giovedì 15 gennaio 2009

Quei bambini che non ci guardano più



Foto di Vittorio Arrigoni





Una sola, immensa domanda, immensa come il dramma umano che si consuma nell’esigua striscia di Gaza: PERCHĖ?


Perché da 18 giorni è consentito all’esercito israeliano di procedere nella tragica operazione “Piombo fuso” senza che i potenti della Terra si scandalizzino? Perché ogni critica, tra l’altro più che legittima ad Israele, viene strumentalmente bollata come “antisemitismo militante”? A parti invertite, con la macabra contabilità di morti civili palestinesi che giornalmente si allunga, con le centinaia di bambini, ormai, straziati dai bombardamenti di Tsahal, certamente vi sarebbe stata ben altra reazione, condanne durissime, i terroristi di Hamas crocifissi. Perché, invece, regnano accondiscendenza e silenzio, omissioni e informazione deformata, partigianamente schierata con Israele, in modo indecoroso? S’intravede, forse, in tutto ciò una sorta di risarcimento postumo per la Shoa? Chi è stato vittima si può, dunque, trasformare in carnefice ed è legittimato a fare tutto?


La sola e immensa domanda, ne racchiude come è evidente tante altre. Mi è però impossibile argomentare, ascoltare anche le eventuali ragioni – se mai possano esistere – della controparte, se non ricevo una risposta esaustiva. Che poi, in realtà, tutti gli interrogativi elencati sono affermazioni mascherate da domande. Temo di conoscere la risposta. Chi ha subito uno sterminio è autorizzato a sterminare a sua volta, così quel dio assente nei campi di concentramento, deve essersi distratto anche in questa circostanza. Vuoi vedere che la scritta che compare sugli autobus di Genova corrisponde alla verità?


Mi attendo dalla puntata di questa sera di “Annozero”, che si occuperà della guerra a Gaza e della sorte dei bambini, un’informazione accurata ed esauriente, che serva a riempire i tanti buchi neri dei telegiornali. Nel frattempo propongo una densa riflessione di uno storico israeliano, Ilan Pappe, che merita di essere stampata per poterla leggere con attenzione. Interessante la data della conferenza: ottobre 2005.


Le foto che ho inserito nel testo, sono quelle drammaticamente attuali scattate da Vittorio Arrigoni, il pacifista italiano, target n.1, che racconta in presa diretta da Gaza l’esito della “spedizione punitiva” (parole di Massimo D’Alema che mi trovano d’accordo). Le sue corrispondenze sono pubblicate da “il manifesto”, nonché sul blog Guerrilla Radio. Sono ritratti di bambini che colpiscono al cuore, vite infrante, giochi spezzati, occhi che hanno perduto la loro luminosità per sempre. Per sempre, lo capiscono i signori della guerra?


 


Da LO STRANIERO, 64, ottobre 2005


 


Traduzione di Orazio Leogrande


 


Israele e la pace


 


 


Ilan Pappe


 


Ilan Pappe, storico israeliano, vive ad Haïfa. Di lui sono editi in italiano un volume scritto in collaborazione con Jamil Hilal Parlare con il nemico. Narrazioni palestinesi e israeliane a confronto (Bollati Boringhieri 2004) e una Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (Einaudi 2005). È l’unico universitario a insegnare una materia di cui gli israeliani non vogliono nemmeno sentire parlare: l’epurazione etnica del 1948. La conferenza che segue è stata registrata il 4 giugno 2005 nell’aula dell’università di Friburgo dove Ilan Pappe interveniva nel quadro del Forum sociale svizzero sul tema: “Quale solidarietà col popolo palestinese?”


 


Quello che sta accadendo in Israele e in Palestina è una recita, una sciarada della pace, una parodia della pace. Ma la verità è che ancora una volta sempre gli stessi politici delle due parti si incontrano in alcuni hotel sontuosi con diplomatici venuti da ogni parte del mondo per non parlare di nulla, semplicemente per chiacchierare. E ascoltiamo parole magniloquenti, come “processo di pace”, “evacuazione”, “disimpegno”, “fine dell’occupazione”, “creazione di uno Stato palestinese”… È l’ “industria della pace”, direbbe Chomsky. Ma sul territorio non succede assolutamente nulla!


