Pensate che i mercati nei prossimi giorni si calmeranno per l'effetto di annuncio di questi due sgorbi di riforma costituzionale?



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Questi sono i preamboli, poi viene la sostanza: un anno di anticipo per realizzare nel 2013 l'obiettivo del pareggio del bilancio, ferma restando la manovra così come fu approvata in tre giorni un mese fa (ma forse bisognava esaminarla meglio invece di guardare soltanto l'orologio).



La manovra ammonta a 48 miliardi così distribuiti: tre miliardi nel 2011, cinque nel 2012, venti e venti nel biennio successivo. Se tutto viene anticipato d'un anno il nuovo calendario dovrebbe prevedere otto miliardi immediati in quest'esercizio, venti e venti nel biennio successivo. È realizzabile questo programma? I tre zombi venerdì non sono entrati nel dettaglio. I poteri esteri che li hanno commissariati neppure, i mercati nulla sanno e i contribuenti meno ancora, ma è evidente che nelle prossime 48 ore questi dettagli dovranno essere forniti.



La logica suggerisce che i tagli per otto miliardi del 2011 e i venti del 2012 debbano essere effettuati con un'unica visione. L'esercizio in corso è agli sgoccioli ma lo sfoltimento delle prestazioni assistenziali è già previsto nella manovra. Si tratta di renderlo operativo con l'immediata approvazione della legge delega su quei trattamenti.



Nel totale ammontano a 160 miliardi. La macelleria sociale accennata da Tremonti prevede riduzioni discrezionali del 5 per cento il primo anno e il 10 nel secondo con speciale attenzione alle pensioni di invalidità, agli accompagnamenti degli invalidi e alla reversibilità pensionistica. Il 15 per cento di 160 miliardi fa 24 miliardi. Più i ticket già operativi e le accise già in corso. Su quali ceti si scarica questo peso?



In tempi di buriana una dose di macelleria sociale è inevitabile purché sia affiancata dall'equità. È evidente che se tutto il peso è concentrato sul capitolo dell'assistenza, l'equità scompare. Dunque colpire solo l'assistenza è impensabile. Altrettanto impensabili sono le baggianate alternative di Di Pietro che pensa all'abolizione delle Province come un toccasana. Quanto a Casini, ha detto che se le proposte sono efficaci le voterà. Nei prossimi tre giorni ne conoscerà anche lui i dettagli e vedremo la sua risposta.



Ma la vera domanda è questa: si arriverà al pareggio del bilancio entro il 2013? Bisognerà affrontare la seconda "tranche" della manovra, cioè gli altri 24 miliardi. Si può mettere in esecuzione la prima tranche senza nulla sapere della seconda, basata interamente sulla riforma fiscale?



Lo chiederanno le opposizioni, le parti sociali, le Regioni e i Comuni. Ma lo chiederanno soprattutto i mercati e finché non lo sapranno è difficile sperare che si fermeranno. Sempre polmonite americana a parte.



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Torniamo ancora un poco alla polmonite americana. Riguarda la diminuzione del debito federale? Riguarda il tasso di cambio del dollaro? Riguarda gli spintoni della Cina?



Soltanto in parte. Vorrei dire in piccola parte. La polmonite americana proviene dai segnali di recessione, dalla caduta della domanda. Ma quella caduta sta avvenendo nel mondo intero e in Italia più che mai.



Per questo i mercati si sentono insicuri e picchiano sui debiti sovrani. Ma se al necessario rigore non si affianca la crescita, la polmonite non guarisce, diventa acuta, purulenta e alla fine attacca il cuore.



Infatti i nostri "lord protettori" hanno chiesto rigore e crescita. Ma la crescita ha bisogno di risorse. Si cresce alimentando il potere d'acquisto, stimolando la domanda, rilanciando i consumi, finanziando investimenti. Si cresce abbassando l'Irpef dei redditi medio-bassi e l'Irap sulle imprese. Si cresce spostando il peso dalle spalle dei meno abbienti a quelle più forti. Si cresce abbattendo l'evasione, generalizzando lo scarico dell'Iva in tutti i passaggi. L'articolo 41 della Costituzione non è la madre delle liberalizzazioni ma soltanto un aborto propagandistico.



Si cresce tassando il patrimonio non con un "una tantum" ma con un sistema fiscale adeguato.

Non illudetevi che sia sufficiente l'intervento della Bce a sostegno dei titoli italiani (e spagnoli). Soltanto un altro zombi come Bossi può pensarlo.



La Bce è intervenuta nei mesi scorsi e ancora l'altro ieri acquistando titoli greci, irlandesi e portoghesi, per 74 miliardi. Equivale all'incirca al 20 per cento di quei debiti. Se dovesse applicare quella stessa percentuale per l'Italia dovrebbe acquistare titoli per 400 miliardi e arriverebbe a 700 con la Spagna. È impossibile. Equivarrebbe a europeizzare un quinto dei debiti sovrani d'Italia e di Spagna. E gli altri paesi resterebbero a guardare?

Bisogna battere la recessione e rilanciare la crescita. Il resto sono chiacchiere e non bloccano i mercati.



