lunedì 22 dicembre 2008

Serene feste

Questo blog segue le feste di fine anno e si concede una pausa.

Che il periodo ci sia propizio.

BUONE FESTE.

giovedì 18 dicembre 2008

Un nuovo mondo possibile








Ancora Barbara Spinelli, ancora un editoriale che rappresenta un condensato di economia sostenibile e sociologia, ancora corposi spunti di riflessione, di quelli che difficilmente entreranno nelle chiacchiere da treno (luogo deputato alla conversazione in libertà, nonché mezzo di trasporto su cui ho già appoggiato un piede).


Lo propongo per condividere una conoscenza e anche come possibile viatico per un modo diverso di pensare e inquadrare gli argomenti. La prospettiva di vita in un altro mondo possibile. Da notare l’incipit dell’autorevole giornalista.


Verosimilmente si tratta anche del penultimo post dell’anno, ma per il provvisorio congedo e gli auguri posso rimandare all’imminente fine settimana.


 


 


L'ACCORDO EUROPEO


Il clima e la crisi


Barbara Spinelli


 


C’era una volta una confraternita di volenterosi che pretese di vedere, in Iraq, funghi atomici inesistenti e armi di distruzione di massa introvabili. Lanciarono una guerra, contro queste chimere, spargendo caos nel mondo. È strano, ma oggi sono gli stessi volenterosi a ritenere chimerico il disastro climatico che invece esiste, e inani oltre che costosi i piani di salvataggio della Terra. Tanto più inani in tempi di crisi economica. Il più esplicito è il presidente del Consiglio italiano, che ha dichiarato: «È assurdo parlare di clima quando c’è la crisi: è come se uno con la polmonite pensa a farsi la messa in piega». Si aggiungono gli europei dell’Est, tra cui spicca il capo di Stato ceco: secondo Vaclav Klaus (prossimo presidente del Consiglio europeo) la battaglia climatica è uno «stupido prodotto di lusso». In pericolo non è il clima ma la libertà, minacciata da un’ideologia verde che «spezza la fiducia nello sviluppo spontaneo della società umana». La politica che s’immischia è il comunismo pianificatore che torna, e l’ecologia ne è la reincarnazione. Peggio ancora: la Germania abdica al ruolo guida che ha avuto in questo campo.


L’amministrazione Bush ha guidato anche questa coalizione, come in Iraq: la distruzione del pianeta «non è il prodotto accidentale della sua ideologia».


La distruzione è l’ideologia. Il neo-conservatorismo è un potere che s’esprime dimostrando che puoi trasformare in macerie qualsiasi parte del mondo», scrive George Monbiot sul Guardian, denunciando i «Nuovi Vandali» del clima. La guida dei volenterosi ha cominciato a vacillare, con l’elezione di Obama, ma influenza tuttora gli affiliati. Il loro motto è: «Finché non vediamo la rovina qui, ora, essa non esiste. Magari esisterà per i nostri discendenti ma che importano i discendenti». Ieri avevano visto in Iraq la pistola fumante che non c’era. Oggi il pianeta stesso è smoking gun e non lo vedono.


L’accordo europeo di venerdì ribadisce, per fortuna, l’obiettivo fissato per il 2020: taglio del 20 per cento delle emissioni di diossido di carbonio, aumento del 20 per cento delle energie rinnovabili, miglioramento del 20 per cento dell’efficienza energetica. Ma l’accordo è pieno di concessioni ai riluttanti: Italia, Germania, Polonia sono esentati da vincoli rigidi, come ha spiegato Enrico Deaglio su La Stampa. Tutti sono contenti del vertice europeo perché l’unanimità - quando c’è forte dissenso su cose fondamentali - genera accordi falsi e non sceglie fra le posizioni preservandole dissennatamente tutte. Una parte dell’Europa non reputa la Terra in pericolo, e non è sconfessata. Non scorge minacce ma assurdi capricci: una messa in piega, un lusso da abolire quando occorre stringere la cinta in economia.


Dicono che atteggiamenti simili sono pragmatici, attenti agli interessi nazionali. Nelle stesse vesti si presentò la rivoluzione conservatrice, quando nacque negli Anni 70 e teorizzò il mercato che si riequilibra spontaneamente, senza ingerenze statali o politiche. La bolla finanziaria infrantasi quest’estate ha dimostrato quanto fosse irreale e ideologico questo pragmatismo. Esattamente lo stesso accade con il clima; solo che la bolla, ancora più enorme, è dura a svanire. Il governo italiano è d’altronde affezionato alle bolle, abituato com’è a giocare con l’illusione televisiva. Secondo Berlusconi «la crisi economica è psicologica, fatta di paura anti-consumista». È quanto sostenne nelle elezioni Usa il consigliere di McCain, l’imprenditore Phil Gramm («Questa è una recessione mentale: siamo diventati una nazione di piagnucolosi», disse al Washington Times il 9 luglio 2008). Si è visto che fine ha fatto tanta spocchiosa certezza.


Privo di sapienza pragmatica è anche il senso del tempo, in chi diffida della questione climatica. Dice ancora Berlusconi che «questa non è l’ora dei Don Chisciotte. Abbiamo tempo». Non è vero che l’abbiamo, e lo confermano non solo i rapporti Onu del 2007 ma i dati più recenti. Di qui all’estate 2013, il Polo Nord avrà perso i ghiacciai. E il permafrost in Siberia si scioglie, liberando metano letale. Da mesi ripetiamo: una crisi finanziaria come questa non c’era dal ’29. Johann Hari sull’Independent scrive che lo scioglimento del ghiaccio artico è da 3 milioni di anni che non lo vedevamo.


I riluttanti hanno questo, in comune: sono dirigenti che sprezzano intensamente la politica, che si fanno portavoce delle imprese più influenti, che accentrano lo Stato ma non per rafforzarne davvero le funzioni. Anche per questo non capiscono l’esistenza di un’economia che distrugge senza creare nulla. La lotta contro la crisi, per costoro, non fa tutt’uno con la lotta climatica. È loro ignoto quel che le unisce: le patologie, le comuni opportunità, i peccati di omissione commessi in ambedue i casi dalla politica, così bene illustrati da Jürgen Habermas nell’intervista alla Zeit del 6 novembre, e l’indifferenza ai tempi lunghi, alla posterità. I riluttanti sono aggrappati a paradigmi di un mondo ormai vecchio, in cui non è la politica a imporre il bene pubblico sugli interessi costituiti ma sono questi a comandare. E comandano le industrie più inquinanti, non le più deboli lobby verdi. Se non fosse così, la prospettiva sarebbe assai diversa. Il clima sarebbe esaminato non solo dal punto di vista dei costi, ma dei benefici.


