sabato 16 aprile 2011

Resteremo umani?








Le voci della radio hanno interrotto il mio sonno, questa mattina, introducendomi in una giornata strana. Le voci, dalla radio, raccontavano di una persona, Vittorio Arrigoni, adoperando verbi all'imperfetto e, poiché ero nella fase del risveglio, mi sono voluto illudere che ne parlassero così perché si riferivano a ieri, al suo rapimento.

Mi rifiutavo di capire e di accettare ciò che avevo intuito già. Poi lo hanno detto che era stato ucciso ed io mi sono fermato a pensare, ancora intontito.

Ho pensato, con amarezza, che il rapimento di Vik non aveva avuto neppure il tempo di diventare un fatto di cronaca, con gli appelli che si susseguono e le mobilitazioni che coinvolgono, così come in altre situazioni analoghe, già vissute, che stanno contrassegnando questi anni di merda.

Non aveva fatto in tempo ad essere meglio conosciuto da coloro, la maggior parte, che ignoravano la sua ragione di vita, il suo impegno appassionato, di pacifista, a fianco della popolazione palestinese, lì nella Striscia di Gaza.

Apprendevo, in seguito, che gli infami di professione sui siti dei fogliacci di destra non avevano perso tempo a vomitare veleno.

Noi continueremo a restare umani, anche se sarà più difficile da oggi. Loro no, esattamente come i terroristi.

Che la terra ti sia lieve, Vik.



http://ilsilenziodeisentimenti.splinder.com/post/19589286/quei-bambini-che-non-ci-guardano-piu



 







 





I cadaveri putrescenti divorati dai cani



 



REPORTAGE DA GAZA



di Vittorio Arrigoni



 



Dante non avrebbe saputo immaginare gironi così infernali come le corsie dei dannati negli ospedali di Jabalia. La legge del contrappasso qui è applicata al rovescio. Tanto più innocente è la vittima tanto meno viene risparmiata dal martirio delle bombe. Al Kamal Odwan, all'Al Auda, le piastrelle in ceramica dei pronti soccorsi sono sempre belle lustre, gli inservienti hanno sempre un gran da fare a ripulirle dal sangue che gronda dall'incessante via vai di barelle cariche di corpi massacrati. Iyad Mutawwaq stava camminando per strada quando una bomba ha aperto uno squarcio in un edificio poco distante.

Insieme ad altri passanti si era precipitato per prestare i soccorsi, mentre un secondo ordigno colpiva il palazzo, uccidendo un padre di 9 figli, due fratelli, e un altro passante che al pari di Iyad era corso sul posto per aiutare i feriti. La solita storia ripetuta, dieci, cento volte. La tecnica preferita di ogni terrorismo ricalcata alla perfezione dall'esercito di Tsahal. Si lancia un bomba, si attendo i soccorsi, si ribombardano feriti e soccorsi. Per Iyad queste sono bombe americane ma portano l'autografo anche di Mubarack, il dittatore egiziano che qui Gaza fa concorrenza ad Olmert in capacità di catalizzare livore.

Dietro il letto di Iyad, un anziano con le braccia ingessate sta disteso con gli occhi fissi al soffitto, non proferisce più parola, mi dicono abbia perso tutto, famiglia e casa. Fissa le crepe di un intonaco che cade a pezzi come per cercare una risposta alla disfatta della sua esistenza. Khaled ha lavorato 25 anni in Israele, prima dell'ultima intifada. Come gratifica Tel Aviv non gli ha concesso una pensione, ma una serie di missili aria-terra sulla sua casa; presenta ferite su tutto il corpo da schegge di esplosivo. Gli chiedo dove andrà a vivere una volta dimesso dall'ospedale. Mi risponde dove sta ora la sua famiglia: per strada. Come la sua, numerose famiglie non sanno più dove rifugiarsi.

I più fortunati hanno trovato ospitalità da parenti e conoscenti, come abbiamo verificato, ma si può definire vita lo stipare un centinaio di persone in due appartamenti di 3 stanze ciascuno? Due bombe sull'abitazione di Ahmed Jaber hanno messo in fuga la sua famiglia, ma troppo tardi. Una terza esplosione ha sepolto sotto le macerie 7 suoi familiari, e anche due bambini di 8 e 9 anni suoi vicini di casa. Dice «ci hanno fatto fare un salto all'indietro nel 1948. Questo è il supplizio per il nostro attaccamento alla patria. Possono staccarmi le braccia e la gambe dal tronco, ma non mi lasceranno mai abbandonare la mia terra». Un dottore mi prende in disparte e mi confida che la figlia di 7 anni di Ahmed è arrivata in pezzi, stava contenuta in una minuscola scatola di cartone. Non hanno avuto il coraggio di riferirglielo per non deteriorare le sue già precarie condizioni di salute. In serata anche a Iyad hanno portato via il telefono per non fargli pervenire cattive notizie. Un tank ha centrato la casa della sorella, decapitandola. Alla fine la nostra imbarcazione del Free Gaza Movement non è giunta al porto di Gaza. A 100 miglia dalla meta designata, in acque internazionali, sono stati intercettati da 4 navi da guerra israeliane, disposte a far fuoco e ammazzare il nostro carico di dottori, infermieri e attivisti per i diritti umani. Nessuno deve osare ostacolare la mattanza di civili che continua ininterrottamente da 3 settimane. A est di Jabilia, dinnanzi al confine, testimoni oculari parlano di decine di corpi in putrefazione per le strade, le loro carni putrescenti sono divorate dai cani. Ci sono anche centinaia di persone impossibilitate a muoversi, diverse ferite; le ambulanze non possono sopraggiungere nell'area perché ovunque ci sono cecchini che sparano. I palestinesi sono esausti di schiattare nell'indifferenza generale, e diversi accusano anche Croce Rossa internazionale e Onu di non fare abbastanza. Di non ottemperare in pieno al loro dovere, di non rischiare la loro vita per salvarne centinaia di altre. Andremo noi dell'Internationl Solidarity Movement (Ism), a piedi, con delle barelle, laddove l'umanità ha oltrepassato i suoi confini e si è eclissata.