(7 agosto 2011)



 



 





 



 



 


domenica 14 agosto 2011

L'infame manovra










STUPIDARIO



Quando dicevano: la crisi non c'è



di Alessandro Capriccioli



'Il peggio è passato, i problemi sono alle spalle, anzi siamo già in ripresa, non credete ai giornali pessimisti". Per due anni Berlusconi e Tremonti hanno ripetuto ovunque questa litania: leggere per credere. Chissà se ora si vergognano un po'.

(13 luglio 2011)



«E' dannoso per l'interesse di tutti noi che ci siano dei media che continuino a rappresentare la crisi come qualcosa di definitivo e di tragico». (Silvio Berlusconi, 5 marzo 2009)



«Sicuramente è finita la paura dell'apocalisse. E' rallentata la caduta, dall'autunno in poi, del traffico e del commercio che è la nostra ricchezza. Guardiamo al futuro con qualche speranza». (Giulio Tremonti, 19 aprile 2009)



«Il rischio di un crollo, del peggio, è abbastanza alle nostre spalle. Su questo abbiamo una visione comune con gli imprenditori.» (Giulio Tremonti, 29 aprile 2009)



«Il momento peggiore è passato e d'ora in poi ci saranno miglioramenti. C'è stato un diluvio universale, ma ora siamo qui e stiamo meglio di prima. Il governo ha fatto bene a diffondere fiducia. Non abbiamo peccato di ottimismo perché questa crisi, è stato dimostrato, ha grande origine nel fattore psicologico». (Silvio Berlusconi, 17 maggio 2009)



«La caduta sta finendo e l'Italia è messa meglio di altri. Una volta l'Italia faceva notizia perché erano dati negativi ma oggi la notizia è che l'Italia non fa più notizia, anzi alcune cose le iniziano a riconoscere». (
Giulio Tremonti, 4 giugno 2009)



«Ciò che doveva accadere per banche e mercati è già accaduto. Chi doveva fallire ha fallito e tutti quelli che facevano speculazione non ci sono più. Oggi non ci sembra che ci siano altre situazioni che dobbiamo temere». (Silvio Berlusconi, 4 luglio 2009)



«Siamo in un momento difficile per la crisi del mondo: io sostengo che il peggio è passato». (
Silvio Berlusconi, 6 luglio 2009)



«Il peggio è passato, siamo in fase di conclusione». (Silvio Berlusconi, 8 settembre 2009)



«La crisi sta passando». (
Giulio Tremonti, 28 settembre 2009)



«Il peggio della crisi sembra che sia alle nostre spalle e che sia iniziata, sia pure lentamente, la ripresa». (Silvio Berlusconi, 29 ottobre 2009)



«Il peggio è ormai alle spalle. Non possiamo lamentarci. Non va malissimo. Ci sono forti segnali di ripresa, basta vedere i dati dell'Ocse. Stiamo procedendo bene nonostante il momento non sia certamente uno dei migliori». (Silvio Berlusconi, 7 novembre 2009)



«Riteniamo che il peggio sia passato e che ci sia la ripresa». (Silvio Berlusconi, 5 dicembre 2009)



«In Europa ci sono Paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l'Irlanda che sono in situazioni abbastanza preoccupanti, mentre noi ce la stiamo cavando meglio di tutti gli altri». (Silvio Berlusconi, 6 febbraio 2010)



«Dopo essere usciti da una forte crisi, stiamo iniziando la risalita, non è veloce, non ha forti numeri ma è certamente risalita». (Silvio Berlusconi, 11 marzo 2010)



«Grazie alla limitata esposizione alla bufera sui mercati finanziari internazionali e al collasso del settore immobiliare, gli effetti peggiori della crisi sono stati solo temporanei in Italia». (
Giulio Tremonti, 25 aprile 2010)



«L'Italia sta meglio di altri Paesi ed è vaccinata da eventuali contagi». (Giulio Tremonti, 6 maggio 2010)



«La crisi è alle spalle. E noi ne stiamo uscendo meglio di altri paesi europei». (Silvio Berlusconi, 29 giugno 2010)



«La crisi si sta concludendo, ci sono segnali di ripresa. Il peggio è passato, siamo in fase di conclusione della crisi. Lo hanno detto Obama, Bernanke, il Fondo monetario, la commissione europea: ci sono segnali, germogli di ripresa, ora bisogna mettere da parte coloro che inneggiano al catastrofismo». (Silvio Berlusconi, 8 settembre 2010)



«L'Italia aveva bisogno di rigore e credibilità. Lo abbiamo fatto tenendo in ordine i conti pubblici e nello stesso tempo salvaguardando i redditi delle famiglie e dei lavoratori colpiti dalla crisi. E' stata la scelta giusta. Ha consentito di superare la crisi e di non farci trovare nelle condizioni in cui si sono trovati altri Paesi europei alle prese con deficit pubblici giudicati non sostenibili dai mercati finanziari e quindi esposti ad attacchi speculativi». (
Silvio Berlusconi, 29 settembre 2010)