La prospettiva sarebbe quella illustrata magistralmente dall’economista Marzio Galeotto, il 10 dicembre sul sito www.lavoce.info. Chiari apparirebbero i danni evitati dalla riduzione delle emissioni di gas-serra. Basti ricordare la canicola del 2003, che secondo l’Organizzazione mondiale della salute costò 52 mila morti in Europa. O il risparmio di spese sanitarie, ottenibile se le emissioni saranno ridotte del 20 per cento: 51 miliardi di euro (76 con un taglio del 30). L’indipendenza energetica italiana aumenterebbe, con un guadagno di 12,3 miliardi. Quanto all’occupazione, già oggi l’industria europea delle energie rinnovabili impiega più di 400 mila persone, con un giro di affari di 40 miliardi di euro (gli occupati salgono a 2 milioni nel 2020). Investimenti forti in tale settore creerebbero in Italia più di 100 mila occupati in 12 anni.


La crisi presente è un’opportunità, se crescita e energia verde son collegate. È la tesi di Obama, che vuol creare 5 milioni di posti e investire 150 miliardi di dollari nell’uscita dal petrolio: questo bene sempre più caro, raro, politicamente ustionante. Non a caso ha scelto un Nobel della fisica, l’ecologista Steven Chu, come ministro dell’Energia. Gli sforzi si concentreranno sul risparmio nella costruzione e nel riadattamento delle abitazioni (il 40 per cento delle emissioni di diossido di carbonio proviene in America da esse, secondo Al Gore). Sono proprio gli sforzi che Roma abbandona, non certo per pragmatismo ma per cinico tedio. Le misure adottate da Prodi, che agevolavano fiscalmente i lavori domestici di risparmio energetico, sono state abolite.


Finché penseremo che tutte queste crisi sono mentali non faremo nulla, pensando che nulla valga la pena. È un po’ come nella Dolce Vita di Fellini. Nella campagna romana, c’è una famiglia principesca che possiede una villa del ’500 del tutto decaduta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio inerte, stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo stomacato.


È la cinica, accidiosa risposta di un ultimo rampollo aristocratico. Cosa volete che facciamo, per la Terra? I falsi pragmatici la trattano come personale proprietà, che muore con loro. I profeti e veggenti vedono il lungo termine, il pianeta intero, e pensano come gli antichi indiani d’America: «Noi non abbiamo ereditato la terra dai nostri antenati, ma l’abbiamo presa a prestito dai nostri figli».


La Stampa (14 dicembre 2008)


 

lunedì 15 dicembre 2008

I buchi neri dell’informazione - 2



È da questa mattina, da quando cioè ho appreso la notizia, che cerco di capire la nazionalità del delinquente che ha ucciso un uomo e ferito altre 27 persone, mentre filava a tutta velocità sul suo automobilone dopo una delle tante notti di alto impegno civile (consumare alcolici). Ma non c’è stato niente da fare. Anche i notiziari televisivi si sono dilungati sui necessari dettagli: impiegato, 20 anni, residente a Cesano Maderno, di buona famiglia. Omettendo, però, il particolare che fa la differenza, vale a dire la nazionalità. È ovvio che si tratti di un italiano, perchè se fosse stato uno straniero, meglio se immigrato irregolare, di colpo i titoli si sarebbero trasformati. Quello del “Corriere della Sera”, sarebbe diventato: “Rumeno (nazionalità a scelta, a seconda di quella che tira di più) in auto contro comitiva, 1 morto 27 feriti”. L’extracomunitario…. Quello di Repubblica:“Auto contromano nel milanese investite 28 persone, un morto diventava: “Rumeno (sempre nazionalità a scelta) in auto contromano investe 28 persone, un morto". “Ubriaco in auto travolge comitiva: un morto e 28 feriti” che è il titolo di Rainews24, diventava “Rumeno ubriaco in auto travolge comitiva: un morto e 28 feriti. http://www.rainews24.rai.it/notizia.asp?newsID=89460


La Stampa http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200812articoli/39157girata.asp “Ubriaco alla guida travolge comitiva. Un morto e 27 feriti, grave una bimba” modificato in  “Rumeno ubriaco in auto travolge comitiva. Un morto e 27 feriti”. E neppure nelle news di Google si fa menzione della nazionalità. http://news.google.it/nwshp?client=firefoxa&rls=org.mozilla:it:official&hl=it&tab=wn&ncl=1263396970


Titoli certo sfolgoranti, le cronache dal luogo della tragedia ricche di inviati. Figuriamoci:bambini feriti, una bimba molto gravemente, proprio nell’imminenza delle classiche feste di fine anno, roba da andare avanti per giorni e giorni, da riempire le insulse trasmissioni pomeridiane nell’attesa che, dall’ospedale, uscisse la buona notizia da vendere immediatamente come il “miracolo di Natale” e, di contro, l’investitore immigrato sottoposto al linciaggio mediatico.


È del tutto evidente che, per i parenti dell’uomo ucciso e delle altre persone coinvolte, sarebbe stato un particolare irrilevante, ma per la corretta informazione non è cosa da poco. Eppure si ripete ogni volta. Omissioni od eufemismi. Come l’irritante termine: “morti bianche” riferito agli incidenti sul lavoro, da rubricare invece come omicidi. Oppure: “il pirata della strada” che è invece il senza cervello capace di assassinare pedoni che attraversano la strada, per esempio. O, ancora:“evasore fiscale” chi non paga le tasse, al posto di un più incisivo “ladro fiscale”. In tal modo chi muore sul lavoro manca solo che sia colpevole lui di essersi cercato l’incidente, anzi deve pure augurarsi che lo seguano almeno in quattro o cinque, perché ci si possa occupare di quella che poi si trasforma subito in strage. Chi investe e uccide guidando a tutta velocità, spesso rincoglionito da droghe, rivestito della corazza di “pirata” passa quasi per un eroe e non per un assassino, come in effetti è. Chi evita il fisco attraverso collusioni ed espedienti è poi, senza dubbio, il furbo del quartiere.

Così è stato deformato il buon senso comune e minimizzato quel concetto basilare di una civile convivenza che è la responsabilità personale. La pubblica opinione non è ancora pronta a sentire o leggere: “Italiano ubriaco in auto piomba a tutta velocità su un gruppo di persone uccidendone una e ferendone 27?” Dov'è l'errore?

I buchi neri dell’informazione



Accade che un giornalista venga rimosso dal proprio incarico. Senza preavviso. E nel Paese che ha perduto la memoria, ormai sulla via della “piduizzazione”, questa mutilazione alla libertà di stampa non provoca alcun sussulto. Il regime che avanza produce la stessa reazione che ebbero i viaggiatori ospitati sul Titanic, scatenati in ubriacanti danze e molteplici brindisi mentre la nave affondava.


L’aspetto più grave è che tutto ciò avviene non in un foglio di provincia ai danni dell’intraprendente ragazzo di bottega, ma nell’istituzionale redazione del “Corriere della Sera”, il cui direttore colleziona ospitate televisive (il garrulo Floris gli concede spesso e volentieri la ribalta) e sembra così affabile e buono, allo stesso modo di quando ha comunicato all’inviato Carlo Vulpio la fine delle trasmissioni.