Al contrario, attorno al territorio si sviluppano le chiacchiere e i futili esercizi di una diplomazia vuota di senso. Ma il lato inquietante di tutto questo è che, dal momento in cui Sharon ha dichiarato di prendere una ennesima iniziativa di pace all’interno di una precedente iniziativa chiamata “foglio di via”, assistiamo a una tendenza molto pericolosa: chiunque nel mondo sia interessato da lontano o da vicino alla questione palestinese sembra volere assumere il suo ruolo nella grande recita della pace. Ma finora non vi prendeva parte chiunque l’avesse voluto…


Questa volta, quello che è stato chiamato il Quartetto (Unione europea, Onu, Russia e Stati Uniti) si sta congratulando all’unanimità con Ariel Sharon per il suo disimpegno da Gaza. E ci sono persone in Israele che si suppone appartengano a un “partito per la pace” – che fanno parte del partito Lavoratore e del movimento “pace, adesso!” – che dicono la stessa cosa del Quartetto, ossia che lasceranno Sharon fare a modo suo. Sharon è l’uomo che guida gli israeliani e i palestinesi in un nuovo capitolo della “fabbrica della pace” in Israele e in Palestina.


Il “piano di pace” di Sharon presenta un doppio pericolo: da una parte è fallace, dall’altra crea l’illusione nella gente che accadrà qualcosa di positivo. Mentre la situazione è assolutamente catastrofica. Minacciosa. E quando una politica dimostra di non avere prodotto alcun cambiamento nella vita reale della gente, allora ne deriva la frustrazione. Si prepara la Terza Intifada! Essa scoppierà quando un numero sufficiente di persone si renderà conto che le attuali negoziazioni hanno fallito, e che non hanno niente da offrire alle popolazioni.









C’è un altro scenario, meno probabile e tuttavia possibile: quello dell’aumento della violenza. La gente sarà stanca e dirà: “Bene. Negoziamo e cerchiamo di accaparrarci il più possibile”. Chiunque sia andato nei territori occupati sa che c’è una sete di vita normale, sente la stanchezza di questa lotta contro trentotto anni di occupazione. La gente non sa più come vivere questa occupazione; e c’è anche il pericolo che una delegazione palestinese dica, come Arafat nell’estate 2000: “Ok. Prendiamo quello ci offrono, è meglio di niente!” Fin d’ora possiamo sentire questo genere di discorsi nei corridoi dei ministeri, a Ramallah. E questo è ancora più pericoloso della violenza. È un capitolo che può condurre alla distruzione, alla distruzione totale del popolo palestinese e della Palestina… Per impedire questo noi dobbiamo sottolineare ora e sempre che, al posto di una sciarada della pace, sul territorio perdura un’occupazione. Ogni giorno che viene somiglia al giorno prima, e così ogni giorno somiglia a quello precedente, da trentasette anni. Ma se sostenete questa mascherata di pace, se permettete all’occupazione di continuare, ciò significa che permettete qualcosa di ben peggiore della persistenza dell’occupazione. Infatti, se gli israeliani ottengono il via libera per il piano di Sharon, questo significa confermare un pericolo per i palestinesi che vivono in questa metà della Cisgiordania, che Israele – l’Israele consensuale – considera oggi parte dello Stato d’Israele. C’è un gravissimo pericolo che questa gente diventi vittima di una epurazione etnica. Israele ha già trasferito duemila palestinesi per costruire il muro. Questa informazione non la troviamo da nessuna parte nella stampa occidentale. Tuttavia, ben duemila famiglie palestinesi sono state spostate, cacciate da casa loro, per la costruzione del muro… Duecentocinquantamila palestinesi sono direttamente minacciati di epurazione etnica dalla prossima tappa della costruzione del muro, nel quadro della prossima fase di annessione della Cisgiordania a Israele. Se il progetto di pace continua a essere sostenuto dagli europei, dagli americani, dai russi e dall’Onu, ciò significa che Israele avrà il via libera per perseguire la propria politica di epurazione etnica. Occorre anche sapere che gli israeliani si stanno preparando da adesso a far fronte alla prossima insurrezione palestinese; questa volta non esiteranno a impiegare i peggiori mezzi di repressione, messe a confronto con le armi che hanno utilizzato durante le due prime Intifada. Perciò, in questo momento non stiamo semplicemente parlando di epurazione etnica, bensì di un reale pericolo di genocidio.


