Il sole non aveva ancora deciso se illuminare o meno la giornata, quando sono uscito questa mattina. Un veloce caffè nero bollente bevuto in piedi, ma avevo fretta. Nuvole basse color pioggia sporca all’orizzonte, la nebbia in dissolvenza sembrava far galleggiare per aria case e terreni. Con l’amaro aroma in bocca ero sceso per strada, stretto nella pesante giacca di pelle, con la pasmina che mi accarezzava il collo e lo scaldava, ricreando il tepore del piumone che neppure mezz’ora prima avevo buttato per aria.
Camminavo con le mani in tasca, lontano dai quotidiani sentieri, affondato in pensieri gravidi e opprimenti, stretto da una stordente malinconia. Dopo aver allungato il passo, adesso lo accorciavo, perché la destinazione finale si stava avvicinando. Estraevo dalla tasca interna due fogli. Rileggevo il primo: “Dovendosi procedere alla estumulazione e riduzione della salma di… (mio nonna) deceduta nell’anno 1964, tumulata presso il cimitero di … edificio M, piano secondo, fila 3, n° 30 da trasferirsi sempre nel cimitero di …, edificio M, piano secondo, fila 3, n° 30 si chiede accertamento sanitario. Il signor …. dovrà indicare al medico presente, in caso di impossibilità a procedere alla riduzione, la destinazione della salma (da rimettere nel medesimo loculo oppure procedere alla inumazione sempre nel cimitero di ….).
Adesso il secondo, mentre percorrevo il lungo viale. “Dovendosi procedere allo spostamento della salma di … (mio padre), deceduto nell’anno 2007, tumulato nel cimitero di …, edificio A, piano terra, fila 16, numero 21, si chiede accertamento sanitario”.
Gli uomini in tuta bianca si intravedevano nella caligine che si andava diradando. I loro movimenti erano agili e sicuri. Alcune auto parcheggiate nei vialetti laterali tradivano la presenza di altre persone convocate sempre nel medesimo giorno, per il pietoso rito. Un batter di martello sul marmo indicava la direzione. Un primo loculo era già aperto, la pietra collocata a terra, appoggiata ad una colonna. Rivedevo la bara che conteneva mio padre, quasi a portata di mano. Mi defilavo, per raggiungere il luogo dove era stata sepolta mia nonna.
Dopo quarantacinque anni occorreva verificare se il corpo si fosse disfatto. Un telo di pesante cellophane era stato disteso sul pavimento. Con i necrofori, già avari di parole, bastava un breve saluto. E poi ciascuno ad inseguire i propri pensieri, col desiderio mio di essere già altrove. Arrivava il medico legale, si poteva cominciare.
La bara, ormai annerita e marcia, veniva adagiata a terra, qualche pezzo di legno si staccava, finendo nel piano sottostante. Il coperchio veniva sollevato con poco sforzo, la lastra metallica si apriva come fosse stata una scatola di sardine. Ormai sfocati e residui i ricordi di mia nonna e adesso sotto i miei occhi ecco ciò che restava. Il cranio ricoperto da un velo nero, gli abiti mescolati con la polvere di legno, le scarpe intatte. Una ricognizione sui resti mortali confermava lo stato di mummificazione. Impossibile procedere alla riduzione, inutile la cassetta metallica. Si appoggiava sulla bara il coperchio, avvolgendo tutto con la copertura plastificata e si trasportava ogni cosa nel terreno sul retro. Sarebbe stata collocata sotto terra per altri cinque anni.
Il medico spiegava che l’esposizione prevalente del loculo al sole aveva disidratato completamente il corpo, impedendo nel contempo la completa decomposizione. All’altezza del bacino le ossa erano penetrate nei muscoli, intrecciandosi poi con il vestito nero con cui venne ricoperta all’epoca. Adesso mio padre aveva pronta la nuova casa.