«Abbiamo realizzato una vera e propria missione impossibile: abbiamo affrontato la crisi senza mettere mai, dico mai, le mani nelle tasche degli italiani». (Silvio Berlusconi, 10 maggio 2011)









 



 


CRISI: L'ECONOMIA ILLEGALE AFFAMA L'ITALIA


di Nunzia Penelope -



Il Governo ha attuato una gestione surreale della crisi e ha ormai perso ogni credibilità. La patrimoniale e la tassazione sulle rendite sarebbero misure apprezzabili, ma il problema principale del nostro Paese è l'evasione, che ruba ogni anno 120 miliardi di euro







Trattative febbrili tra Governo e parti sociali per definire un pacchetto di misure necessarie a fronteggiare la crisi. Incontri riservati, iniziati a seguito dell'attacco speculativo che nei giorni scorsi ha colpito i mercati finanziari, e delle richieste giunte all'Italia dai partner europei e dalla Bce.



La cattiva gestione della crisi non rischia di delegittimare l'operato dell'esecutivo non solo in Italia ma anche all'estero?



"Il governo credo che abbia perso da tempo il rapporto con la realtà, ammesso che l'abbia mai avuto. La gestione della crisi è abbastanza surreale perché rispetto anche agli ultimi due anni in cui appunto Berlusconi ha detto che l'economia andava molto bene, che non c'era nessun problema, c'è stato un cambiamento repentino, non di poche ore ma di pochi minuti, nel senso che il giorno prima il premier in Parlamento diceva "tutto bene" e il giorno dopo si è ritrovato commissariato dalla Bce e da Draghi, credo che sia rassicurante alla fine l'idea che ci sia qualcun altro più serio che ci sta governando."



Tra le misure ci sono interventi sulle pensioni. Non si rischia di scaricare sui più deboli il costo della crisi?



"Sulla carta sarebbe un colpo al cerchio e uno alla botte, perché indubbiamente se metti la patrimoniale e la tassazione delle rendite, normalmente non fai pagare i più deboli, fai pagare i più ricchi, tant'è vero che la patrimoniale è una delle proposte che la C.G.I.L. sta facendo da molto tempo, sostenuta adesso anche dalla Lega. Il problema è che credo ci siano dei veti contrapposti per cui alla fine uno dice: la patrimoniale sì, le pensioni no, l'altro dice le pensioni sì, la patrimoniale no, non so, vedremo come va a finire, però direi che la patrimoniale e la tassazione delle rendite sia una cosa sana e giusta"



Non sarebbe più utile colpire l'economia illegale?



"I redditi da lavoro dipendente vengono sicuramente toccati sempre, perché com'è noto il lavoro dipendente è l'unico che paga le tasse sempre. Non vorrei ripetermi perché è una cosa che invece ripeto spesso, ma il problema principale in questo Paese è che abbiamo 120 miliardi di evasione fiscale l'anno e io non mi stancherò mai di dire che forse prima di mettere le mani nelle famose tasche degli italiani, si potrebbero mettere in quelle dei ladri, ovvero degli evasori. Però mi stupisce che in tutte le misure che il governo annuncia di voler prendere o che prende, non ci sia mai nulla di veramente incisivo contro l'evasione fiscale e non intendo le solite chiacchiere. Penso che in questo Paese bisognerebbe cominciare a fare delle leggi speciali contro l'evasione fiscale perché è quello il problema maggiore. Se non ci fossero 120 miliardi di evasione ogni anno, noi non avremmo tutti questi problemi economici, quindi penso che quella dovrebbe essere la prima cosa da fare."



I politici chiedono ai cittadini di fare sacrifici, ma forse è il caso che inizino a farne...



"Sarò molto impopolare in questo. Io penso che i tagli ai costi della politica siano sicuramente una cosa da fare perché la politica ha raggiunto livelli di sprechi molto evidenti e fastidiosi, però vorrei anche ricordare che i costi della politica quantificati ufficialmente da "Il Sole 24 Ore" poche settimane fa, ammontano a 23 miliardi l'anno tutto compreso, dalla gestione del Quirinale all'ultimo assessorato di provincia, all'ultimo Consiglio di Amministrazione di società pubbliche. I costi dell'illegalità sono 15 volte di più, quindi io non vorrei che parlare esclusivamente dei costi della politica, fosse un modo per distogliere l'attenzione da quelli che poi sono i veri furti che avvengono in questo paese e che sono quelli di un sistema economico abbondantemente illegale. Quindi sono in controtendenza perché tutti dicono "tagliamo le auto blu", oppure "tagliamo le province". Ma si risparmiano 100 milioni tagliando le province, combattendo l'evasione fiscale si risparmiano 120 miliardi. Però non sento nessuno dire "combattiamo l'evasione fiscale", forse è un dato ormai acquisito, forse ci siamo ormai rassegnati, non so..."

(10 Agosto 2011)



 






 





 



 






C'È UNA NUOVA SUPERPOTENZA



di Marco d'Eramo





È nata una nuova superpotenza. Non è la Cina. Non è neanche uno stato sovrano. Non ha eserciti, eppure ci ha appena dimostrato che è capace di piegare anche la nazione che possiede il più devastante arsenale nucleare. Questa nuova superpotenza è un'agenzia di rating, cioè una ditta privata che valuta il livello di rischio rappresentato dall'investire in un'azione, in una valuta, in un'obbligazione. Più basso il voto (il rating), più alto il rischio e quindi più alta deve essere la remunerazione (il rendimento dei Btp per esempio).