Il giornalista è anche autore del libro che invito ad acquistare, come a dire che noi (ancora) non ci stiamo. Che ci imbavaglino tutti.


 


http://www.carlovulpio.it/Lists/PRIMO%20PIANO/DispForm.aspx?ID=4&Source=http%3A%2F%2Fwww.carlovulpio.it%2Fdefault.aspx


 


Questo è l’articolo che ha fatto infuriare i “poteri forti”. Perché quando si fanno nomi e cognomi la denuncia acquista vero spessore e il giornalismo ritrova appieno il suo ruolo di “cane da guardia”. Da notare la collocazione a pagina 21 nell’edizione di quel giorno del quotidiano milanese. Chissà quante notizie esplosive nelle precedenti venti pagine…


 


Il blitz Operazione dei magistrati di Salerno. Sequestrata la documentazione 


Caso de Magistris, toghe indagate «Illeciti per sfilargli le inchieste» 


Perquisita la Procura di Catanzaro sui filoni Why Not e Poseidone 


CATANZARO - Non era mai accaduto prima in Italia, che una procura della Repubblica fosse «circondata» come un fortino della malavita. Ieri è successo alla procura di Catanzaro, che per tutta la giornata e fino a tarda sera è stata letteralmente accerchiata da cento carabinieri e una ventina di poliziotti, tutti arrivati da Salerno. Con i carabinieri del Reparto operativo e i poliziotti della Digos, sono entrati in procura ben sette magistrati, tra i quali il procuratore di Salerno, Luigi Apicella, e i titolari dell' inchiesta, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani. Hanno notificato avvisi di garanzia e perquisito case e uffici dei magistrati calabresi che hanno scippato le inchieste «Poseidone» e «Why Not» all' ex pm Luigi de Magistris (ora giudice del Riesame a Napoli) e dei magistrati che queste inchieste hanno ereditato, «per smembrarle, disintegrarle e favorire alcuni indagati», scrivono i pm salernitani. Tra gli indagati «favoriti», l' ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, il segretario nazionale Udc, Lorenzo Cesa, l' ex governatore di Calabria, nonché ex procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Chiaravalloti, il generale della Guardia di Finanza, Walter Cretella Lombardo, l' ex sottosegretario con delega al Cipe, Giuseppe Galati (Udc), Giancarlo Pittelli, deputato di Forza Italia, il ras della Compagnia delle Opere per il Sud Italia, Antonio Saladino. Ma questo è solo il troncone calabro. Gli stessi magistrati salernitani, infatti, stanno indagando anche in altre due direzioni. La prima riguarda uno stuolo di giudici lucani coinvolti nella «madre di tutte le inchieste» sul marcio nella magistratura (l' inchiesta «Toghe Lucane», che de Magistris è riuscito a «chiudere» prima di essere frettolosamente trasferito). La seconda andrebbe diritta verso alcuni membri del Csm: per esempio, il vicepresidente Nicola Mancino e i presunti legami con Antonio Saladino, figura chiave di «Why Not», il procuratore generale della Corte di Cassazione, Mario Delli Priscoli, andato in pensione qualche giorno fa, e il sostituto procuratore generale della Cassazione, nonché governatore (Ds) delle Marche per dieci anni, Vito D' Ambrosio, che in Csm sostenne l' accusa per far trasferire de Magistris. Ce n' è anche per l' Associazione nazionale magistrati e per il suo presidente, Simone Luerti. Molto amico di diversi indagati eccellenti quando faceva il magistrato in Calabria, Luerti non ha mai perso occasione di esternare contro de Magistris. Quando poi, qualche mese fa, si è scoperto che incontrava regolarmente Saladino e Mastella nella sede del ministero della Giustizia, mentre lui negava, Luerti s' è dovuto dimettere dalla carica di presidente dell' Anm. Nel decreto di perquisizione eseguito ieri, 1.700 pagine, i pm di Salerno accusano di concorso in corruzione in atti giudiziari - per aver tolto «illegalmente» a de Magistris «Why Not» e «Poseidone» - il procuratore di Catanzaro, Mariano Lombardi, il procuratore aggiunto, Salvatore Murone, il procuratore generale reggente, Dolcino Favi, il parlamentare Giancarlo Pittelli e «l' uomo ovunque» Antonio Saladino. Ma accusano anche il sostituto procuratore generale Alfredo Garbati, il sostituto procuratore generale presso la Corte d' Appello Domenico De Lorenzo e il pm Salvatore Curcio di aver preso in eredità quelle scottanti inchieste al solo scopo di farle a pezzi. Mentre il procuratore generale Vincenzo Iannelli e il presidente di Sezione del tribunale Bruno Arcuri si sarebbero dati da fare non solo «per archiviare illegalmente» la posizione di Mastella («la cui iscrizione tra gli indagati era invece doverosa»), ma anche «per calunniare de Magistris e disintegrarlo professionalmente». Poi, dicono i pm campani, Iannelli, per una causa che gli sta a cuore, fa intervenire Chiaravalloti su Patrizia Pasquin, giudice del tribunale di Vibo Valentia, che poi sarebbe stata arrestata. Così, da magistrato a magistrato, come da compare a compare.


Carlo Vulpio 


Corriere della Sera   (3 dicembre 2008) pag. 21


 


Smentita di Bruno Arcuri:


Smentisco la notizia, divulgata sul Corriere del 3 dicembre 2008, pag. 21, nell'articolo: «Caso de Magistris toghe indagate (...)»  ove si riferisce che lo scrivente si sarebbe dato da fare (...) per «archiviare illegalmente» la posizione di Mastella. Secondo quanto si apprende dal capo di imputazione divulgato con il decreto di sequestro della Procura di Salerno - mai notificato allo scrivente contestualmente ad altri avvisi - all'esponente viene contestato di avere agito in contrasto alla legge penale nel momento in cui, in qualità di relatore in seno al Consiglio giudiziario di Catanzaro, ha partecipato alla formazione del parere sulla valutazione di professionalità del dottor de Magistris, conclusosi con esito negativo in data 18 giugno 2008. Non altri fatti, né complotti e né coinvolgimenti quanto al caso cd. Mastella.

Bruno Arcuri, magistrato in servizio presso il Tribunale di Catanzaro



Replica di Carlo Vulpio:


«Disintegrare professionalmente de Magistris», come sostengono i magistrati di Salerno, è un risultato che si può raggiungere anche esprimendo parere negativo sulla sua professionalità. Come ha fatto - ingiustamente, dicono sempre i magistrati salernitani - il consiglio giudiziario di Catanzaro (relatore, Arcuri) e come riconosce lo stesso Arcuri. Prendiamo atto invece che, con l'archiviazione della posizione di Mastella, Arcuri non c'entra nulla.