I soloni coi culi di pietra poggiati nei salotti buoni della politica discettano di strategie belliche e di guerra contro Hamas, mentre qua ci stanno letteralmente massacrando. Bombardano gli ospedali, e c'è chi ancora si pronuncia sul diritto di Israele all'autodifesa. In qualsiasi stato che si definisce minimante civile, l'autodifesa è proporzionale all'offesa. In questi 20 giorni abbiamo contato 1075 vittime palestinesi, l'85% civili, più di 5000 feriti, dei quali più della metà sono minori di 18 anni. 303 i bambini orrendamente trucidati. Fortunatamente solo 4 vittime civili israeliane. Come a dire che per Israele il giusto bagno di sangue per vendicare ognuno dei suoi civili ammazzati, è quello di sterminarne almeno 250 della parte avversa. Ditemi voi se questa sproporzione fra difesa e offesa non vi riporta agli eccidi compiuti come rappresaglia nelle pagine più nere della storia moderna europea.

Ma veniamo al punto, di legittima difesa si tratta? Ai Marco Travaglio, ai Piero Ostellino, ai Pierluigi Battista e agli Angelo Panebianco, che insistono con la loro solfa imputando ad Hamas la responsabilità di questo genocidio in quanto trasgressore della tregua fra Israele e Palestina, vorrei ricordare la posizione delle Nazioni Unite. Il professor Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha espresso idee chiare in proposito: Israele ha di fatto rotto la tregua in novembre sterminando bellamente 17 palestinesi. Nel mese di novembre si erano registrate zero vittime israeliane, zero vittime come in ottobre, come nel mese precedente e quello precedente ancora. Lo ha ricordato recentemente anche il premio Nobel ed ex presidente Usa Jimmy Carter. Dispiace, che giornalisti come Travaglio, su cui riponevamo la nostra stima perché estremo baluardo di un’informazione libera e quanto più possibile veritiera, si siano messi l'elmetto dell'esercito israeliano e intrattengono le masse dinnanzi al tubo catodico dilettandosi nello sport più di moda da queste parti, il tiro a segno sugli infanti.

Batto i tasti in un ufficio dell'agenzia di stampa Ramattan, attorno i reporters palestinesi vestono giubbotti antiproiettili ed elmetti. Non tornano né stanno per recarsi dinnanzi ai carri armati, siedono semplicemente davanti ai loro computer. Due piani più sopra gli uffici della Reuters sono stati appena colpiti da un razzo, due feriti gravi. Quasi tutti i piani dello stabile sono vuoti al momento, sono rimasti i giornalisti più eroici, questo inferno in qualche modo deve continuare a essere raccontato. Poco prima l'esercito israeliano aveva rassicurato la Reuters di non evacuare, di restare negli uffici perchè sicuri. Stamane bombardato e distrutto anche l'edificio delle Nazioni Unite, stabile messo in piedi anche coi soldi del governo italiano.

Berlusconi, esisti? Diversi i morti e feriti. John Ging, capo dell'Unrwa, agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi, testimone oculare, parla chiaramente di bombe al fosforo bianco. Nel quartiere Tal el Hawa di Gaza city, un'ala dell'ospedale Al Quds è in fiamme, imprigionata dentro insieme ad una quarantina fra medici e infermieri e un centinaio di pazienti anche Leila, nostra compagna dell'Ism. Ci ha raccontato per telefono le loro ultime drammatiche ore.

Un carro armato è dinnanzi all'ospedale e cecchini sono ovunque, sparano a qualsiasi cosa si muova. Tutt'attorno la distruzione, nella notte hanno osservato dalle loro finestre un edificio colpito dalle bombe incendiarsi, e udito le urla di terrore di intere famiglie, di bimbi, implorare aiuto. Non hanno potuto muoversi e impotenti, hanno osservato quei corpi arsi dal fuoco riversarsi in strada e ridursi in cenere. L'inferno si è rivoltato e al suo centro nel cuore di Gaza, noi siamo i dannati di un odio inumano. Restiamo umani
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(16 gennaio 2009)


martedì 12 aprile 2011

I migranti della costa accanto












Dapprima vennero gli ambulanti, subito sprezzantemente definiti “vu' cumprà”. Li identificarono come marocchini, sebbene provenienti da Paesi diversi, ma marocchini continuarono ad essere nello stupido immaginario popolare. Quindi toccò agli albanesi che presto divennero sinonimo di deliquenti i quali passarono il testimone ingombrante agli slavi e da loro ai rumeni.

Adesso è il momento dei tunisini e che insieme a loro sbarchino anche somali, eritrei, libici poco importa. I tunisini sono i “nuovi” clandestini che hanno conquistato la ribalta, sono gli extracomunitari che ci invadono, nuovo strumento nella mani della letale propaganda legaiola, protagonisti dei telegiornali. Tanti volti, senza un nome, perché sono clandestini, extracomunitari, tunisini, cioè validi per tutti gli usi. Dimenticando così che si tratta di migranti, di persone. Se s'iniziasse, invece, ad adoperare definizioni più rispettose della realtà e, soprattutto, della loro dignità?