Non basta dire di conoscere nei minimi dettagli il progetto di pace. Credo che tutti noi – i militanti che sono dentro e fuori Israele – dovremmo comprendere che c’è un grave e urgente pericolo di epurazione dei palestinesi supplementari; e che non c’è che un modo per fermare Israele. Questo non è né il dialogo né la negoziazione diplomatica – che da trentasette anni vengono stipulate…


Un movimento anti-occupazione all’interno di Israele non avrà alcuna possibilità di successo. Mai. Esiste un solo modo per bloccare lo scenario che vi ho appena descritto: per mezzo delle pressioni, delle sanzioni, dell’embargo, facendo di Israele uno stato simile al Sudafrica all’epoca del regime d’apartheid… Non esiste altra soluzione. E sono molto triste nel dire questo, perché conosco le conseguenze di una tale politica; ma chiunque sia stato impegnato nella lotta per la pace – e io lo sono stato per trentasette anni – sa che abbiamo delle buone ragioni di dire, dopo trentasette anni, che ogni sforzo diplomatico non ci porterà da nessuna parte, che delle negoziazioni con Israele non servono a nulla, che in Israele il partito per la pace non ha assolutamente alcun potere, che la lotta armata dei palestinesi è fallita, e che c’è una sola maniera per salvare la Palestina: fare comprendere agli israeliani che non potranno appartenere alle nazioni civili se continueranno l’occupazione un solo giorno si più…









Quali strategie?


Stiamo vivendo dei tempi difficili per i movimenti di solidarietà. In Europa, penso che da molto tempo, e a giusto titolo, uno dei principali obiettivi sia stato di promuovere il dialogo israelo-palestinese; e questo è un obiettivo molto importante, ma oggi bisogna puntare su un altro obiettivo. Oggi chiediamo ai movimenti di solidarietà di fare qualcosa che non hanno mai fatto fino a questo momento. Chiediamo di copiare, di imitare ciò che hanno fatto i movimenti di solidarietà nel caso del Sudafrica; e se osservate i trentasette anni di storia dei movimenti di solidarietà con la Palestina, constaterete che, siccome credevano che ci fossero due parti, siccome credevano nella possibilità che un dialogo mettesse fine all’occupazione, questi movimenti di solidarietà – che non biasimo, ne ho fatto parte anch’io – si sforzavano di promuovere la negoziazione, la coesistenza, la mutua comprensione. Forse un giorno avremo bisogno di questo genere di energia e di appoggio da parte dei movimenti di solidarietà.


Ma oggi quello che cerco di far capire è che i movimenti di solidarietà devono salvare la Palestina per i palestinesi. Infatti, se i movimenti non riusciranno a fare questo, anche gli ebrei di Israele ne saranno vittime, e saranno perduti. Quindi, abbiamo deciso di salvare palestinesi e israeliani – ragion per cui in un articolo ho fatto questo paragone: siamo tutti a bordo dello stesso aereo, senza pilota. Lo sanno tutti: che parliate con i palestinesi o con gli israeliani, tutti sanno che andremo incontro alla collisione di una guerra spaventosa, e nessuno ne vuole parlare. E questo vuol dire che, sul territorio, l’energia per fermare l’occupazione è inesistente. In questo modo, la solidarietà nei confronti dei palestinesi come nei confronti degli israeliani consiste nella necessità di aiutarli a mettere fine all’occupazione.


È importante ogni tentativo di aiutare i movimenti di solidarietà che sono impegnati in alcune iniziative di pace, di dialogo e di coesistenza. Ma credo che non dobbiamo dimenticare, nemmeno per un istante, quale sia l’obiettivo più urgente. C’è un urgente bisogno di strategie che corrispondano meglio alle realtà, che permettano di fare quello che tanto i movimenti pacifisti in Israele quanto i movimenti palestinesi di resistenza nei territori occupati apparentemente non sono riusciti a fare. Si tratta di mettere fine all’occupazione israeliana. Solo quando l’occupazione militare avrà fine ci sarà qualche possibilità di riconciliazione tra i due popoli. Purtroppo il processo di pace – e per me questa espressione comprende gli stessi accordi di Ginevra – finora ha equiparato la fine dell’occupazione con la fine del conflitto. Questo è falso: non funzionerà. Non potrete mettere fine al conflitto tra israeliani e palestinesi senza interrompere l’occupazione.