Carlo Vulpio


 


11 dicembre 2008


www.carlovulpio.it

lunedì 8 dicembre 2008

La persuasione occulta ai tempi della crisi





È un editoriale bello e impegnativo quello che ha scritto Barbara Spinelli su La Stampa di ieri. È un articolo che sollecita riflessioni, impone di fermarci per capire e comprendere quale sia il modo più efficace e sensato di fronteggiare la crisi che si è aperta. L’ho trovato molto stimolante, al punto da proporlo esaltando la peculiarità del Web tramite i link, perché numerose sono le citazioni.


L’ho detto: è impegnativo, ma vale la pena arrivare fino in fondo laddove si condensa l’insegnamento appropriato che è anche un ammonimento all’irragionevole spensieratezza che ci ha portato al consumismo più esasperato, quello che – per esempio - ha paganizzato la festa religiosa per antonomasia che è il Natale. E che, gabellando per progresso l’inaudita espansione edilizia, in quindici anni ha invaso con “catrame e cemento” un’area pari a quella di Lazio e Abruzzo. Oltre tre milioni e mezzo di ettari. Un territorio sottratto, appunto, ai nostri figli.


 


La crisi come occasione


BARBARA SPINELLI


 


La parola crisi è tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario: più che una parola, è albero dai rami incessanti. In greco antico significa un gran numero di cose tra cui: separazione, scelta, giudizio. Il verbo, krino, vuol dire anche decidere. In medicina si parla di giorno critico o di giorni critici: per Ippocrate (e per Galeno nel secondo secolo d.C.) è l’ora in cui la malattia si decide: o precipita nella morte o s’affaccia alla ripresa. È il punto di passaggio, di svolta. Il termine riapparve nei sommovimenti enormi del ’700: nella rivoluzione francese, in quella industriale. La vera crisi, per Burckhardt, non cambia solo i regimi: scompone i fondamenti della società, come avvenne nelle migrazioni germaniche. Quel che la caratterizza è la straordinaria accelerazione del tempo: «Il processo mondiale d’un tratto cade in preda a una terribile rapidità: sviluppi che solitamente mettono secoli a crescere, passano in mesi e settimane come fantasmi in fuga» (Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale).


Il concetto di crisi fu evocato con affanno sempre più frequente dopo il primo conflitto mondiale. Lo storico Reinhart Koselleck la chiama «cataratta degli eventi» e sottolinea il suo volto ambiguo: è una condanna, ma anche un’occasione che ci trasforma. Nel Vangelo di Giovanni (5, 24) Gesù la raffigura come temibile: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita». Nella versione greca, andare incontro al giudizio è letteralmente «entrare nella krisis», nel processo. Al tempo stesso crisi è intelletto all’opera, che redime: «L’uomo che non ha alcuna krisis non è in grado di giudicare nulla», scrive Johann Heinrich Zedler nell’Universal-Lexikon del 1737.


Anche la crisi che traversiamo oggi è «vera crisi»: momento di decisione, climax d’un male, e se ne abbiamo coscienza, occasione. Uscirne è possibile, purché non manchi la diagnosi: secondo Galeno, i giorni critici sono valutabili solo se l’inizio del male è definito con precisione.


Gli economisti non bastano a tale scopo, e ancor meno i politici. Spesso vedono le cose più da vicino i letterati, i filosofi, gli storici, i teologi, i medici. Se la società è un corpo - dagli esordi è la tesi dei filosofi - questi sono i suoi giorni critici: può morire o guarire, mutando forma e maniere d’esistere.


Pietro Citati individua la radice del male nella passione dei consumi: frenesia che descrive con parole deliziose, ironiche, sgomente, evocando la telecamera americana che nel 1952 riprese una massaia che s’aggirava nel supermercato (la Repubblica, 3 dicembre 2008). La camera registra i movimenti delle sue palpebre ed ecco d’un tratto i battiti crollano davanti agli scaffali, fino a raggiungere la media di quattordici al minuto, da trentadue che erano: «Una media subumana, come quella dei pesci; tutte le signore precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli». Sono decenni che nuotiamo come pesci, gli occhi sbarrati, consumando senza fiutare la crisi: scriteriati. Questo ci ha cambiati profondamente. In America ha distrutto il risparmio.


Ovunque, politici e responsabili finanziari sbigottiscono davanti all’incanto spezzato (alla bolla scoppiata). Vorrebbero che la stoffa di cui è fatto - l’illusione - non si strappasse mai: perché le campagne elettorali son cucite con quei fili, vivono della chimera d’un progresso ineluttabile, senza costi. L’America dopo il Vietnam respingeva le guerre: le voleva «a zero morti». Poi ricominciò a volerle, ma «a zero tasse». Importante nell’ipnosi è accaparrare sempre più, anche se mancano i mezzi: l’ipnosi, restringendo la coscienza, è il contrario della crisi.


In America finanza e politica estera sono «entrate nella crisi» simultaneamente. Il 7 agosto inizia la guerra georgiana, e pure i ciechi scoprono che Washington non può alcunché: ha aizzato Saakashvili, ma senza mezzi per sostenerlo. Esattamente un mese dopo, fra il 7 e il 16 settembre, scoppia la bolla finanziaria (salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, poi bancarotta di Lehman Brothers, poi salvataggio di Aig). Per decenni si è sentito dire: ci sono compagnie troppo grosse per fallire. Era menzogna: non erano troppo grandi né Lehman, né l’impero Usa. Le bolle esistono nella finanza, in politica, nelle teste. Sono i giorni critici della nostra mente.


La trance ipnoide ha stravolto modi di vivere, di convivere con l’altro in casa e nel mondo. Ci ha chiusi nella sfiducia. Lo storico Andrew Bacevich lega tutte queste esperienze, e racconta come dall’impero della produzione l’America sia passata, ancor prima di Reagan, all’impero dei consumi (The Limits of Power, Metropolitan Books 2008). Nel tragitto si son perse (specie in America) nozioni fondanti: la nozione del debito, che nella nostra cultura non è senza colpa ed è divenuto un fine positivo in sé, incondizionato. La nozione della fiducia, senza cui ogni debito degrada. La nozione del limite. Il Padre nostro dice, in Luca 11, 2-4: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». In ebraico peccato e debito sono un’unica parola. La poetessa Margaret Atwood ricorda come il concetto di debito - essenziale nel romanzo dell’800: Emma Bovary si suicida perché un creditore non ripagato minaccia di rivelare il suo adulterio - sia oggi vanificato (Payback: Debt and the Shadow Side of Wealth, Toronto 2008). Soprattutto in America, le banche spingono all’indebitamento, più che a prudenza e risparmio. Scrive Zygmunt Bauman che un debitore che vuol restituire puntualmente (che «pensa al dopo») è sospetto: è «l’incubo dei prestatori». Non è «di alcuna utilità», perché il debito riciclato è fonte prima del loro profitto costante.