Anche di fronte al loro sangue che arrossa il mar Mediterraneo, alle tragedie senza fine che si consumano nelle acque che circondano Lampedusa, alla mattanza che non suscita neanche indignazione, se non quella di rito, che non si nega a nessuno, tanto non costa niente. Perché non abbiamo nessun merito ad essere nati nel Nord del mondo e ce ne dimentichiamo sempre.Con la consueta sensibilità che lo contraddistingue, Gian Antonio Stella ha scritto sul “Corriere della Sera” del 31 marzo un commento su cui riflettere e questo prima della strage del 6 aprile scorso in cui sono morti 250 migranti. A seguire un altrettanto interessante contributo di Adriano Sofri su “la Repubblica” del 2 aprile.



 







 





Noi e gli altri



Le tragedie e le parole da misurare



di Gian Antonio Stella



Ci volevano quei morti, quel bambino annegato con altri dieci poveretti nelle acque del canale di Sicilia per ricordarci che la fuga dall'Africa non è «solo» un problema nostro? Il naufragio di quel gommone carico di disperati, l'ennesima «carretta del mare» affondata nel Mediterraneo, è un monito angosciante.

Per tutti noi ma soprattutto per chi in questi giorni ha dato l'idea di curarsi esclusivamente dei guai interni creati dall'ondata di immigrati, dei rapporti con l'Europa che se ne lava le mani, dei rischi politici ed elettorali, della necessità di distinguere tra profughi e i clandestini.

C'erano eritrei e nigeriani, par di capire, su quel gommone. Cercavano di venire qui perché fuggivano «solo» dalla fame o anche, viste le tensioni etniche e le guerre tribali e religiose che sconvolgono i loro Paesi, dalle persecuzioni politiche? Erano profughi da accogliere (sia pure di malavoglia) o clandestini da ributtare sbrigativamente sulla loro sponda? Certo, non possiamo accoglierli tutti. Lo scrive nel libro «Ero straniero e mi avete ospitato», col dolore di chi vorrebbe poter fare di più, anche un uomo santo come padre Enzo Bianchi, il priore della comunità di Bose: «Occorre riconoscere che esistono dei limiti nell'accoglienza: non i limiti dettati dall'egoismo di chi si asserraglia nel proprio benessere e chiude gli occhi e il cuore davanti al proprio simile che soffre, ma i limiti imposti da una reale capacità di fare spazio agli altri, limiti oggettivi, magari dilatabili con un serio impegno e una precisa volontà, ma pur sempre limiti».

In astratto c'è chi dirà che non è giusto. Che ogni uomo ha diritto a emigrare, sognare, cercarsi un suo angolo del mondo, partire per «catàr fortuna», come dicevano i nostri nonni che se ne andarono da un Veneto poverissimo diretti in America, in Brasile o in Transilvania «a menar la carioleta / ché l'Italia povareta / no' l'ha bezzi da pagar».

Forse cristianamente occorrerebbe aggiungere la parola «purtroppo»: non possiamo accoglierli tutti, purtroppo. Ma così è: non possiamo. Come scrive padre Bianchi, «siamo consapevoli (..) che quasi mai il pane va verso i poveri e quasi sempre i poveri vanno verso il pane, così come siamo sempre più coscienti della radicale uguaglianza di tutti gli esseri umani di fronte a Dio e dell'universalità dei loro diritti, ma questo non significa praticare un'accoglienza passiva, acritica e illimitata degli immigrati».

Proprio per questo, però, proprio perché siamo chiamati in questi giorni a prendere decisioni durissime sulla pelle di migliaia di persone che si sono imbarcate inseguendo un sogno come milioni e milioni di italiani di una volta, dobbiamo misurare le parole. Pesarle bene. Per rispetto verso tutti quei nostri emigranti che furono clandestini. Per decenza morale verso chi, come ieri, perde la vita in questi viaggi infernali. Ma più ancora, se volete, per buon senso. Si può gestire un problema come l'emergenza umanitaria di questi giorni, aggravata dalla scelta di tanti Paesi europei di lasciarci soli alle prese con l'ondata, solo se viene messa al bando ogni parola che puzzi anche lontanamente di razzismo.

Non abbiamo altra scelta che riportare a casa loro gli immigrati che non hanno diritto allo status di profugo per motivi politici, religiosi, sessuali? Possiamo farlo solo se non aggiungiamo al rifiuto, che già vivono come una ferita, l'insulto, il disprezzo, l'odio. Messo alle strette, un Paese già in pesanti difficoltà può essere costretto a rimpatriare chi ha cercato di immigrare «solo» per motivi economici? Certo non può chiamarlo «bingo bongo» o «marocchino di merda». Né dirgli «foera di ball».

Non solo perché il rapporto dell'Onu sulle migrazioni del 2009 dice che chi lascia oggi il Terzo mondo per venire in Occidente vede in media «un incremento pari a 15 volte nel reddito, un raddoppio dei tassi di iscrizione alle scuole e una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile»: cosa che spingerebbe chiunque di noi, al posto loro, con la crisi paurosa che affonda l'Africa abbandonata al suo destino, a tentare l'avventura. Ma perché il dialetto lombardo usato per quella battutaccia è lo stesso dei pavesi che emigrarono nella pampa argentina, dei valtellinesi finiti nel Queensland, dei bresciani vittime con liguri e piemontesi del massacro di Aigues Mortes dov'erano accusati di «rubare il lavoro» ai francesi nelle saline della Camargue, dei bergamaschi finiti addirittura nelle miniere degli inglesi nel Karnataka, nell'India meridionale.