Potete trattare il soggetto della fine del conflitto solo una volta che avrete messo fine all’occupazione, ma non prima che questo avvenga. E ci sono talmente tante energie, talmente tante brave persone, che hanno fatto un buco nell’acqua tentando di convincere la gente, in Europa, Israele, Palestina e America, che nel momento in cui i soldati israeliani avrebbero lasciato i territori occupati, si sarebbe instaurata la pace in Palestina. Infatti, nel momento in cui i soldati lasceranno la Cisgiordania e la striscia di Gaza, potranno iniziare le reali negoziazioni. E parallelamente a queste reali negoziazioni di pace, ci deve essere una riorganizzazione della parte palestinese.


Non vorrei insistere troppo sull’elezione di Abu Mazen o sull’elezione di Yasser Arafat dopo Oslo. Certo, ho pensato che Abu Mazen avrebbe riportato le elezioni democratiche nei territori occupati. Ho sempre pensato che anche Yasser Arafat avrebbe riportato le elezioni democratiche. Ma non ci dimentichiamo nemmeno un istante che le elezioni non sono una cosa che gli abitanti dei territori occupati reclamino in maniera particolare. Durante l’occupazione sono state imposte le elezioni ai palestinesi, come una precondizione israeliana. Non dimenticate di guardare coraggiosamente i dati storici. Gli israeliani hanno detto ai palestinesi: “Siete delle persone primitive; non potremmo negoziare una pace con voi finché non terrete delle elezioni democratiche”. Ed è così che ci sono state delle elezioni. Fino a questa esigenza israeliana, i palestinesi facevano un ragionamento molto giusto: “Dovremmo avere bisogno delle elezioni pur essendo ancora sotto l’occupazione?” C’è stato qualcuno, in Francia, che alla fine della seconda guerra mondiale ad avere reclamato le elezioni prima della fine dell’occupazione? Allora, di cosa stiamo parlando?







In seguito, se volete parlare di strategie, rispettiamo tutti Abu Mazen; lui rappresenta la popolazione dei territori occupati. Lui potrà e dovrà negoziare la fine dell’occupazione. Ma è incaricato di negoziare in nome dei rifugiati palestinesi? Sono io stesso incaricato di negoziare in nome dei rifugiati palestinesi? Dobbiamo ascoltare dalla bocca dei rifugiati stessi come vogliono applicare il diritto al ritorno che è stato riconosciuto loro dalle Nazioni Unite nel 1948. Sono molto felice di sentir dire ad Abu Mazen, che conosco da un quarto di secolo, che rinuncerà al diritto al ritorno. Ma spero che non lo farà. Ma le strategie di pace, ivi comprese quelle del movimento di solidarietà europea, dovrebbero collocare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi al centro della loro agenda di pace. E non la fine dell’occupazione. Questa fine dell’occupazione, è ovvio, la vogliamo tutti. Ma il conflitto tra Israele e la Palestina non poggia sull’occupazione; si tratta di un’epurazione etnica perpetrata da Israele nel 1948 e che, da allora, non si è fermata un solo giorno. Pertanto, le strategie di pace non sono delle strategie che mirano alla fine dell’occupazione. Ecco come ci hanno riempito la testa di chimere, dal 1967 in poi.


Il movimento “Pace, adesso!”, gli americani, ora il governo svizzero hanno detto: l’importante è che gli israeliani si ritirino dalla Cisgiordania e dalla striscia di Gaza. E invece no! Questa non è la pace: un ritiro israeliano dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania costituisce semplicemente la fine dei crimini di Israele contro l’umanità. Questo non ha niente a che vedere con una pace reale. I palestinesi che vivono nei territori occupati rappresentano solo una parte del popolo palestinese, quella che – notate bene, nella seconda metà del ventesimo secolo – vive da trentasette anni sotto un’occupazione militare! Questa semplice ritirata non ha niente a che vedere con la pace. Vi immaginate la Svizzera sotto occupazione militare, e non per trentasette anni, soltanto per dieci anni?


Voi tutti sapete cosa significa un’occupazione militare. Significa che un sergente può arrestarvi, interrompere il vostro commercio, distruggere la vostra casa, a piacere, in un qualsiasi momento del giorno, brutalmente. Moltiplicate questo per trentasette anni! Che cosa ha a che vedere questo con la pace? Esiste al mondo un posto dove c’è un’oppressione e dove bisogna negoziare con il governo oppressore chiedendo di fermare l’oppressione dandogli qualcosa in cambio?