Ma il debito sconnesso da fiducia non è pungolato solo da banche o Wall Street. È un ottundersi generale dei cervelli, è l’ebete pensare positivo che il governante invoca con linguaggio sempre più pubblicitario, sempre meno politico. Main Street - che poi siamo noi, cittadini e consumatori - è vittima tutt’altro che innocente di Wall Street. Come nel Grande Crollo del ’29 descritto da John K. Galbraith, siamo affetti da una follia seminale (seminal lunacy) che accomuna potenti e milioni d’impotenti. Per questo è così vacuo il politico che incita a ricominciare i consumi come se niente fosse. Il suo dichiarare, i linguisti lo definiscono performativo: basta dire «la crisi non c’è», e la crisi smette di essere (le dichiarazioni performative sono predilette da Berlusconi). I politici sono responsabili, avendo ceduto a un mercato senza regole. Ora intervengono, ma senza curare la fonte del male. La crisi, cioè la svolta trasformatrice, è rinviata.


Naturalmente hanno le loro ragioni: il crollo dei consumi farà male. Stephen Roach, presidente di Morgan Stanley Asia, ricorda che comporterà disoccupazione dilatata, ulteriori cadute dei redditi e del valore delle case, aumento dei debiti, credito scarso. Ma qualcosa di non negativo può nascerne: un rapporto col debito più realistico e leale, una fiducia riscoperta, un consumo adattato alle possibilità (New York Times, 28 novembre).


Crisi vuol dire decidere, a occhi non sbarrati come la massaia del ’52 ma aperti: sul peggio sempre possibile, sulle bugie del pensare positivo, sulla duplice responsabilità verso la Terra che roviniamo, e verso i figli cui addossiamo i nostri debiti. Terra e figli sono i nostri discendenti: ignorarli perché i loro tempi son più lunghi dei nostri e perché non abiteremo il loro mondo (un mondo con meno petrolio, meno automobili) è senza dignità e chiude speranze altrui. Crisi è sottoporsi al giudizio, al processo. È ora che il processo cominci.


La Stampa (7 dicembre 2008)

giovedì 4 dicembre 2008

La frustrazione del numero zero



Certo che scrivere sotto padrone, comporta un asservimento così totale da paralizzare il cervello già portato all’ammasso, da ottundere qualunque capacità logica di scrivere. In tal modo, senza verificare la connessione tra organo cerebrale e arti superiori, il pennivendolo perfetto fa scorrer le sue dita sulla tastiera, senza alcuno spartito che non sia il pentagramma aziendale. Se poi si tratta di un maschietto al quale viene commissionata la marchetta contro una collega, che ha l’aggravante di essere telegenica, bella e intelligente ecco che l’articolessa si trasforma in un bestiario dei più triti e tristi luoghi comuni della misoginia a tutto campo. Che pena usare la penna a mo’ di pene di tal Massimo Bertarelli, uomo chiaramente in chiara difficoltà con il sesso femminile. Servo e frustrato: non c’è sorte peggiore.







giovedì 04 dicembre 2008, 07:00


Il fuorigioco di Ilaria, «rigorista» di Murdoch


di Massimo Bertarelli


www.ilgiornale.it





Ilaria D’Amico è una abituata a prendere tutti di petto. Da Mourinho a Berlusconi. Lei è fatta così. E bisogna ammettere che è fatta piuttosto bene. Come sanno da anni gli abbonati di Sky, ai quali appare ogni domenica di campionato, la gonna abbondantemente mini e la scollatura decisamente maxi. Insomma, non è tipo da passare inosservato. Anche perché, indiscutibili doti fisiche a parte, è fornita di un notevole scilinguagnolo. Perfetta per l’azione di sfondamento decisa da Sky contro Palazzo Chigi, colpevole di avere alzato dal dieci al venti per cento l’Iva sui canoni della pay-tv.


Ecco dunque in azione dai teleschermi di Sky Ilaria nostra, trasformata da pasionaria dell’area di rigore in temeraria rigorista pro-Murdoch. Calpestando con studiata eleganza l’abituale pedana calcistica, in abbigliamento più castigato del consueto, ma senza rinunciare a mettere in mostra le interminabili gambe, tutta vestita di nero (segno inequivocabile di lutto), perfino la lunga chioma ancor più corvina, le spalle scoperte ma non troppo, ha lanciato il suo drammatico proclama. Se Churchill prometteva agli inglesi lacrime e sangue, lei si è limitata ai lucciconi. Ben trattenuti dentro gli occhioni bistrati, ma si capiva che erano lì pronti a spuntare da un momento all’altro. Sarebbe bastato un lieve tocco del tacco destro sulla caviglia sinistra, come un Gattuso con più stile, per far sgorgare la cascata.


Sono stati tre minuti e cinquantasei secondi, come si può tuttora verificare su YouTube, degni di Eleonora Duse. Chissà quanti applausi ha udito in cuor suo la statuaria telegiornalista, magari tutti quelli dei quattro milioni e mezzo di abbonati, se la straordinaria performance iniziale è stata rimandata nell’etere decine e decine di volte. Come si usa fare con la moviola dei casi più controversi. L’aria ora spavalda, ora lamentosa, l’incedere da primadonna, il brogliaccio con gli appunti tenuto leggiadramente tra le dita affusolate. Con la telecamera che di tanto in tanto, un po’ maliziosamente, inquadra la Signorina Grandi Forme di profilo, mettendone in evidenza anche l’imponente lato B. Tornando poi sul più austero primo piano.


Alle spalle titoloni di giornali («Scoppia il caso Sky: è conflitto d’interesse»; «Pay-tv, scoppia il caso Sky») e telegrafici cartelli giganti, come si suol dire, ad hoc («Dal 10 al 20%»; «4 milioni e 500mila famiglie italiane»), mentre Ilariona sibila, sommessamente la sua filippica: «È una sorta di Robin Tax che colpisce solo alcune famiglie, togliendo ad alcune famiglie»; «una vera stangata»; «voi lo capite pagando di tasca vostra»; «un momento in cui bisogna aiutare le famiglie ad essere alleggerite». Mamma mia, che impressione.


«Noi siamo diventati novemila, assumendo nell’ultimo anno, che è stato il più difficile, cinquecento persone», aggiunge, cercando di solleticare l’istinto patriottico degli italiani in ascolto. «Inutile dirvi che noi pensiamo e speriamo, e crediamo che sia profondamente giusto, - ha concluso - in un ripensamento da parte del Parlamento, che ora si troverà a canalizzare insieme a tutto il pacchetto questa decisione. Nel frattempo continuiamo a proporvi un prodotto di grande qualità». Ben detto, compreso l’agghiacciante «canalizzare». Il de profundis per Berlusconi, firmato Murdoch è una pietra miliare contro tutte le tirannie. Altro che l’orazione funebre di Antonio, targata Shakespeare.