L'Italia, si dice, non è un Paese razzista. Certo, abbiamo meno problemi di quanti ne abbiano i Paesi che facevano parte del blocco comunista, dove il crollo della tragica illusione dell'assoluta eguaglianza fra gli uomini è stata seguita da rivendicazioni identitarie spesso dichiaratamente razziste se non addirittura neonaziste. E la stessa Lega Nord guidata dall'autore della spropositata battuta dell'altro ieri può rivendicare di aver dato prova in tante realtà locali, ad esempio Treviso, d'uno spirito di accoglienza e integrazione che contano più di tante sparate xenofobe. Di più: è leghista Sandy Cane (cognome inglese: si pronuncia «kein») la quale, a dispetto degli sfoghi dei malpancisti sul forum di radio Padania, è stata eletta a Viggiù primo sindaco italiano di pelle nera, con tanto di fazzolettino verde d'ordinanza.

I rigurgiti di odio razzista online, però, ci dicono che dobbiamo stare attenti. Tanto più che veniamo da una storia di orrori. In particolare nei confronti dei libici e degli africani. Ce lo ricordano foto famose e tremende, come quelle dei lager nel deserto della Sirte dove morirono a decine di migliaia vecchi, donne e figlioletti. O quella della fucilazione di un gruppo di civili tra i quali c'era un bambino. Siamo quindi chiamati a maggiori responsabilità.

Di più: i problemi crescenti alla frontiera di Ventimiglia, dove la Francia guidata con piglio muscolare dal figlio di un immigrato ungherese respinge bruscamente quanti cercano di entrare, ci ricorda un altro pezzo della nostra storia. Come ha dimostrato definitivamente con migliaia di documenti nel libro «Il cammino della speranza», lo studioso Sandro Rinauro, «gli italiani hanno detenuto a lungo il primato dell'esodo clandestino». Anche in Francia. Un solo esempio: «Secondo il direttore dell'Office national d'immigration Pierre Bideberry tra il 1946 e il 1966 ben il 90 per cento dei familiari degli immigrati italiani era entrato «per migrazione spontanea», ossia non autorizzata. Ed era proprio lì, a Ventimiglia, spiegano la professoressa Simonetta Tombaccini nel saggio «La frontière bafouée» (La frontiera beffata) o i reportage di Tommaso Besozzi, che tanti italiani cercavano di raggiungere illegalmente la Francia. Anche a costo di rischiare la vita al Passo del Diavolo. Come toccò a decine di poveretti volati nel vuoto «come fenicotteri». L'ultimo dei «nostri» a cadere lì, dove in questi giorni si avventurano i maghrebini, si chiamava Mario Trambusti, aveva poco più di vent'anni, veniva da Bagno di Ripoli. Si sfracellò la mattina di Capodanno del 1962.

(31 marzo 2011)



 













Se io fossi un tunisino



di ADRIANO SOFRI



METTIAMO che io sia un tunisino di vent'anni su uno spiazzo di Lampedusa. Aspetto di essere imbarcato ma sotto il maestrale il mare urla e biancheggia. La polizia ci ha tolto, uno per uno, le cinture dei calzoni e i lacci delle scarpe. (Dove le metteranno? Ce le restituiranno?).

Perché ce le tolgono? Come potremmo minacciarli con i lacci da scarpa? Forse vogliono impedirci di impiccarci. Ma allora sta per succedere qualcosa di così terribile che vorremo suicidarci? In ogni caso, è davvero umiliante essere spogliati dei lacci e restare coi pantaloni in mano.

Mettiamo che io sia un poliziotto di vent'anni e stia ritirando lacci e cinture a questi tunisini, ragazzi per lo più, che continuano a dire "Italia Italia" e "Libertà libertà". Mi hanno mandato qua - avrei voluto venirci in vacanza - e da 48 ore stiamo occupandoci, senza dormire e mangiando male, di questi disgraziati che non mangiano e non dormono. Pare che, una volta salpati, li porteremo indietro a loro insaputa in Tunisia. Sarà per questo che gli leviamo cinture e lacci, perché non si impicchino per disperazione. Ma se si immagina che possano farlo, che cos'altro si deve aspettarsi che facciano?

Mettiamo che io sia un abitante di Lampedusa, non so, un pescatore. Non ho niente, davvero, contro questi spiaggiati. Le loro facce mi sono familiari, con tanti di loro ho parlato. So quanti se ne perdono in questo mare di annegati. So che vengono a cercare l'Italia, l'Europa, e l'Europa e l'Italia li fermano qui, a Lampedusa, e la mia isola diventa una zattera alla deriva che affonda sotto il peso dei suoi naufraghi, e nessuno vuole soccorrerla.