Assolutamente no! In Serbia, l’Otan ha bombardato Belgrado per arrestare la purificazione etnica nei Balcani. Hanno mandato i loro aerei a bombardare Belgrado. In Israele no: si negozia! Bisogna offrire qualcosa agli israeliani in cambio affinché si degnino a rinunciare a una piccola parte della loro occupazione… E, sfortunatamente, molti palestinesi hanno collaborato a questa politica. Una strategia che tenda alla pace, è tutt’altra cosa. Una reale strategia di pace dovrebbe prendere in considerazione tutto il Medio Oriente, e non solo la Palestina. Non solo la parte del popolo palestinese che vive nei territori occupati. Sicuramente bisogna liberarli, ma questi palestinesi sotto occupazione non rappresentano che una parte del popolo palestinese. Il popolo palestinese è ripartito nell’insieme del Medio Oriente, e tutti i palestinesi sono coinvolti in questo problema. L’aspetto profondamente negativo del progetto di Oslo è stato di escludere i rifugiati palestinesi, di escludere pure i palestinesi che vivevano in Israele dalla soluzione futura della questione palestinese…


Concluderò parlandovi di una strategia che sappia allo stesso tempo ricollocare al centro delle negoziazioni di pace il problema dei rifugiati palestinesi e realizzare una riconciliazione tra ebrei e palestinesi. Poiché ogni altra proposta, qualunque essa sia, sarà sempre una tregua passeggera delle violenze e dell’occupazione. Di sicuro non sottovaluterei una tregua, ma una tregua non è un progetto di pace. Questa strategia la colloco sotto l’egida di ciò che chiamo le tre “A”. Queste tre “A” sono le tre condizioni che devono essere riunite se vogliamo avere un piano di pace. Non propongo qui un ennesimo piano. Sono semplicemente un intellettuale che ha riflettuto su questa questione. Non sono palestinese. Non sono un uomo politico. Non so fornire dei dettagli su come debba essere costruita precisamente la pace: questo è il lavoro degli uomini politici. Ma ho un’idea, che molti dei miei amici palestinesi condividono. E sempre più israeliani – me ne rallegro – pensano all’avvenire come me.









La prima “A” sta per acknowledgement, cioè “presa di coscienza”: non ci sarà un pace tra israeliani e palestinesi fintanto che gli israeliani non riconosceranno ciò che hanno fatto nel 1948. Nessuno lo sa in Israele; e lo stesso vale per i giovani palestinesi. Quello che hanno fatto in una sola giornata del 1948 – e di questo non se ne ha abbastanza coscienza – fu peggio dei trentasette anni di occupazione. Ma lo abbiamo dimenticato! Quello che gli israeliani hanno fatto in una sola giornata del 1948 non sono ancora riusciti a eguagliarlo in orrore durante trentasette anni di occupazione. In una sola giornata del 1948 gli israeliani hanno distrutto cinquecento villaggi cacciando via la popolazione. Hanno raso al suolo questi villaggi e al loro posto hanno costruito delle colonie ebraiche o realizzato dei parchi pubblici. Questo crimine perpetrato nel 1948 è all’origine del movimento nazionale palestinese. Non l’occupazione. E se continuiamo a ignorarlo, gli israeliani continueranno a rinnegare ciò che hanno fatto nel 1948, allo stesso modo in cui negano di avere cacciato un milione di palestinesi da casa loro o di avere preso con le forze armate l’80% della Palestina. Finché non saranno riconosciuti questi fatti, sarà inutile parlare di “pace in Palestina”!


La seconda “A” è quella di accountability: la responsabilità, di avere dei conti da pagare. Gli israeliani devono essere responsabili di quello che hanno fatto nel 1948. Le Nazioni Unite l’hanno detto. Hanno detto che questa responsabilità significa: il diritto dei palestinesi cacciati da casa loro di ritornarvi. Beninteso, non dico affatto che esista un modo semplice di applicare il diritto al ritorno dei rifugiati. Le persone non devono andare a imporsi lì dove vivono già altre persone. Non si dovrebbe creare una nuova ingiustizia per ripararne un’altra. Ma non si dovrebbe negare ai rifugiati il diritto al ritorno. Non si tratta solo di responsabilità, ma anche del modo in cui gli israeliani vedono il loro inserimento nel mondo arabo. Gli israeliani respingono il diritto al ritorno perché vogliono una maggioranza ebraica. E molti di loro che credono in una soluzione a due stati, pensano che i due stati permetteranno di avere uno Stato ebraico la cui popolazione avrà una maggioranza ebraica… Israele è una demografia etnica, e non una democrazia ebraica!