Tanto rumore per nulla, si può dire adesso, restando in zona. Proprio ieri la portavoce dell’Unione europea per il Fisco, Maria Assimakopoulou, di cui non si conosce nemmeno il lato A, ha spiegato che «se l’Italia insisterà nel non cambiare le aliquote Iva sulla tv a pagamento, la Commissione Ue dovrà aprire una procedura d’infrazione». Ilaria D’Amico ha fatto come i campioni offesi: si è messa in silenzio stampa. E domenica, tornando a parlare di calcio, indosserà lo scafandro.

mercoledì 3 dicembre 2008

Puffolandia




Questo è il promo contro la chiusura delle tre reti Fininvest in cui, sulle note di "Yesterday", si ripercorrono dieci anni di successi ed eventi trasmessi da Canale 5, Italia Uno e Retequattro.

(3 dicembre 2008)





Non è affatto una cattiva idea quella di ricorrere all’archivio per capire meglio perché sia paradossale la diatriba che oppone Sky a Mediaset, al punto da oscurare gli insani provvedimenti assunti in campo energetico. Uno scontro tra titani, lo Squalo contro il Caimano e il centrosinistra che, per non farsi mancare nulla, si schiera con il plutocrate straniero (da avversare allo stesso modo di quello italiano).


La storia si ripete, i lamenti pure, come sempre quando c’è di mezzo (difficile che non ci sia) l’ometto B., tessera P2 n° 1816. Si propone, così, la quintessenza del contrappasso. Perché correva l’anno 1984 quando fu la Fininvest, invece, a scatenare la teleprotesta. E intanto Rete4 continua a trasmettere abusivamente, nonostante i ripetuti pronunciamenti Ue, la medesima Unione citata adesso, con tanto trasporto, dai berluscloni.


Negli articoli sottostanti, tutti tratti da “la Repubblica”, è possibile leggere:


1.      il gustoso commento di Paolo Guzzanti, quando lo stesso esprimeva il meglio scrivendo (1984);


2.      le reazioni del mondo politico (1984);


3.      una significativa dichiarazione di Craxi (1984);


4.      la rubrica “Il sabato del villaggio” di Giovanni Valentini (2003).


 


 


MIGLIAIA DI TELEFONATE PER SAPERE PERCHE' SONO SCOMPARSI I PUFFI


di PAOLO GUZZANTI


ROMA - "Si è spenta quasi tutta la scatola", singhiozza un bambino al telefono. E un altro si è sepolto sotto al tavolo in preda a frustrazione incupita: si succhia il dito e non c' è verso di tirarlo fuori. Nelle città oscurate dai pretori ognuno conosce le reazioni dei bambini. Ma gli adulti? La gente della strada e del mercato, dell' autobus e della coda allo sportello, come l' ha presa? L' ha presa esattamente come i bambini. Ieri a migliaia hanno tempestato di telefonate Palazzo Chigi, la pretura, i giornali. Se i piccoli possono succhiarsi regressivamente il dito per avere smarrito i Puffi (i nani blu che imperversano da padroni sulle infanzie recenti), gli altri, gli adulti, hanno perso altre continuità, altre frequentazioni con la favola, salvo altère e sospette eccezioni. Hanno (difficile confessarlo) perso uno dei ritmi acquisiti della vita: colpiti nell' attesa, minacciati in un frammento di esistenza. I più incolleriti e disperati? Tutti coloro che non sanno nulla della questione politica delle televisioni private, delle leggi mancate e della grande partita a colpi di furbizia. E sono la quasi totalità: gente che non ha mai sentito la parola "interconnessione", ma che constata con rancore come il televisore di casa, un accessorio della vita, sia stato in qualche modo manomesso, guastato. Una signora anziana e sola: "So tutto su questa storia, ho letto i giornali. Ma quello che i giudici fanno è ingiusto anche se agiscono in nome della legge. La televisione privata, in questo paese che ignora i deboli, è diventata un servizio pubblico: che offre gratis emozioni, favole, sorrisi e anche qualche lacrima. A me piace piangere e passare il tempo. Sarà stata osservata la legge, non discuto. Ma c' è qualcosa di disumano in questa operazione: qualcosa che colpisce i più poveri e i più deboli nella loro fragilità, nei loro minuscoli equilibri di vita". La gente del bar, tassisti, pensionati, ragazzini e autisti di autobus in pausa, va meno per il sottile. La televisione ha i suoi simboli. Per loro il simbolo della Rai è Pippo Baudo; quello delle private Maurizio Costanzo. Di pretori e legislatori non ne sanno e non ne vogliono sapere niente: è un duello tra samurai, quello che loro vedono. E la Rai, ne sono sicuri, è l' untore che ha ammalato di peste il loro tv-color. Motivo per cui viene emesso uno strabiliante verdetto: "Se Pippo Baudo si crede che adesso io passo il sabato sera a sentire le sue scemenze si sbaglia. Magari vado al cinema". E infatti: può darsi che i cinema traggano qualche lieve beneficio dalle televisioni ammainate, ma non ci sono per ora riscontri. In un vecchio teatro Costanzo sta trasmettendo due serate in diretta (una con gli addetti, una con il pubblico) sul fattaccio dei network zittiti. E quelli di "Canale 5" vanno in giro con due troupes filmando umori e malumori. Nessuno che parli a favore? Nessuno che dica: "Bravo pretore, era ora. Troppi film, troppe telenovelas, basta con quest' orgia di cartoni animati, che diamine. E dove siamo? A Bengodi". D' altra parte, ascoltando e domandando, ci siamo resi conto che sì e no un italiano su cento si rende conto di che cosa e perchè è successo. Naturalmente tutti conoscono, dal telegiornale della Rai, i motivi formali. Ma la gente non è convinta: in dieci anni sono caduti tabù sessuali, comportamentali, linguistici e nessuno è disposto a credere che nel frattempo, zitto zitto, sia nato e si sia fortificato, fino a diventare un piccolo maciste, un altro tabù: quello detto "di interconnessione". Troppo astruso, troppo artificioso. Non c' è proporzione col danno. E infatti i soliti bambini, che sono i più irriducibili telefonatori di queste ore di privazione, telefonano al giornale facendo domande di questo genere: "Voglio sapere che cosa è un pretore e quanto conta". Oppure: "Ditemi con chi devo parlare per farmi rifunzionare il televisore: papà dice che non dipende dall' antennista ma dal giudice. E' vero?" Diffuso il senso di lesa libertà. Un gruppo di opinioni si sintetizza così: "Libertà vuol dire scegliere. Molta scelta, molta libertà. Meno canali televisivi, vuol dire diminuzione non tanto della libertà reale, ma del senso individuale della libertà". Molto sinteticamente: "Ci avete abituati così? Vuol dire che a qualcuno faceva comodo. Adesso esiste un diritto acquisito e collettivo che nessun giudice può toglierci senza commettere una grave ingiustizia". Il malumore è espresso con qualche nota di lagnoso pauperismo; invece di dire: "ridateci Dallas" si sentono soltanto tortuose doglianze sui minorati, gli anziani, i dispersi nei casolari campestri. Siamo, collettivamente, propensi al piagnonismo, ma è innegabile che qui sia stato rubato un giocattolo prezioso mentre altri (l' Italia finora graziata dai pretori) godono. Tutti coloro che aspettavano l' accoppiata Dallas-Dinasty (insospettabili fanciulli, cupi intellettuali) ora si corrodono: "Che cosa sarà successo mentre noi eravamo esclusi?". Condannati all' esclusione e alla separazione: roba da psicoanalisi. E colpiti nell' attesa, cioè nel tempo. Nessuno si fa scippare il tempo dall' orologio senza odiare lo scippatore.