Mettiamo che io sia io. Mi è facile (all'inizio, almeno) mettermi nei panni di un ragazzo tunisino o di un poliziotto in trasferta a Lampedusa. Nei panni miei, mi chiedo costernato come siamo arrivati a questo punto. Dopotutto, sono sì e no due mesi. Si è gridato all'invasione, all'Europa indifferente, e si è lasciato che l'alta marea di persone sommergesse Lampedusa, giorno dietro giorno, fino a devastarne la vita quotidiana, e abbandonando all'indecenza i nuovi arrivati. Dapprincipio mi sono detto, ci siamo detti in tanti, che era la scelta deliberata e allegra di un governo alle prese con un mare di guai: era così infatti, e poi la Libia e il Giappone sarebbero arrivati di rincalzo a far da palo a un governo che intanto borseggiava il processo breve e qualche altra porcheria d'interesse privato. Fino al giorno in cui il gioco si è svelato teatralmente sulla doppia scena della visita del capo del governo a Lampedusa, un'esibizione con pochi eguali nella storia del caudillismo contemporaneo, e del parlamento, un parlamento senza eguali nella democrazia contemporanea. Ma intanto si capiva che il cinismo grossolano di quel calcolo si andava ritorcendo giorno dietro giorno contro i suoi autori, e che prendeva il sopravvento la loro insipienza. Hanno detto di tutto - che li pagheremo perché tornino indietro, che gli faremo un campo di tende perché restino nell'isola, che li manderemo a casa della Merkel, che li riporteremo manu militari al loro paese, nolenti loro e il loro governo e le loro acque territoriali: e fatto niente.

Il maestrale ha regalato una dilazione di forza maggiore. Ma le scadenze sempre più solenni e ultimative del capo e dei suoi uomini - 24 ore, 48, 60, e tutto sarà risolto! - suonavano vecchie, e mostravano la sostanza. C'è una moltitudine di rifiuti da smaltire, come a Napoli, come all'Aquila. Monnezza a Napoli, terremotati all'Aquila, rifiuti extracomunitari a Lampedusa: e la stessa soluzione, spazzarli qua e là, alla rinfusa, con le cattive o con le buone - le buone, una villa trattata su e-bay, un nobel o un casinò a Chiaiano o Lampedusa o Manduria. Quanto alle cattive, basta un tipo addolcito dalla malattia che biascica "Fuori dalle palle!", e l'intendenza seguirà. Così la vergogna travolge gli argini, sommerge prima i piani alti, poi i mediani, infine anche i piani bassi e gli scantinati.

In questa combinazione di trivialità, incapacità e inumanità non è facile dire che cosa bisognerebbe fare. È più facile farlo. O almeno, qualcuno lo fa. Ieri monsignor Crociata ha comunicato per conto della Cei che "come Chiesa italiana attraverso le diocesi e le strutture della Caritas, abbiamo individuato 2.500 posti disponibili per accogliere altrettanti immigrati in 93 diocesi italiane". Il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, ha sventato l'ukaz ministeriale che concentrava e recintava nella palude di Coltano (Pisa) centinaia di migranti così da avventarli contro la gente del posto e, capolavoro, i residenti rom, offrendo di ospitare lo stesso numero di persone in strutture di località diverse e in gruppi di poche decine, e "senza filo spinato". Immagino che iniziative così ce ne siano tante e ignorate, a compensare gli smaglianti rifiuti di autorità varie di ogni latitudine - e specialmente delle più alte. Andrebbero censite e messe a frutto, tanto più di fronte alla disfatta di un modo di governo che si nutre propagandisticamente dell'emergenza e nell'emergenza vera soccombe.

Mettiamo dunque che io sia io, nei miei panni, e ciascuno di noi si metta nei suoi panni personali. La cosa ci riguarda? O pretendiamo che la nostra condizione di individui ci esoneri (e ci impoverisca) di una parte di responsabilità? Ci sono tutti questi esseri umani che si mettono in viaggio avventurosamente e dolorosamente in cerca di una vita migliore, che somigli un poco di più alla nostra.

Vedete, ogni discorso sull'immigrazione, sui profughi e sui viaggiatori (i "clandestini"!) che non rinunci del tutto alla nostalgia per una fraternità umana, viene tacciato subito di buonismo, cioè di una bontà di maniera. E messo a tacere dalla frase definitiva: "Prenditeli a casa tua!" La frase è cattivista, ma ha una sua utilità, e non è affatto imbattibile. Non solo perché ci sono molte persone che se li prendono, "a casa propria". Ma mi interessa che cosa fanno gli altri, che cosa facciamo noi altri. Avere una casa propria, e "una stanza tutta per sé", è ancora un gran privilegio sul nostro pianeta, ma è anche una condizione preziosa di libertà e di civiltà. I privilegi, anche quelli che non implicano una soperchieria diretta sulla povertà altrui, sono a rischio. I nostri pezzi grossi si riempiono la bocca di parole tolte al loro contesto reale. Berlusconi ieri, Dio lo perdoni e non lo sentano a Sendai, ammoniva sullo "tsunami umano" che ci sta travolgendo; e in Tunisia sono entrati 200 mila profughi dalla Libia. Così è per la parola "invasione": "È una vera e propria invasione!". No, naturalmente. Non è un'invasione vera e propria. Ma le invasioni succedono davvero, sono successe al tramonto di altri imperi, e quando succedono, abbiano una ragione o no (se la fanno, una ragione), entrano senza bussare.

Finché dura, assottigliandosi, l'età del nostro privilegio, piuttosto che gridare "Fuori dalle palle!", conviene versare il nostro modesto contributo supplementare per l'usufrutto del metro quadrato che ci è toccato in sorte. Se non siamo tipi da spartire il mantello col povero che trema, e anzi per tenercelo, il mantello, regalargli un cappotto in saldo, prima che gli venga un'altra idea. Spendere qualche energia e qualche soldo in aiuti, prima di rovinarsi in guardie giurate. Ho detto che conviene: se poi ci riuscisse di farlo con una specie di gioia, sarebbe fantastico.

(2 aprile 2011)


domenica 3 aprile 2011

Tanto tuonò...