E se la preoccupazione demografica – per la demografia di una certa etnia – continua a dominare in Israele, allora ci possiamo dimenticare la soluzione a due stati. Dobbiamo cominciare a riflettere sul modo in cui possiamo creare un unico stato in Palestina. Non c’è alcuna possibilità di creare una soluzione a due stati, perché, se volete farlo, dovrete trasferire talmente tanti ebrei e palestinesi che tutta la soluzione a due stati risulterà necessariamente sporcata da una specie di epurazione etnica. La soluzione a uno stato unico consiste nel dire che i palestinesi e gli ebrei hanno gli stessi diritti. Non occorre spostare nessuno. Basta solo dare gli stessi diritti a ogni abitante della Palestina.


Infine, l’ultima “A” sta per acceptation. Solo una volta che gli israeliani e tutti gli ebrei – in tutto il mondo, non solo in Israele – avranno riconosciuto ciò che accadde nel 1948, noi potremo negoziare come vogliono loro e mettere in pratica il diritto al ritorno dei rifugiati. Il tal modo, la struttura politica futura soddisferà contemporaneamente il desiderio degli ebrei di disporre di uno stato e di una nazionalità, e quello dei palestinesi di disporre di uno stato, di una nazionalità e di una vita normale, ivi compresi i palestinesi che furono cacciati dall’80% della Palestina. Solo allora gli ebrei che oggi vivono in Israele avranno il diritto di chiedere ai palestinesi, al mondo arabo e al mondo mussulmano, di essere accettati. Sì, noi siamo stati un movimento colonialista. Siamo entrati nel Medio Oriente alla fine del diciannovesimo secolo. Non eravamo stati invitati, siamo venuti e ci siamo imposti con la forza. Ma oggi siamo parte integrante del Medio Oriente. Dobbiamo rinunciare al nostro sogno di appartenere all’Europa. Dobbiamo essere parte integrante del Medio Oriente, dobbiamo condividere i bisogni del Medio Oriente, e non la visione dell’Europa, non l’eurovisione, non il calcio europeo… Noi apparteniamo al Medio Oriente, e quando ne avremo davvero preso coscienza, probabilmente non dovremo più costruire dei muri, probabilmente non dovremo più installare delle barriere elettrificate. Perché i prigionieri del muro non sono solo i palestinesi, ma anche gli israeliani.


Se volete vivere senza muro, allora accettateci: il mondo arabo – e, sorprendentemente, anche il popolo palestinese, malgrado tutto quello che gli israeliani gli ha fatto subire – sono pronti ad accettare che i sette milioni di ebrei che oggi vivono in Israele facciano parte del Medio Oriente. Ma se l’occupazione israeliana si protrae, se non ci sarà la pace in Palestina, il mondo arabo e il mondo mussulmano diranno: “Adesso basta!”, e allora non serviranno a nulla cinquanta bombe nucleari, il presidente Bush non potrà aiutare gli ebrei, e nemmeno il governo svizzero li aiuterà più, malgrado tutte le attrezzature militari acquistate per Israele. Se si vive nel Medio Oriente, occorre essere sicuri di fare parte di questa regione del mondo, occorre integrarsi. E ho una buona notizia da dare ai cittadini israeliani: appartenere al Medio Oriente non è poi così male quanto credano. E loro continuano a credere di non essere in Medio Oriente, e alienano questa regione allo stesso modo in cui la regione li aliena. Finché non comprenderanno qual è la vera natura del vicinato di quel mondo in cui sono entrati con la forza, non si avrà la pace né in Israele né in Palestina.


 








Domande e risposte.


 


In Israele non c’è un movimento per la pace?