Sapevamo già che il posto di lavoro di un insegnante greco, la pensione di un'infermiera spagnola o il ticket sanitario degli italiani dipendeva dai giudizi di queste agenzie, Moody's o Standard & Poor's (S&P's). Ma dubitavamo che potessero soggiogare anche gli orgogliosi Stati uniti, anche la «nuova Roma». E invece ci sbagliavamo.



Quando venerdì sera S&P's ha declassato il debito statunitense dalla tripla A (AAA) a AA+, un'era si è conclusa. Fino a pochissimi anni fa le agenzie di rating erano considerate, a ragione, il braccio armato del Tesoro statunitense nell'arena dell'economia mondiale. Come tali agirono per esempio durante la crisi messicana (1994), prima e durante quella asiatica (1997). Più di recente assecondarono la politica Usa di lasciare briglia sciolta alla bolla immobiliare Usa, dando voti altissimi non solo ai pacchetti finanziari in cui erano confezionati i mutui subprime, ma anche alla banca Lehman Brothers fino a poco prima che fallisse clamorosamente nel settembre 2008, innescando così la grande crisi.

Ma proprio la crisi del 2008 ha liberato le agenzie di rating dalla propria servitù nei confronti del governo Usa, perché ha dimostrato che se rischiano la bancarotta, possono sempre ricorrere ai prestiti federali, possono cioè sempre attingere gratis al denaro dei contribuenti, senza che lo stato sia in grado di chiedere in cambio nulla, neanche che le attività speculative siano regolate almeno un po'. La crisi ha cioè dimostrato che le grandi istituzioni finanziarie sono più forti di Washington; ha esposto alla luce del sole la debolezza della sfera politica nei confronti del capitale. E ora le agenzie di rating dettano legge all'intero mondo occidentale.

Perché le agenzie danno i voti al capitalismo di cui sono parte, e che dovrebbero giudicare in modo «imparziale». Moody's e S&P's sono proprietà di grandi fondi d'investimento: il primo azionista di Moody's, con il 17% delle azioni, è il fondo Berkshire Hathaway con sede a Omaha, di proprietà di Warren Buffett, uomo simbolo e patriarca del capitalismo americano (Berkshire è tra l'altro primo azionista dell'American Express, con il 12,4 % delle azioni, e della Washington Post Company con 25,6%). Il secondo azionista di riferimento di Moody's è il fondo Capital World Investors di Los Angeles fondato dalla famiglia Lovelace, con il 12% delle azioni. Interessante è che Capital World Investors è il maggiore azionista, con il 12% (di partecipazione diretta, senza contare quelle incrociate) nella compagnia Mc Graw Hill che controlla Standard & Poor's: cioè ha i piedi in ambedue le agenzie, in due staffe. Sia Berkshire Hathaway, sia Capital World Investors speculano massicciamente sulle valute che sono sottoposte al rating da parte delle agenzie che loro controllano; è poco giudicarlo un «conflitto d'interessi».

E qui veniamo al versante propriamente politico: quando parliamo di agenzie di rating, sembra sempre che queste agenzie operino da un altrove, numi vigilanti da un altro pianeta. Nel caso del downgrading del debito americano invece, sono i massimi esponenti del capitalismo Usa che danno un voto agli Stati uniti. Con questo gesto squisitamente politico, S&P's e Moody's sono entrate pesantemente nella campagna presidenziale che si concluderà nel novembre prossimo. La motivazione con cui S&P's ha giustificato la sua decisione sembra scritta da un repubblicano del Tea Party. Dopo essere stati salvati dai generosi (gratuiti) sussidi garantiti dalla presidenza Obama, i massimi esponenti del capitalismo Usa, i Buffett e i Lovelace, si sono così schierati contro Obama e con i repubblicani. Anzi, hanno dato un ceffone a Obama proprio il giorno dopo il suo compleanno. Con le dovute forme (hanno atteso che le borse fossero chiuse per il weekend per dare tempo al panico di riassorbirsi), ma pur sempre una sberla.

Ma vi è una dimensione più generale nell'inedito protagonismo delle agenzie di rating. Di mira sono prese insieme le due rive dell'Atlantico. Di mira è preso il capitalismo «all'occidentale», in particolare quel che resta del welfare europeo e rooseveltiano. È come se qualcuno avesse deciso che era ora di dare una spallata finale ai superstiti frammenti di stato sociale, di liquidare le residue proprietà pubbliche. Insomma di buttare nel cesso il compromesso tra capitale e lavoro firmato nel XX secolo. Come se i Buffett e i Lovelace avessero definitivamente abbracciato il «capitalismo alla cinese». I moniti di Pechino sul rientro Usa dal debito rispecchiano infatti quelli di S&P's (e del Tea Party), ma sono di maniera, per non dire insinceri: se gli Stati uniti prendessero davvero misure concrete per ridurre l'indebitamento, le esportazioni cinesi negli Usa crollerebbero all'istante innescando una crisi di sovrapproduzione e lo scoppio di una bolla immobiliare al cui confronto quella cui abbiamo assistito era una bollicina di sapone.