Non ci vuole molto a trovare in archivio articoli e commenti sulla devastazione ambientale. E se da una parte è positivo, perchè significa che l'argomento è dibattuto, dall'altra invece appare sconsolante la constatazione che in periodi diversi l'allarme è stato sempre lanciato, ma l'impermeabiltà criminale lo ha fatto scivolare in secondo piano, come affare di poco conto, prerogativa di manipoli di velleitari sospinti da smania di protagonismo.

Come mai accada tutto ciò è ben spiegato nei vari pezzi proposti, partendo dal titolo del primo articolo, per proseguire con le amare considerazioni di Giovanni Valentini e l'articolata risposta di Umberto Galimberti ad un lettore che si pone angoscianti quesiti sulla Madre Terra, per concludere – infine – con un altro commento, ancora tratto, come il precedente, da "D" di Repubblica.

Consideravo, mentre li passavo in rassegna, che si agisce (quando si agisce in questo Paese) sempre sotto la spinta dell'emotività, delle lacrime del dopo, mai in seguito alla lungimiranza della prevenzione. Per assurdo potrebbe persino apparire fuori luogo un post sui disastri naturali, mentre altri sono gli argomenti di attualità, spesso un'attualità e un'emergenza posticce. Ma fino a quando continueremo a delegare alle associazioni ambientaliste il compito di affrontare tali problemi, l'irreversibile processo di autodistruzione proseguirà, senza neppure poter proferire il classico e usurato: "Piove, governo ladro".



 







Nessuno considera l' emergenza clima una delle priorità



 



ROMA (a.c.) - Il luglio più caldo degli ultimi 600 anni è destinato a ripetersi? La crescita della temperatura sta rilanciando le preoccupazioni sull'intensificarsi dell'effetto serra che potrebbe provocare un mutamento climatico disastroso. Ma non tutti sono d'accordo sulla certezza del trend atmosferico. "Sull'andamento dei primi sei mesi dell'anno ha pesato il fenomeno del Nino, una corrente oceanica d'acqua calda che parte dall'America centrale", commenta il fisico Guido Visconti. "L'evento è finito nella tarda primavera e ha contribuito in misura notevole al semestre record". El Nino dunque non può aver influenzato la temperatura eccezionalmente alta di questo luglio. " È vero. La perturbazione oceanica è solo uno degli elementi che bisogna tener presenti per interpretare questo periodo climatico. Indubbiamente gli anni Ottanta e Novanta sono stati eccezionalmente caldi. Tuttavia io non ritengo che questo sia sufficiente per affermare che siamo in presenza di un incremento dell'effetto serra prodotto dall'uomo. Per saperlo occorrerà aspettare". Dunque consiglia di aspettare prima di agire? "Al contrario. Ritengo che sia necessario impegnarsi subito in una serie di azioni di risanamento ambientale che comportano un sicuro beneficio e che costituiscono al tempo stesso un'assicurazione contro l'intensificazione dell'effetto serra. Penso ad esempio al traffico che rappresenta un problema importante di salute nelle città e che costituisce anche un contributo significativo all'aumento della concentrazione di gas serra". Ma è possibile che la scienza non riesca a dire una parola definitiva sulla questione effetto serra? "Si potrebbe, ma costa. Bisognerebbe organizzare un programma di rilevamento satellitare per misurare con precisione il bilancio energetico dell'atmosfera. Purtroppo né l'agenzia spaziale italiana né il ministro della Ricerca scientifica sembrano considerare questa questione una priorità". Ritiene preoccupante il rischio sanitario creato dall'aumento dell'ozono? "È un elemento che contribuisce ad aggravare la situazione delle città. L'ozono attacca il sistema respiratorio e può creare problemi soprattutto ad anziani e bambini".

(25 luglio 1998)















 













L'ANALISI



Il territorio abbandonato



di GIOVANNI VALENTINI



NON PIOVEVA così da quarant'anni, secondo le imperturbabili statistiche della meteorologia nazionale, nelle Marche flagellate dal maltempo. E di fronte alla tempesta di acqua, neve e vento che imperversa da un capo all'altro dello Stivale, è forte la tentazione di ricorrere ancora una volta al cinismo di un vecchio proverbio popolare, per dire che da quarant'anni non avevamo un governo tanto incline all'appropriazione indebita e al consumo del territorio.

Ma in realtà questa è solo l'ultima puntata, in ordine di tempo, di una storia infinita che purtroppo dura da sempre e ormai ha trasformato la nostra beneamata penisola nel Malpaese più sinistrato e vulnerabile d'Europa. Auguriamoci che, prima o poi, arrivi a un epilogo ragionevole.

Non c'è disastro o calamità naturale infatti che possano essere relegati nella dimensione biblica della fatalità, senza chiamare in causa le responsabilità o quantomeno le corresponsabilità dell'uomo, l'uomo di governo e l'uomo della strada, il potente e il cittadino comune. Vittime, feriti e dispersi; frane, smottamenti e alluvioni; danni e rovine non sono altro che il triste risultato del combinato disposto tra la furia degli elementi e l'inerzia o l'incuria degli esseri umani. Tutto è, fuorché emergenza: cioè eventualità imprevista e imprevedibile, caso fortuito, accidente della storia.

Non sorprende perciò più di tanto neppure la notizia che in Indonesia la ricostruzione post-terremoto sia proceduta più rapidamente che all'Aquila. Nonostante la retorica dei trionfalismi governativi, qualcuno avrebbe potuto meravigliarsi semmai del contrario.