In Israele non c’è un vero movimento pacifista. È la ragione per cui sono necessarie delle sanzioni. Se ci fosse un movimento per la pace, non mi appellerei a delle sanzioni. Ma sfortunatamente non esiste un movimento pacifista. Non c’è un movimento pacifista con il quale negoziare, e pertanto: l’occupazione non è prossima a cessare. Quando parlo di diritti uguali, mi riferisco ai diritti dello stato futuro. La sola base di una riconciliazione tra ebrei e palestinesi avrà luogo solo quando ebrei e palestinesi avranno gli stessi diritti in uno stesso stato. È la sola soluzione. Probabilmente il percorso sarà molto lungo. Sarà forse necessario percorrere una strada diversa, in Israele, per ottenere l’uguaglianza dei diritti. Ma senza di essi, il conflitto perdurerà. No, purtroppo non esiste un partito per la pace in Israele, e solo quando sarà interrotta l’occupazione per mezzo di ogni pressione possibile e immaginabile, solo quando la società israeliana, civile e sviluppata, sarà liberata dall’ideologia sionista, solo allora avremo la possibilità di riconciliarci.


 


Il movimento di solidarietà negli Stati Uniti e il boicottaggio.


Ricordo spesso una storia raccontatami da Chomsky a proposito dell’America. Yasser Arafat venne a New York nel 1975 e fece la sua prima apparizione all’Onu, dove pronunciò il suo celebre discorso. Incontrò degli intellettuali, tra cui Chomsky… Chomsky propose a Yasser Arafat di aprire insieme, negli Stati Uniti, un ufficio di relazioni pubbliche per i palestinesi. E Arafat rispose: “No, abbiamo l’Unione sovietica, non abbiamo bisogno degli Stati Uniti…” Chomsky precisò che lui stesso aveva un ufficio di relazioni pubbliche a New York. Ma Arafat non lo ascoltò. Questo aneddoto mostra che per molti anni i palestinesi e i loro sostenitori hanno considerato gli Stati Uniti – per delle ragioni obiettive – come un peso morto, come una causa persa. E, considerato il peso che hanno oggi gli Stati Uniti nel mondo, se si continua a considerarlo un peso morto, sarà un grosso errore.


In ogni modo, dobbiamo dire due cose riguardo l’America. Assistiamo alla nascita di diversi movimenti esasperati da Israele. C’è una crescita di movimenti: alcune persone, in America, prendono coscienza del fatto che molti dei problemi americani sono legati all’appoggio unilaterale a Israele. Ovviamente non vediamo queste persone coscienti sulla collina del Campidoglio, nei corridoi del potere americano, ma sono vive e vegete. Inoltre, c’è la comunità araba americana. Questa comunità è rimasta in silenzio per diversi anni, perché si trattava di una prima generazione di immigrati. La seconda generazione, la giovane generazione, è molto più attiva, si afferma molto di più. E penso che in un futuro prossimo vedremo questa comunità, di circa tre milioni e mezzo di persone, esercitare un impatto non indifferente sulla politica estera degli Stati Uniti.


Per quel che riguarda il boicottaggio… Un mito vorrebbe che la comunità ebraica americana sostenga Israele in maniera incondizionata. In realtà, sappiamo che solo una piccolissima minoranza in seno alla comunità ebraica americana sostiene effettivamente Israele. E c’è una larga maggioranza che non sostiene Israele. Non è contro Israele, ma non lo sostiene attivamente. E poi c’è un gruppo di universitari ebrei americani che dicono: “No, non in nostro nome!” Tutti coloro che conoscono un minimo Israele sanno che, in Israele come in molti altri paesi al mondo, il mondo universitario è una sorta di grande ministero degli affari esteri. E gli universitari israeliani sono formati per essere ambasciatori di Israele nel mondo intero. Una tattica eccellente consiste nell’andare a trovare questi ambasciatori e le loro mogli quando vengono a Losanna, se vengono qui, e nel dire loro che sappiamo delle cose terribili riguardo il loro stato, che disapproviamo la loro politica, e che, se continueranno, non li inviteremo più a venire a casa nostra. Credo che questo avrà un impatto; Israele si vede come un paese colto, civile, “la sola democrazia in Medio Oriente”. Un’ottima maniera per sapere se Israele è tanto democratica quanto pretende di esserlo è il rispetto delle libertà accademiche. Se non affrontate in questo modo, faccia a faccia, gli universitari israeliani, confermate l’opinione secondo la quale Israele sia l’unica democrazia in Medio Oriente. E io che ne faccio parte posso dirvi che gli universitari israeliani che si sono realmente opposti all’occupazione sono davvero molto pochi. Parliamo di circa sessanta persone su novemila. Gli universitari, componente importantissima del sistema israeliano, sostengono l’occupazione, permettono che essa continui e non fanno assolutamente niente per opporsi, mentre, in qualità di intellettuali, hanno l’obbligo morale di farlo.