PS. Valentino Parlato mi chiede perché, se le cose stanno così, le agenzie di rating continuano ancora a godere prestigio, nonostante tutte le madornali cantonate che hanno preso. Non ho risposte certe, ma il punto è che non ci sono alternative credibili (l'agenzia di rating cinese Dagong non trova clienti, mentre invece la Fitch Rating, nata da capitale francese, ha sì credito, ma solo perché è divenuta anglosassone). E le alternative non sono credibili a causa di quel che il movimento femminista ha chiamato il «luogo di enunciazione»: se i ratings emanano dal centro del potere capitalistico mondiale, essi sono ammantati dall'autorità del potere che li enuncia. Percepiremo la crisi del capitalismo anglosassone dal discredito delle sue agenzie di rating, non viceversa.

(7 agosto 2011)




 



 
















INTERVISTA



di Valentino Parlato



GIORGIO RUFFOLO «Il momento è grave, ma la manovra è peggio»

I punti critici? Mancanza di credibilità del governo e misure recessive





Giorgio Ruffolo ha scritto un libro dal titolo un po' provocatorio, Il capitalismo ha i secoli contati, e presiede il Centro Europa ricerche (Cer).



Di fronte a questa crisi che dici?



Dico che la conta si è accelerata. Continuo a non parlare di crollo, ma è certo che la crisi, la più grave dagli anni trenta del secolo scorso, segna un momento di profonda trasformazione.

Ma qualcosa è cambiato nel nostro capitalismo?



A tre quarti del secolo scorso c'è stata una vera e propria mutazione. Siamo passati dal capitalismo manageriale al capitalismo finanziario. Il primo aveva accettato di subordinare le prospettive di profitto a una politica dei redditi che sanciva un compromesso storico tra democrazia e capitalismo, con il passaggio dalla massimizzazione alla normalizzazione del profitto. Oggi siamo tornati a un regime di esasperata massimizzazione del profitto e nel più breve periodo, con la conseguenza di una mostruosa esplosione delle diseguaglianze. Le conseguenze devastanti di quelle diseguaglianze sulla compressione della domanda sono state evitate ricorrendo massicciamente all'indebitamento, come dire ai posteri. Con la conseguenza di uno sfrenato aumento della liquidità, Alla vigilia della crisi, nel 2007, la liquidità mondiale aveva raggiunto un livello dodici volte superiore al prodotto reale mondiale, di qui la crisi che ha coronato la controffensiva capitalistica. La controffensiva capitalistica è iniziata negli anni '70 con il distacco del dollaro dall'oro ed è esplosa negli anni '80 con la liberalizzazione del movimento mondiale dei capitali, liquidando gli accordi di Bretton Woods, che garantivano, con le limitazioni al movimento dei capitali, le politiche macroeconomiche dei governi. Con la controrivoluzione tatcheriana e reaganiana sono stati ribaltati sia i rapporti di forza tra capitalismo e stati nazionali, sia quelli tra capitale e lavoro. E' finita quella che un grande storico marxista come Hobsbawn aveva definito l'età dell'oro.



Ma c'è qualche differenza tra questa crisi e quella del '29?



Certamente. A fronteggiare quella crisi ci fu l'intervento pubblico: il new deal rooseveltiano e a destra la crescita dello stato in Germania e in Italia, pensa solo all'Iri e alla nazionalizzazione delle banche. Non dimentichiamo il catastrofico ma risolutivo peso della seconda guerra mondiale. Oggi la situazione è molto diversa: dappertutto cresce il debito pubblico. Il peso di un gigantesco salvataggio è stato tutto posto sugli Stati, senza toccare minimamente i redditi e il potere della nuova plutocrazia finanziaria. E al danno si aggiunge anche la beffa: banchieri e finanzieri rimproverano duramente gli stati per un indebitamento che è in gran parte dovuto al loro salvataggio. Non solo: come ci avverte De Cecco, ci sono banche che si sono messe a speculare sul default dello Stato.



In questa crisi generale c'è uno specifico italiano?



Sì, l'incertezza e il teatrale e repentino cambio di marcia sulla manovra, messo in scena dal presidente del Consiglio e dal ministro dell'Economia, tradisce l'incertezza esistenziale di questo governo, ma non altera l'impostazione della manovra. Il suo punto critico non stava nell'entità e nei tempi (secondo i calcoli del Cer, 105 e non 80 miliardi di euro come si è detto, e non tutti concentrati alla fine, ma equamente distribuiti negli anni) e non si risolve con anticipazioni. I suoi punti critici stanno anzitutto nella credibilità di un governo, il cui presidente ha negato per anni la crisi, minimizzandone poi l'importanza fino all'altroieri e, soprattutto nell'impostazione iniqua e recessiva della manovra. Il fatto grave è appunto che la manovra è recessiva, non stimola ma frena la crescita. E ciò essenzialmente per effetto delle restrizioni fiscali, che costituiscono poco meno dei due terzi delle correzioni previste. Una grande manovra avrebbe richiesto (vedi la proposta di Giuliano Amato) un'imposta patrimoniale straordinaria accompagnata dal vincolo immediato del pareggio di bilancio e dalla utilizzazione del prelievo in un forte programma di investimenti e ricerca. Questo dovrebbe proporre la sinistra, che trema al solo pensarci.