Ora gli operai si spostavano, dirigendosi verso quel loculo aperto già da un giorno. La cassa veniva estratta a fatica, appesantita. Era avvenuta venti mesi fa la sepoltura. Che strano effetto rivedere tutto adesso.
Ricordo quel pomeriggio, dello stesso giorno della morte, quando ci eravamo recati (mai andar da soli) dall’impresario di pompe funebri per scegliere. Avevamo esaminato il catalogo e poi passato in rassegna le bare, ascoltando i consigli su quale fosse quella più adatta. “Questa va molto ultimamente”, come fosse stata un capo dell’ultima collezione autunno-inverno. Ne avevamo scelta una, di legno chiaro, bella, ammesso che una cassa da morto possa meritarsi questo appellativo. E poi, quasi orgogliosi della preferenza, ci eravamo dilungati, con amici e parenti, sui requisiti.
Si tratta dello stordimento che segue una grave disgrazia, sono gli argomenti che tengono banco, quasi venisse già operata una rimozione. In realtà si agisce meccanicamente.
Adesso, mentre quella bara, che aveva quasi richiesto un consulto di famiglia, veniva nuovamente trasportata a spalla per l’ultimo definitivo viaggio, notavo come fosse appassita, spento il colore, annerita in parte sul retro. Il coperchio, quello che aveva imposto un’altra sofferta e paradossale selezione, stava rovinandosi in più parti.
Senza alcun contorno floreale, assenza di persone e di rumori di fondo, quel piccolo corteo sprigionava una tristezza infinita. Eppure si trattava di un semplice trasferimento di salma, percorso anche breve. Spogliato di ogni accessorio, ridotto all’essenzialità necessaria, il rito si consumava rapidamente e questa volta i mattoni, che andavano a chiudere la tomba, sarebbero stati per sempre.
Un dolore che si riapre, incidendo la fresca cicatrice, produce un male nuovo, diverso eppur sempre lacerante. Ma era anche la conclusione di venti giorni di tensione, da quando cioè avevo ricevuto la convocazione.
Mentre imboccavo la strada per l’uscita, passavo accanto al loculo che aveva ospitato mio padre, adesso pronto ad inghiottire una “preda” che magari, successivamente, seguirà lo stesso percorso. A metà del viale gli uomini in tuta bianca stavano continuando il loro lavoro, inginocchiati adesso accanto ad una bara minuscola da cui stavano estraendo un batuffolo di lana. Era una coperta deposta in una cassettina. Resti mortali di un bambino che nacque nel novembre 1943 e morì sei mesi dopo. Una meteora che rende ancora più incomprensibile il senso della vita.
Qualche goccia di pioggia. Il sole oggi non si affaccerà.
Amico mio, mai mi era capitato di leggere un post così fino in fondo.
RispondiEliminaE di rimanere senza una parola da lasciarti.
Tranne un abbraccio
Le persone che abbiamo amato e che hanno condiviso con noi parte della vita, ci lasciano quella che Foscolo chiama "eredità d'affetti" e, partendo, si prendono qualcosa di noi. La malinconia della riesumazione rende più forte il sentimento dell'assenza. Ma tant'è: morire vuol dire esser nati.
RispondiEliminaSembra un sacrilegio commentare questo post... sembra quasi di vederti, di essere lì con te leggendo le tue parole. Fortunato chi non ha mai percorso quei viali coi pugni in tasca e gli occhiali scuri. Ciao :)
RispondiEliminamarzia, anche un abbraccio va più che bene. Grazie.
RispondiEliminaCari saluti.
ross1, è bellissimo ciò che hai scritto, da custodire per sempre e rileggere spesso. Grazie.
Honissima, nobili parole pure le tue e ringrazio molto anche te per l'apprezzamento.
Per me è stata una necessità dover riportare qui ciò che avevo vissuto, troppo angoscianti il peso e l'impatto. E mi è stato utile: quando mai avrei potuto leggere pensieri così belli e regali?