mercoledì 28 settembre 2005

L'autoassoluzione

http://www.bloggers.it/64akela24/itcommenti/vauro_giudici.jpg


Era impossibile resistere alla tentazione di non rilanciare anche qui il pezzo di Travaglio, postato nel blog www.vivamarcotravaglio.splinder.com Lo imponevano la strettissima attualità e la necessità di diffondere sempre più, sempre meglio, informazioni che in tv non passeranno mai. Per esempio a "Ballarò", terminato un'ora fa, sarebbe stata opportuna (ed esplosiva) la presenza di Marco Travaglio il quale, già solo leggendo la sua "bananas" odierna, avrebbe realizzato una sana informazione. Ma questo appartiene a "Telesogni".


Ego me absolvo


di Marco Travaglio


da “l’Unità” del 27 settembre 2005


Giustizia è fatta anche stavolta. E non sappiamo se siano più spiritosi i giudici quando scrivono che “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”, o l’avv. on. prof pres. Gaetano Pecorella che esulta per la “sentenza giusta e attesa”. E’ una bella lotta. I codici prevedono la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato”:il “più” è una chicca, uno strepitoso svolazzo che condensa in tre lettere cinque anni di porcherie legislative mai viste prima nel mondo, e nemmeno in Italia. Il fatto era reato quando Berlusconi l’ha commesso, ma non lo è più da quando Berlusconi l’ha abolito. Il tutto con l’aiuto dell’amabile presidente della Commissione Giustizia, che è anche il suo avvocato: un avvocato talmente bravo che difende il cliente non solo nelle aule di giustizia, ma anche in quelle parlamentari. Ora questo mattatore della satira giudiziaria spiega che “non esistono leggi ad personam, ma soltanto leggi giuste: se il falso in bilancio non crea effetti nocivi di rilievo non merita di essere punito”. Pare quasi che il fatto fosse un capannone abusivo, eccesso di velocità, un divieto di sosta. Che cos‘è invece il ‘fatto” che “non costituisce più reato”? Un‘intera società con sede nelle isole del Canale,
la All Iberian
, sui cui conti
la Procura
di Milano ha dimostrato essere transitati dal 1989 al ‘96, un miliardo dì euro finalizzati a operazioni illecite come la corruzione di giudici tramite l’apposito Previti, operazioni finanziarie proibite (finanziamento di prestanomi per mascherare le reali proprietà di Telecinco in Spagna e di Telepiù in Italia) e finanziamenti a partiti e uomini politici tra i quali primeggia Bettino Craxi (21 miliardi sul conto personale Northern Holding). Sulla mega-stecca a Craxi, proprio negli anni 1990-’91, nel pieno della legge Mammì, c’è già una sentenza definitiva della Cassazione, che dichiara colpevoli sia Berlusconi sia Craxi (reato accertato ma prescritto nel 1999). Questo il fatto che, ad avviso del gentile Pecorella, “non crea effetti nocivi e non merita di essere punito “. Resta da capire perché, se erano così regolari quelle operazioni non furono compiute in Italia alla luce del sole e registrate sui bilanci Fininvest, ma furono affidate alla All Iberian che non compariva nei libri contabili, anzi Berlusconi giurò e spergiurò di non averla mai sentita nominare (“Vi pare che uno col mio senso estetico chiamerebbe una sua società con quel nome?”).
Sarebbe bastato poco, per arrivare alla condanna: la denuncia di un azionista contro gli amministratori che gli hanno mentito. Ma, come dice Piercamillo Davigo, dichiarare punibile il falso in bilancio a querela del socio è come dichiarare punibile il furto a querela del ladro. Di solito è l’azionista che trucca o fa truccare i bilanci. Soprattutto in Fininvest, dove l’unico azionista ai tempi del fatto era Berlusconi. L‘idea che si denunciasse per farsi condannare era azzardata. Lui non si denuncia. Lui si assolve. Il pm Francesco Greco aveva chiesto la prescrizione del reato, ma giustamente i giudici hanno preferito l’altra formula: il fatto non è più reato perché l’imputato l’ha depenalizzato. Si è assolto per legge. E un vero peccato che l’autoassoluzione, istituto inedito nel resto del mondo, non sia alla portata di tutti. Sarebbe divertente introdursi a Villa San Martino, a Villa
La Certosa
e a Villa Bermuda per svaligiarne il prelibato contenuto, poi candidarsi al Parlamento e lì depenalizzare il furto con scasso perché “non crea effetti nocivi di qualche rilievo e non merita di essere punito “. Dopodichè, una volta assolti perché il fatto non è più reato, felicitarsi per “la sentenza giusta e attesa” O, come han detto in coro i berluscones, perché “si fa finalmente strada la verità”. O, come ha osservato Scajola, perché “viene demolito un altro mattone del castello accusatorio”. O, come ha notato un giurista del calibro di Landolfi, “è la fine del linciaggio”.