 


ADESSO TUTTI SCOPRONO CHE OCCORRE UNA LEGGE


ROMA (d. b.) - I politici hanno scoperto che una legge di regolamentazione dell' emittenza radiotelevisiva è indispensabile, urgente e che la situazione attuale non si può procrastinare. Questo è più o meno il senso di tutte le dichiarazioni dei leader raccolte a caldo. Tutte indignate o preoccupate con poche distinzioni. La Democrazia cristiana per bocca del responsabile del dipartimento Comunicazioni sociali, onorevole Bubbico, fa sapere che presenterà a giorni una legge di pochi articoli "adeguata ed efficace per uscire dall' incertezza generale e dare a tutti certezza del diritto". Aggiunge l' esponente dc che "prima o poi doveva accadere. Nonostante tutti i bizantinismi che ritardano la definizione del sistema misto dato ovunque per un fatto compiuto e che invece episodi come quello odierno dimostrano che non esiste ancora". Anche il Psi presenterà una legge: sarà una legge quadro, a quanto afferma il vicesegretario Claudio Martelli, che coglie anche l' occasione per polemizzare col Pci che "paralizza la Rai rifiutando tutte le ipotesi prospettate dalla maggioranza per il rinnovo del consiglio di amministrazione". E naturalmente su questo è subito polemica. Veltroni, comunista: "A quanto ci risulta la maggioranza non ha nessuna proposta, tanto è vero che nel comitato ristretto i due relatori, democristiano e socialista, si sono presentati senza ipotesi concrete. Intanto il 30 novembre si avvicina". C' è anche la prima presa di posizione ufficiale del neoresponsabile socialista dei problemi televisivi, Paolo Pillitteri. "L' intervento del pretore" dice "desta stupore e preoccupazione per una serie di motivi: innanzitutto è quanto meno improprio nel momento in cui il Parlamento sta celermente esaminando ed elaborando la nuova legge sull' emittenza privata. Non solo, ma mettere i sigilli a una televisione non può non evocare sinistri interventi censori". L' intervento della magistratura, secondo Pillitteri non riguarda nè l' interconnessione, nè la diretta nè l' ambito nazionale, ma l' ambito locale e regionale che la giurisprudenza e la prassi avevano ritenuto legittimo. Anche il comunista Bernardi mette l' accento sulla mancanza della legge, ma ne attribuisce intera la responsabilità al governo, ai partiti di maggioranza e, in particolare, a democristiani e socialisti "che per otto anni hanno impedito al Parlamento di approvare una legge adeguata e che tuttora tendono a diluire e insabbiare i lavori del comitato ristretto che si è costituito alla Camera". I comunisti non si esprimono sulla sentenza del pretore, ma fanno riferimento a tutti coloro che l' avevano sottovalutata: "Oggi diversi pretori la rendono esecutiva dimostrando che nessuno stato di fatto è irrevocabile, che non vi sono santuari intoccabili, che l' arroganza di tutti questi anni alla fine non paga". Anche l' indipendente di sinistra Bassanini sottolinea le contraddizioni della maggioranza e l' inerzia del governo. Ma all' interno delle forze governative le voci si differenziano. Il ministro delle Poste, Antonio Gava, dice di sè che "deve tacere e studiare il problema, cosa che mi accingo a fare immediatamente, perchè la notizia mi è pervenuta durante il Consiglio dei ministri". Invece ha parlato subito il ministro dell' Industria, Renato Altissimo: "Il provvedimento preso è grave, in quanto mette di colpo un congruo numero di aziende in uno stato di incertezza imprenditoriale. Solleciterò che si prendano nelle sedi competenti e in termini di estrema urgenza le decisioni che da più mesi si impongono. Un' ipotesi potrebbe essere quella che pur ribadendo il divieto di interconnessione ed in attesa di una legislazione più ampia che riguardi tutto il settore, riconosca la facoltà delle trasmissioni in simultanea attuate mediante la messa in onda delle registrazioni". Dure reazioni anche del Pri, del liberale Battistuzzi, del missino Servello, del demoproletario Pollice e di molti esponenti sindacali. Intanto oggi il ministro Gava risponderà in Parlamento sul piano delle radiofrequenze. Nei giorni scorsi infatti si era molto discusso sulla possibilità delle emittenti radiofoniche private di sopravvivere dopo l' approvazione del piano internazionale di ripartizione delle frequenze presentato a Ginevra. Sarà naturalmente l' occasione per discutere anche del fatto nuovo di ieri. Il ministro oggi annuncerà la creazione di una commissione mista composta da rappresentanti della Rai e dei privati che si occupi, appunto, di un nuovo censimento dell' emittenza privata e delle frequenze. - nostro servizio



 


 


DOMANI CONSIGLIO DEI MINISTRI PER RIATTIVARE LE TV OSCURATE


ROMA - Se oggi non interverrà un provvedimento amministrativo che consenta di riaccendere su tutto il territorio nazionale i tre networks di Berlusconi, domani si riunirà il consiglio dei ministri per approvare un decreto legge in proposito. Lo ha detto Craxi mentre si recava in volo a Londra: "Ci vuole un provvedimento che ristabilisca la certezza del diritto in questa materia, l' eguaglianza di trattamento dei cittadini e il dominio del buon senso". E alla domanda dei giornalisti se si riferisse ai pretori ha poi risposto: "Certo non mi rivolgo ad ignoti". Il presidente del Consiglio ha infatti chiesto al ministro delle Poste Gava di emanare un decreto amministrativo di interpretazione dell' articolo 195 del codice postale. Dandone una diversa "lettura" verrebbero a cadere i motivi in base ai quali i pretori hanno disposto il parziale oscuramento delle tre reti. (…)


di DANIELA BRANCATI



 