Ma in tutto questo non c'è anche una crisi della politica e della cultura?



Quel che oggi rimane della sinistra appare piuttosto inquinato da una cattiva imitazione dai «valori» e dalle pratiche del mercato. Nessuna traccia di un progetto umano ideale alla Marx. Nessuna traccia di un riformismo pratico alla Keynes che fissi le regole di un'economia ecologicamente, socialmente e moralmente giusta.



A tanti anni di distanza che dici della caduta del Muro di Berlino?



Fatte tutte le considerazioni del caso mi verrebbe da dire che il socialismo reale (cosiddetto) che c'era prima era un disastro e che un altro disastro lo ha sostituito. Finito il socialismo reale c'è stato lo scatenamento, in economia, delle pulsioni speculative. Non c'era più il nemico e si poteva fare di tutto. E quel che è stato fatto ci ha portato alla condizione attuale.



Hobsbawm, che tu hai citato, dice che bisogna tornare a Marx. Condividi?



Non certo al suo programma, fallimentare, ma alla sua ispirazione ideale e al suo metodo di analisi storica certamente sì. Magari ci fosse. E magari ci fosse un Keynes che traducesse quella ispirazione in buon riformismo liberale e socialdemocratico. Io voterei per loro.



Giorgio Ruffolo è presidente del Centro Europa ricerche, che realizza studi e analisi di economia applicata e fornisce ad autorità nazionali e internazionali valutazioni e commenti su prospettive economiche e tendenze della finanza pubblica. Il Cer svolge inoltre attività di ricerca, formazione e consulenza per istituzioni e amministrazioni pubbliche, aziende bancarie e assicurative, industrie, associazioni di categoria.

(7 agosto 2011)




 



La democrazia, che si afferma in America latina e tramonta in Occidente

di Gianni Minà



Adesso voglio vedere se fra i corifei del capitalismo a qualunque costo - umano, sociale, etico - ci sarà qualcuno che avrà l’onestà di dire che questa idea di società è miseramente fallita così com’era successo nell’89 al comunismo, e che quello che sta succedendo negli Stati uniti a banche e assicurazioni, che stanno trascinando nel baratro pensioni e risparmi di milioni di cittadini, è per l’Occidente, uno sconquasso della stessa drammatica intensità della caduta del muro di Berlino per il mondo che si ispirava ai principi del marxismo.



Perché questa fragilità, questa corrotta ambiguità dell’economia di mercato era palese da tempo, eppure molti degli ultras del liberismo si ostinavano a sottolineare la “fine delle ideologie”. Ma se scavavi tra le pieghe del discorso, scoprivi che in realtà l’unica ideologia che questi ultrà reputavano morta e da seppellire era quella comunista. E anche quando erano costretti ad ammettere che in nome del libero mercato erano stati compiuti crudeli genocidi [come in Africa o in America latina] con aria falsamente ingenua erano pronti a chiederti: “Ma cosa mi offri in cambio? Non esiste un’alternativa”.



E quindi si poteva mentire al mondo per fare le guerre, vendere armamenti, saccheggiare risorse, o si poteva condannare alla fame e alla miseria interi continenti, magari per difendere solo i privilegi e le sovvenzioni ai contadini di Stati uniti, Francia o Italia, o ancora si poteva continuare a rapinare le ricchezze dell’umanità meno attrezzata, meno pronta ad affrontare le sfide capziose del mercato.



Perché annientare l’80% dell’umanità per le logiche dell’economia capitalista era ed è evidentemente più accettabile, più democratico, meno scandaloso che morire in un gulag o non avere abbigliamento firmato o McDonald’s. Così come non è inquietante se a controllare l’informazione, a ideologizzare e indirizzare la tua vita non sono ottusi burocrati di partito, ma la concentrazione dei mezzi nelle mani di pochissimi, che hanno il controllo di apparecchiature degne del Grande fratello di Orwell.



Ci avevano detto, e quasi stavamo per crederci, che il capitalismo era l’unica salvezza dell’umanità, un sistema che aveva una soluzione per tutto, perché comandava l’infallibile mercato e la ricetta si era rivelata indiscutibile: quando l’economia non funzionava, bastava privatizzare e tutto si sarebbe risolto.



Così quando il governo di Washington dell’ineffabile Bush e del suo vice, l’affarista Cheney, ha deciso, fregandosene dell’ideologia liberista fino a ieri Vangelo, di salvare, nazionalizzandoli, i due colossi dei mutui Fannie Mae e Freddy Mac [l’8 settembre] e pochi giorni dopo [il 17 settembre], con un intervento della Banca centrale ha tolto dal gorgo dal fallimento l’AIG [American International Group], il gigante delle assicurazioni, è stato chiaro che tutta la retorica del “più mercato - meno stato” era una burla, un’escamotage dei mercati finanziari per privatizzare, quando c’erano, i guadagni e socializzare le perdite.