 


L’epurazione etnica è una realtà.


So bene che l’espressione “epurazione etnica” ha delle connotazioni che evocano il periodo nazista; ma l’espressione “epurazione etnica” in realtà non fu usata all’epoca. Faccio riferimento a un’espressione usata dal Dipartimento di stato delle Nazioni Unite che descrive ciò che è accaduto nei Balcani negli anni Novanta. Se consultate il sito web del Dipartimento di stato, o quello dell’Onu, troverete una definizione molto chiara di epurazione etnica. L’epurazione etnica è una politica di espulsione, di demolizione di case, di distruzione di muri di separazione, di segregazione; e questa politica è giustificata da un’ideologia. Il movente di una tale politica è il desiderio di vedere un gruppo etnico rimpiazzato da un altro. Non credo che esista una definizione migliore di questa per i decenni di politica sionista. Credo dunque di usare consapevolmente questa espressione, perché una delle cose più importanti dette dal Dipartimento di stato americano riguardo l’epurazione etnica è che le persone che sono state cacciate da casa loro da questo genere di politica hanno il pieno diritto di tornare a casa loro. Ecco perché penso che l’esempio dei Balcani sia illuminante per capire ciò che accade in Israele da trentasette anni, quello che è accaduto negli ultimi mesi, e, purtroppo, anche quello che continuerà ad accadere negli anni futuri.


 





6 commenti:

  1. io leggo il manifesto. Mi pare l'unico che ha un po di coraggion e dignità. Che fare? Io boicotto i prodotti israeliani, io che ho avuto un moroso ebreo. Ma questa è una guerra di annientamento che non mi va.

    Io wsto con i palestinesi

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  2. bluminda, una guerra di annientamento scrivi ed è vero. Brutalità su brutalità si inseguono, umani come carne da macello, nessuno scrupolo. L'humus migliore per nutrire l'odio e avviarci tutti verso l'autodistruzione.

    Trovo agghiacciante il silenzio della politica, deprimenti e squallidissimi i battibecchi della classe dirigente italiana.

    Pure io acquisto e leggo "il manifesto" da anni, magari posterò il pezzo di Galeano pubblicato oggi, ritengo che sia necessaria l'informazione di prima mano, come le corrispondenze appunto di Arrigoni. Però non penso che la strada da percorrere sia quella del boicottaggio (una misura che non mi ha mai convinto), ma della conoscenza della situazione, della non criminalizzazione delle popolazioni, perchè poi per il governo israeliano è tutto strumentale per le elezioni. E la guerra viene individuata come lo strumento. Confido nell'auspicata svolta americana.

    Ciò scritto pure io sto con il popolo palestinese e il suo diritto ad avere uno Stato.

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  3. Abbiamo guardato atterriti e non ci si poteva credere. Soprattutto inascoltabili i commenti dei vari capi di stato. Passando al profano: gran bel blog :)

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  4. Honissima, del "profano" ringrazio. Mi fa piacere.

    I commenti degli (im)potenti del mondo sanno di merce putrefatta, sono loro stessi ormai cadaveri. E resto atterrito pure io dal cinismo spacciato per buon senso.

    :-)

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  5. Morti innocenti. Si parla di villaggio globale. Di democrazia. Di rispetto per l'uomo. Di legalità. Di civiltà. Forse vivo in un altro pianeta, ma io vedo violenza,corruzione,ignoranza, trionfo della sopraffazione e dell'odio. Ma l'ONU a che serve?

    Per molti nostri politici, invece, qual è il problema? Santoro con la sua trasmissione Anno Zero . Demenziale!

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  6. ross1, gli è che noi si vive davvero su un altro pianeta dove il cinismo è sconosciuto. Provo le stesse cose che provi tu e naturalmente è del tutto strumentale la polemica su "Annozero". A dar fastidio è il racconto di un massacro che si cerca di minimizzare con mille contorsionismi. E che non si può negare di fronte a quelle immagini e ascoltando quei racconti.

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