C'è sempre la mano dell'uomo, il suo intervento, la sua assenza o comunque la sua complicità, nel dissesto del territorio che aggrava gli effetti e le conseguenze dei fenomeni naturali. Vale a dire il consumo eccessivo del suolo, l'alterazione diffusa dell'assetto idro-geologico, la cementificazione selvaggia delle coste, l'abusivismo e quant'altro. Quando le colline o le montagne franano a valle, molto spesso il fenomeno dipende dal disboscamento incontrollato che taglia gli alberi e distrugge la "rete" sotterranea delle radici. Quando i fiumi esondano, allagando le campagne e mietendo vittime, la causa più frequente è la deviazione degli alvei originari o la trasformazione artificiale degli argini. E così via, di scempio in scempio.

Manca una politica organica del territorio, difetta la prevenzione, si dispensano di tanto in tanto sanatorie o condoni: e allora sì, il governo è veramente "ladro", perché sottrae alla collettività e alle generazioni future un patrimonio irriproducibile. Ma manca perfino l'ordinaria manutenzione, quella che tocca innanzitutto allo Stato, agli organismi centrali e alle amministrazioni locali. E spetta però anche al privato cittadino: all'agricoltore, al proprietario, all'inquilino o al singolo condomino, a ciascuno di noi insomma nel proprio habitat vitale, per promuovere quella che Salvatore Settis chiama "azione popolare" nel libro intitolato Paesaggio, Costituzione, Cemento, invocando una battaglia per l'ambiente contro il degrado civile.

Politica del territorio significa, innanzitutto, governo e gestione del territorio. Cura, controllo, progettazione, pianificazione. Ma, ancor prima, significa cultura del territorio: cioè conoscenza e rispetto. Consapevolezza di un bene comune, di un'appartenenza e di un'identità. E quindi, difesa della natura, dell'ambiente, del paesaggio.

Un fango materiale e un fango virtuale minacciano oggi di sommergere l'Italia. Il fango prodotto dal maltempo, dall'acqua e dalla terra. E il fango prodotto dal malcostume dilagante, dall'affarismo e dall'edonismo sfrenato. Vanno fermati entrambi, in ragione della responsabilità e della solidarietà.

La convivenza di una comunità nazionale si fonda necessariamente sull'etica civile. Questa riguarda l'ambiente in senso stretto e l'ambiente in senso lato, la società e la politica. Non c'è legge elettorale, consenso popolare o federalismo municipale che possa surrogare o sostituire un tale valore costitutivo. È proprio attraverso la devastazione del territorio che rischia di passare fatalmente la disgregazione del Paese.

(3 marzo 2011)




 



 









Risponde UMBERTO GALIMBERTI



L'USURA DELLA TERRA



Non abbiamo ancora una morale capace di farsi carico degli enti di natura



 



La notizia è fresca (dal sito del Corriere della Sera) ma non una novità: una regione pari a due volte la superficie della Spagna è stata devastata in Amazzonia, polmone verde dell'intero pianeta. Per me, convinto ecologista/ambientalista, una notizia del genere rappresenta, ogni qualvolta viene palesata dai media, una mazzata psicologica che lascia il segno. Felicemente sposato con due meravigliosi bambini e un lavoro a tempo indeterminato che mi soddisfa (di questi tempi avere tali fortune non è da tutti), potrei vivere placidamente il mio status senza tanti patemi. Ma così non è, non voglio che sia così! Quando questi scempi ambientali diventano notizia fruibile a tutti (anche se purtroppo nella realtà penso che essi siano compiuti ogni giorno in qualche remota parte del pianeta o neanche tanto remota: vedi Campania) io cado in una sorta di depressione che mi toglie il sonno la notte (e non è un modo di dire).

Penso che un uomo per essere veramente sereno debba guardare, oltre al proprio orticello, anche al di là dello steccato che circonda questo ristretto orizzonte; il sottoscritto guardando oltre, prova un'angoscia indicibile e una sensazione di inadeguatezza. Potrei essere in pace con la mia coscienza affermando che faccio tutto ciò che è in mio potere fare: tenere comportamenti ecologicamente corretti, fare donazioni ad associazioni ambientaliste (WWF, Greenpeace), insegnare ai figli ad avere rispetto della natura e a fruire dei beni a nostra disposizione con parsimonia.

Che altro fare? Il mio demone sarebbe quello di dedicarmi animo e corpo alla causa ecologica, cercando di fare qualcosa in prima persona ma non è facile. Mi dia lei un consiglio su come approcciare questa mia lacerazione che tanto mi angoscia.



Non siamo più in grado di guardare alla terra come al soggiorno dell'uomo. Il nostro sguardo, soprattutto oggi nell'età della tecnica, percepisce la terra solo come materia prima da utilizzare e da impiegare per i fini che l'uomo si propone. Ma da dove viene questo modo di guardare la terra? Non dalla grecità, perché questa cultura concepiva la natura come un ordine immutabile da cui trarre le leggi per la costruzione della città e il buon governo dell'anima "secondo natura". A ricordarcelo è Platone: «Non pensare o uomo meschino che questa terra sia stata fatta per te. Tu piuttosto sarai giusto se ti aggiusti all'universa armonia» (Leggi, 903c).