Una presa per i fondelli colossale, senza il minimo pudore, se uno come Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia di un governo come quello di Silvio Berlusconi, che le regole non le ha mai rispettate, si è subito adeguato come un burocrate sovietico: “Dalla crisi si esce con più intervento pubblico. Se il male è stato l’assenza di regole, la cura può essere solo nella costruzione di regole”. Neanche un ministro democristiano dell’epoca della Cassa del Mezzogiorno avrebbe potuto cambiare abito così in fretta.



Ma lo stesso atteggiamento hanno tenuto i più prestigiosi giornali europei: la Repubblica, quotidiano italiano un tempo di sinistra, titolava il 20 settembre in prima pagina, con assoluta disinvoltura: “Terapia Bush, Borse in festa”. Di fatto presentando in positivo quello che fino a ieri, nel capitalismo, era considerata un’eresia: l’intervento in extremis dello stato nel mercato, ovvero l’ultima, disperata mossa politica di quello che molti cittadini nordamericani giudicano da tempo come il peggior presidente che il paese abbia avuto nell’ultimo secolo. La decisione del governo Bush scarica sui contribuenti americani, come fa rilevare sempre su la Repubblica, Federico Rampini, un onere oggi incalcolabile e potenzialmente illimitato, pur di frenare la catena di crac delle maggiori istituzioni finanziarie e le conseguenti pericolose ondate di panico.



Ma questa analisi onesta e realistica non ha suggerito un titolo meno trionfalistico per il piano da mille miliardi di dollari [in proporzione più del piano Marshall varato nel 1947 dal presidente Truman per aiutare l’Europa a rialzarsi] messo in marcia dal ministro del Tesoro Usa. D’altronde, il mondo della finanza neoliberista ha sempre preferito illudere, nascondere e mascherare, sperando follemente che nulla alla fine cambiasse.

Pochi anni fa, la benemerita Fondazione Ambrosetti che organizza le giornate di Cernobbio, sul lago di Como, dove si incontra ogni anno la creme de la creme dell’economia liberale [o presunta tale], mi contattò perché sentiva l’esigenza di far ascoltare, per una volta, una voce dissonante a una compagnia di giro dove i primi attori erano quasi sempre Shimon Peres, Henry Kissinger o perfino l’ex premier spagnolo Aznar, nemico giurato di tutte le ricette sociali antiliberiste.



Avrebbero voluto invitare il presidente cubano Fidel Castro: “Non condividiamo la sua linea intransigente - mi dissero - ma forse è arrivato il momento di confrontarsi con le ragioni di chi, prima di papa Wojtyla, affermò, fin dalla metà degli anni 80, che il debito estero di molte nazioni del Sud del mondo era immorale e impagabile”. Una scelta fuori dal pregiudizio. Li misi in contatto con l’ambasciatore cubano in Italia, anche se ero scettico sulla possibilità che quell’idea sarebbe stata accettata dagli abituali frequentatori del meeting di Cernobbio.



Il presidente cubano non aveva spazio nella sua agenda per aderire a quell’invito e allora io consigliai ai dirigenti della Fondazione Ambrosetti di chiedere aiuto a Eduardo Galeano, coscienza critica dell’America latina e di quello che chiamano il Terzo mondo, che proprio in quei giorni usciva anche in Italia con un libro emblematico, “A testa in giù. La scuola del mondo alla rovescia”. Eduardo accettò l’invito e inviò in anticipo il testo del suo intervento, basato su alcune delle brevi e paradossali composizioni, spesso intrise di ironia, che si susseguono nei suoi saggi e sono tipiche del suo modo di raccontare la storia e il mondo. Concedette anche un’anteprima al giornale la Stampa di Torino, che uscì la mattina in cui Galeano avrebbe dovuto intervenire.



Avrebbe. Perché, con un certo imbarazzo quelli della Fondazione avvisarono la sera prima lo scrittore de “Le vene aperte dell’America latina” e ora di “Specchi, una storia quasi universale” che, per l’obbligatorio inserimento nel programma di un ospite politico fino a quel momento in forse, non ci sarebbe stato più spazio per il suo intervento.

Galeano la prese con un sorriso disincantato: “Quelli dell’economia neoliberale considerano le loro convinzioni un dogma che non può essere discusso. Per questo li hanno definiti ‘i paladini del pensiero unico’. Ma non si illudano, sarà la storia a smentirli”.

Così a quanto pare è stato, anche se finora è mancato il coraggio di dire, chiaro e tondo, che nel mese di settembre del 2008 è crollato anche il muro del capitalismo.

D’altronde non poteva che finire così. Il neoliberismo si regge in piedi continuando ad ammucchiare bugie, con i giornalisti, incapaci, la maggior parte delle volte, di tenere la schiena dritta, e invece tesi pateticamente a sostenere argomenti che non stanno in piedi e a scrivere parole in libertà per giustificare l’ingiustificabile.