E ora va in onda il pianto greco


Era la mattina del 16 ottobre 1984 quando nuclei della Polizia postale e della Guardia di Finanza, in esecuzione dei decreti penali firmati dai pretori di Torino, Roma e Pescara, disattivarono gli impianti per le interconnessioni televisive oltre l' ambito locale. Fino ad allora, sulla base delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale a partire dal 1976, le tv private non potevano trasmettere simultaneamente su scala nazionale, bensì su un territorio circoscritto. Nulla vietava dunque alla Fininvest di modificare il suo palinsesto, in modo da rispettare la legge e l' intervento della magistratura. E invece i telespettatori del Piemonte, del Lazio, dell' Abruzzo e di una parte delle Marche, sintonizzandosi quel pomeriggio sulle reti del Biscione, trovarono sul video soltanto nebbia, nevischio o sabbia. Molti pensarono subito a un guasto dell' apparecchio o dell' antenna, ma i canali della Rai e delle tv locali si vedevano perfettamente. Finché, alle 20,20, sui monoscopi della Fininvest apparve in quelle regioni un cartello: "Per ordine del pretore di Roma (o di Torino o Pescara - ndr) è vietata la trasmissione in questa città dei programmi di Canale 5 (o di Italia 1 o di Retequattro - ndr) regolarmente in onda nel resto d' Italia". I quotidiani dell' indomani accreditarono in buona fede la versione tendenziosa divulgata da Segrate. In realtà non si trattò di un "oscuramento" disposto dai pretori: era piuttosto una serrata, decisa dall' azienda per rendere più visibile la sua contestazione e provocare le reazioni del pubblico. Bastò infatti quel black-out di mezza giornata per scatenare le proteste degli spettatori, improvvisamente privati delle avventure dei Puffi per i loro bambini e più tardi delle puntate di Dallas o di Dinasty. Da lì a pochi giorni, toccò al governo socialista guidato da Bettino Craxi convocare d' urgenza il Consiglio dei ministri, nella giornata di sabato 20 ottobre, per emanare un controverso decreto-legge che sanava provvisoriamente la situazione e consentiva alla Fininvest di continuare le trasmissioni sul territorio nazionale. Un provvedimento ad personam, definito dallo stesso governo "eccezionale e temporaneo", destinato a durare un anno, in attesa di una riforma generale della televisione che ancora aspettiamo. Dal fronte dell' opposizione, a nome del Pci fu Walter Veltroni ad avvertire: «Il decreto che si va profilando è assurdo e incostituzionale, poiché legittimerebbe quel monopolio privato che la Corte costituzionale ha respinto sin dalla sentenza del 1976». E con una certa preveggenza, aggiunse: «Se fosse riconosciuto per decreto-legge l' impero di Berlusconi, sappiamo tutti che la regolamentazione non si farebbe più, perché le stesse forze politiche che hanno bloccato la legge per favorire il costituirsi del monopolio privato, una volta questo fosse addirittura legittimato, non avrebbero più interesse a regolare il sistema». Decaduto una prima volta, il provvedimento verrà disinvoltamente reiterato e poi, al limite della legittimità costituzionale, beneficerà di un' ulteriore proroga sine die. Fino alla famigerata legge Mammì dell' agosto '90, con cui il governo del Caf (Craxi-Andreotti-Forlani) ratificò il fatto compiuto, per arrivare ai giorni nostri con l' approvazione della legge Gasparri e la solenne bocciatura del Capo dello Stato.


* * *


SONO passati vent' anni e la storia purtroppo si ripete. Ora, dopo il veto del Quirinale, sulle reti Mediaset va in onda il pianto greco, come quello della tragedia classica. Va in onda anzi a reti unificate, visto che al coro si associa anche il direttore generale della Rai, dimostrando una volta di più il livello di subalternità raggiunto dall' azienda pubblica nei confronti del polo televisivo privato. Quest' ultima replica si potrebbe intitolare "Il ricatto occupazionale" ovvero "La minaccia dei licenziamenti in massa". Come accadde già nel 1984 per la "rivolta dei Puffi", e successivamente durante la campagna per il referendum sulle tv, anche adesso si tende a innescare la teleprotesta popolare. Ma è soltanto l' ennesima mistificazione di un potere mediatico che si difende con le stesse armi che detiene abusivamente, cioè in un quantitativo illegittimo, come ha sentenziato più volte la Consulta e hanno ribadito anche le Autorità di garanzia. Di fronte a una disciplina antitrust, com' è appunto quella che riguarda Retequattro, l' alternativa è semplice: o viene applicata alla lettera (in questo caso, con il trasferimento della rete sul satellite) oppure si cede il ramo d' azienda che supera il "tetto" della concentrazione. Così si può allargare il mercato ad altri soggetti, si possono aumentare il pluralismo e magari i posti di lavoro. Altro che licenziamenti, ristrutturazioni o tagli occupazionali. Altro che "salvataggio" di Retequattro: è necessario salvaguardare l' intero sistema dell' informazione. Se avesse voluto rispettare le regole, dalla sentenza della Corte costituzionale del '94 alla legge Maccanico del '97, il gruppo Berlusconi avrebbe avuto tutto il tempo per mettere Retequattro sul mercato, aprire trattative e spuntare il prezzo migliore per il suo avviamento: magari ritoccando per le altre due reti le tariffe pubblicitarie che sono tuttora le più basse d' Europa, a danno della concorrenza e degli altri media. La verità è che il governo e la maggioranza di centrodestra hanno cercato fino all' ultimo di scardinare le norme antitrust con il grimaldello della legge Gasparri, arrivando a quindici giorni dal "termine perentorio" del 31 dicembre 2003 fissato un anno fa dalla Consulta, per ricorrere infine a un nuovo decreto-legge ad personam, anzi ad aziendam, nel grottesco rimpallo di responsabilità sulla firma tra il premier e il vicepremier. E con la stessa arroganza del potere, si minaccia adesso di abolire o modificare la "par condicio", quasi ad attuare una ritorsione o una rappresaglia. Rispetto alle reazioni intolleranti (e intollerabili) del dottor Confalonieri, alle lamentazioni di Emilio Fede, ai 700-800 posti che sarebbero in pericolo a Retequattro, viene proprio da chiedere: quanti sono i giornalisti o gli altri dipendenti delle aziende editoriali, delle tv locali, delle radio o dei portali Internet, licenziati negli ultimi anni, pre-pensionati, non assunti o impiegati in modo precario, anche a causa dello strapotere televisivo e pubblicitario del Biscione? E che dire di un' emittente come "Europa 7" che nel '99 ha ottenuto regolarmente una concessione televisiva nazionale, ma non ha ancora materialmente le frequenze per trasmettere perché quelle disponibili sull' etere non sono sufficienti per tutti? Qui non si tratta di fare la guerra fra la tv o la carta stampata. Si tratta semplicemente di garantire, attraverso un' equilibrata ripartizione delle risorse, le condizioni minime per tutelare il pluralismo e la libera concorrenza in un settore nevralgico come questo. Poi, certo, a decidere gli investimenti e a scegliere i mezzi più idonei dev' essere il mercato. Ma all' interno di regole e limiti stabiliti - come in tutti i sistemi capitalistici - in nome della democrazia economica.

Giovanni Valentini





(1 dicembre 2008)