Diversa invece è la concezione della tradizione giudaico-cristiana, secondo la quale Iddio consegna la natura nelle mani dell'uomo, affinché questi «domini sopra i pesci del mare, gli uccelli del cielo, gli animali domestici, le fiere della terra» (Genesi, 1,26). Questa cultura del dominio percorre l'intera storia dell'Occidente e ne caratterizza non solo la morale cristiana, ma anche quella kantiana, che potremmo definire "laica" in quanto costruita sui soli presupposti razionali. Ebbene proprio Kant dice che «l'uomo è da trattare sempre come un fine e mai come un mezzo». Esortazione da sottoscrivere senz'altro, che però, opportunamente considerata, lascia intendere che, a eccezione dell'uomo, tutto può essere considerato un "mezzo".

La domanda che a questo punto si pone è: oggi l'aria è un mezzo o è a sua volta un fine da salvaguardare? L'acqua è un mezzo o un fine da tutelare? E le foreste, gli animali, l'atmosfera, la biosfera che cosa sono? Solo mezzi o a loro volta sono diventati fini da salvaguardare.

Il problema è che le morali coniate in Occidente, sia sul versante religioso, sia sul versante laico, si limitano a regolare i rapporti tra gli uomini, senza farsi il minimo carico degli enti di natura. Naturalmente esortazioni in questo senso non mancano, sia da parte del mondo religioso che del mondo laico. Ma perché una morale possa funzionare è necessario che le sue norme vengano interiorizzate psicologicamente, mentre constatiamo che questa interiorizzazione psicologica funziona per i reati sessuali, gli omicidi, i furti, le rapine dove scatta subito riprovazione e indignazione, che invece latitano se si inquinano le acque, se si devasta il territorio, se si riempie l'aria di anidride carbonica e via dicendo.

Finché non riusciremo a praticare una morale che si faccia carico degli enti di natura, insieme alla terra finiremo col mettere a rischio anche l'esperimento umano.


(15 gennaio 2011)



 



 



Cose che non vanno più di moda di GIACOMO PAPI



 



IL PAESAGGIO



La terra indurita dal cemento, si rammollisce e si sfalda



Piove da un mese, forse di più. Piove sul mare, piove in campagna, si bagna il tailleur di Mara Carfagna. Immagino l'acqua che scorre in discesa per la penisola, trasformando ovunque la terra in melma. Il fango da metafora mediatica (vedi: macchina del) è diventato, in questi giorni di pioggia, la nostra condizione geografica, la descrizione letterale di un crollo già in atto che assomiglia a uno sciogliersi più che a uno schianto. L'alluvione ha decretato la fine del miracolo del Nord Est presentandogli il conto di trent'anni di ininterrotta cementificazione, l'acqua ha fatto rimbombare nel nostro immaginario l'eco del fuoco che duemila anni fa travolse Pompei. In Italia la terra sembra farsi liquida. Dal sottosuolo a Pianura come a Milano, emergono rifiuti e veleni fino a ieri sepolti appena al di sotto della crosta terrestre. A Brescia, per diciassette giorni, cinque immigrati hanno preso pioggia in cima a una gru e all'Aquila le macerie sono diventate poltiglia. È uno sconquasso di crolli e di frane in una luce grigio-verdastra. I politici in tv assomigliano a rospi e a ranocchi, come i re nelle maledizioni delle fiabe.

Qualche anno fa, durante un altro nubifragio, ho incontrato il poeta Andrea Zanzotto nella sua casa di Pieve di Soligo in provincia di Treviso. A un certo punto indicò oltre la finestra: «Sono le colline del prosecco, le spostano perché siano più esposte al sole. È il tentativo di riplasmare un fantasma di paesaggio che non esiste più». Disse anche: «La Lega aveva qualche ragione in anni lontani, ma oggi è espressione del ceto che ha prodotto questa distruzione collegata alla necessità di aumentare posti di lavoro e ormai accettata anche dalle vittime». Sua moglie Marisa raccontò allora di quando, pochi giorni prima, il caporeparto di un supermercato Bennet era rimasto schiacciato da un muletto e la direzione aveva impiegato tre ore per chiudere, lasciando i clienti a passare con il carrello di fianco al cadavere coperto da un lenzuolo. Il poeta mi parlò del paesaggio della lingua, distrutto da coloro che si vantano di proteggerlo: «II dialetto Veneto sui manifesti della Lega è un risotto pieno di arcaismi, questi non sanno proprio niente, altro che Goldoni, Ruzante e Noventa». E si mise a declamare insieme alla moglie alcuni versi proprio di Giacomo Noventa: «Soldi, soldi, soldi, vegna i soldi,/ mi vui vederme e comprar,/ comprar tanto vin che basti,/ 'na nazion a imbriagar». Parlò della ricchezza e della memoria della miseria: «In questa specie di mescolanza grottesca di magnati dal giorno alla notte, iniziata con il franchising di Benetton, capita di leggere titoli di giornali come "II re del Pinguino di Treviso va in Cina". La globalizzazione diventa mondializzazione, il mito resta quello americano dell'efficienza». Concluse: «Ma dietro l'efficienza c'è solo la morte».

È in tutta la provincia italiana, non solo nel Nord Est, che il paesaggio è devastato da milioni di rotonde, villette e centri commerciali. La terra indurita dal cemento si rammollisce e si sfalda, consegnandoci il presagio dì un'alluvione imminente. Scrisse Jules Les Jour, il geniale regista francese famoso per la sua inconcludenza: «Farò un musical alla Man Ray intitolato Crying in the rain fatto soltanto di facce di gente che piange sotto la pioggia scrosciante. Bisogna rendere invisibili le lacrime per mostrare il dolore».

Mentre scrivo piove ancora. È il 24 novembre. D uscirà il 4 dicembre. Forse sarà un giorno di sole.

(4 dicembre 2010)