È sufficiente dare uno sguardo alla Direttiva del Rientro, approvata lo scorso 18 giugno dal Parlamento Europeo, per capire quanto sia in decomposizione la democrazia in un’Europa pavida e impaurita, mentre in altri continenti, come l’America latina, fino a ieri carente di diritti per tutti, spira un’aria nuova, dove il riscatto di nazioni indigene come Bolivia ed Ecuador, comincia proprio da una riscrittura rigorosa e seria di una Costituzione che rispetti tutti. Non solo, come avveniva fino a pochi anni fa, le oligarchie bianche e predatrici.

Proprio Galeano, nella cerimonia in cui, in Paraguay, il giorno dell’assunzione del’incarico di presidente da parte di Fernando Lugo, è stato dichiarato Cittadino Illustre del Mercosur, non ha evitato il sarcasmo riguardo all’ipocrisia delle nazioni del Vecchio continente: “L’Europa ha approvato da poco la legge che trasforma gli immigrati in criminali. Paradosso dei paradossi,” ha aggiunto. “L’Europa, che per secoli ha invaso il mondo, sbatte la porta sul naso degli invasi una volta che questi ricambiano la visita”.

Per capire quanto è grande questa crisi di credibilità dell’Occidente, è sufficiente considerare come, negli ultimi tempi, dai media di casa nostra è stato raccontato il braccio di ferro che il giovane presidente dell Bolivia, Evo Morales, ha intrapreso contro i prefetti secessionisti delle ricche province orientali del suo paese, per ora bloccati, senza mortificare la democrazia, nelle loro strategie eversive sostenute, oltre che dalla Cia e dalla peggiore diplomazia nordamericana, dagli eredi dei vecchi ustascià croati, riparati, dopo la seconda guerra mondiale, nella Bolivia delle dittature militari e delle centinaia di colpi di stato.

Con questi figuri ci sarebbero perfino vecchi attrezzi del neofascismo golpista italiano come Marco Marino Diodato, che nella notte tra l’ 11 e il 12 settembre, avrebbe organizzato gli squadroni della morte legati ai gruppi civici che si battono, con la scusa dell’autonomia regionale, contro l’idea di nazione e di democrazia di Evo Morales. Nel massacro di El Porvenir [nella provincia di Pando] sono stati uccisi quindici contadini che si recavano ad una manifestazione di appoggio al presidente.



Con chi dovrebbe stare la stampa democratica dell’Occidente? Sarebbe facile rispondere con il giovane presidente boliviano. E invece, per non dispiacere alle spericolate politiche dell’amministrazione Bush in America latina come in altre parti del mondo, i media non sanno nascondere una certa condiscendenza per la secessione, per il tentativo di destabilizzazione che l’ex ambasciatore Usa Goldberg, ora rispedito a Washington, ha perseguito, finora senza risultati concreti, in questi mesi intensi e sofferti del paese in cui si immolò Che Guevara. E così hanno parlato di “paese diviso in due”, di “pareggio”, di “stallo”, pubblicando cartine geografiche sul consenso politico del presidente nel paese, chiaramente fuori dalla realtà, come dimostra l’annuncio di avvio di un dialogo da parte dei prefetti secessionisti ribelli,



La linea da tenere sull’argomento, come su tutta la febbre di riscatto che cresce in America latina, sempre più lontana dall’essere il “cortile di casa” degli Stati uniti, la dà El País, il potentissimo quotidiano spagnolo che ha ramificazioni e interessi in tutto il Cono sud. E lo fa quasi sempre con le parole astiose di Mario Vargas Llosa, uno scrittore straordinario che però, come tanti, non si dà ancora pace di essere stato in gioventù un militante comunista, e quindi non apprezza il vento di cambiamento che soffia nel continente.

Dario Fertilio, che lo ha intervistato sul Corriere della Sera, e Angelo Panebianco che gli ha dedicato la sua rubrica sul magazine dello stesso giornale, si dolgono così del fatto che, al contrario di quanto succede con gli scritti politici di García Marquez, di Luis Sepúlveda e di Eduardo Galeano, quelli di Vargas Llosa non vengano fatti conoscere in Italia. La colpa viene data ovviamente alla nostra editoria che, secondo Panebianco “continua a essere convinta che ‘cultura’ sia sinonimo di ‘sinistra’”. Perché, non è così professore? E, mi perdoni, l’editoria italiana, a cominciare dal colosso Mondadori, a chi è in mano? Forse, nella logica neoliberista ora improvvisamente in crisi, il Vargas Llosa saggista non è pubblicato solo perché non è ritenuto interessante per il mercato. So che è sconveniente, ma forse è proprio questa la ragione di questa dimenticanza, anche se lei parla di “offerta politicamente monocorde che influenza e plasma la domanda”. Tanto per la verità, professore, e per non prendere per i fondelli i lettori...


(12 ottobre 2008)



OCCIDENTE è una rubrica tenuta da Minà che farà il punto settimanale, ogni volta, su tutte quelle realtà che impongono attenzione, resistenza, capacità di conoscere situazioni eluse o tergiversate.