Resta un mistero perché
mai Pecorella
si sia battuto come un leone per scongiurare la prescrizione e strappare l’assoluzione con quella bella formula. Il suo illustre cliente, infatti, ha già ottenuto sei prescrizioni per altrettanti reati accertati (gli ultimi due, per fatti senza “effetti nocivi”come la corruzione del giudice Squillante e un falsetto in bilancio da 1550 miliardi di lire nascosti su 64 società offshore e sottratti al fisco), grazie al gentile omaggio delle attenuanti generiche. E tutte e sei le volte gli avvocati esultarono per la sua “assoluzione” Forse l’ottimo Pecorella ha finalmente scoperto la differenza fra assoluzione e prescrizione. E poi dicono che i processi non servono.


martedì 27 settembre 2005

L'e-mail "imbufalita"

E’ utile avere tra i propri preferiti il sito di Paolo Attivissimo come prevenzione e informazione. Conoscitore e indagatore della Rete, Attivissimo si apprezza per un tipo particolare di indagine che è poi il motivo stesso del consiglio. Vediamo perché.


Per alcuni giorni non ho scaricato la posta e così si sono accumulate varie comunicazioni. Alcune attese, altre interessanti, mescolate con la solita spam che riesce a passare nonostante i filtri. Dopo la consueta e opportuna cernita, un paio di e-mail hanno catturato la mia attenzione. Entrambe diffondevano un appello per la più classica delle catene di sant’Antonio. La prima proveniva da un nominativo sconosciuto e l’ho eliminata senza neppure soffermarmi a leggerla, anche solo per curiosità. Mentre la seconda era stata inoltrata da una cara amica, logicamente inconsapevole e del tutto in buona fede, anche perché queste lettere sono proprio strutturate per colpire l’attenzione, coinvolgere le persone, facendo leva sui sentimenti e sul senso di colpa che potrebbe manifestarsi se non si collaborasse.



Oggetto: Leucemia - Per favore leggete di seguito. Se la cestinerete. davvero non avete cuore.


Salve, sono un padre di 29 anni. Io e mia moglie abbiamo avuto una vita meravigliosa. Dio ci ha voluto benedire con una bellissima bambina. Il nome di nostra figlia è Rachele. Ed ha 10 anni.


Poco tempo fa i dottori hanno rilevato un cancro al cervello e nel suo piccolo corpo. C'è una sola via per salvarla. operare. Purtroppo, noi non abbiamo denaro sufficiente per far fronte al costo. AOL e ZDNET hanno acconsentito per aiutarci.


L'unico modo con il quale loro possono aiutarci è questo: Io invio questa e-mail a voi e voi inviatela ad altre persone. AOL rileverà la traccia di questa e-mail e calcolerà quante persone la riceveranno.


Ogni persona che aprirà questa e-mail e la invierà ad altre 3 persone ci donerà 32 centesimi .


Per favore aiutateci.


George Arlington


In gergo viene definita “bufala” e la cosa migliore che si può fare, se si vuol bene alla persona che, lo ripeto, inconsapevolmente l’ha girata, è quella di spedirle una lettera di smentita, rassicurandola nello stesso tempo e invitandola a diffondere il contro appello, la contro-bufala insomma. Si tratterà di un servizio molto utile.


Questo, infine, è il link per conoscere lo sviluppo di questa e-mail, le sue varianti, gli aggiornamenti intervenuti nel tempo e le “mostruose mutazioni” che costituiscono un vero e proprio attentato ai sentimenti.



http://www.attivissimo.net/antibufala/george_arlington/george_arlington.htm


venerdì 23 settembre 2005

Razza pinocchio

http://imag.ciudadanosnonac.org


Giulio Tremonti scrisse quest’articolo per il Corriere della Sera del 25 settembre ‘91. Il manifesto lo ripubblicò il 14 luglio del ‘94 e lo ripropone oggi (19 luglio 2002) che il condono fiscale riappare in un decreto legge del governo di cui Tremonti è ministro dell’economia.





Il condono, un suicidio fiscale


In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge. Dunque, il governo starebbe per cedere: cedere con fermezza ma cedere. Non è neppure il caso di avviare una discussione sulla morale fiscale di un governo che fa ora ciò che appena ieri ha fermamente escluso perché immorale. E’ piuttosto il caso di passare oltre, per vedere se un condono fatto in questo modo ed in questo momento sia soltanto una scelta di cinismo fiscale, per tirare a campare, o qualcosa di più o di peggio: una scelta di suicidio fiscale. Ebbene, ragionando sulle evidenze è chiaro che si tratta di una scelta del secondo tipo. Per la massa enorme degli evasori le probabilità di essere verificati sono minime (lo dicono le Finanze), le conseguenti liti tributarie si possono tirare in lungo senza costo (lo dicono ancora le Finanze), infine i condoni sono cadenzati ogni decennio: ‘73, ‘82, ‘91. Vuol dire che il rapporto fiscale si basa su questa ragione pratica: farla franca, confusi tra milioni di evasori; farla lunga, coltivando con calma la lite; farla fuori, con poche lire di condono. A differenza che nel resto d’Europa non c’è più, con questo condono, certezza di tassazione con saltuari condoni, ma certezza di condoni con saltuaria tassazione.


In questo sistema smontato e rovesciato, in cui a dettare legge sono proprio i fatti fuorilegge, l’evasione e la furbizia, non bastano i correttivi tecnici che dovrebbero consentire al governo di cedere con fermezza; non bastano la messa a regime dei coefficienti per commercianti ed artigiani, l’abolizione del segreto bancario, la riforma dell’amministrazione. Quella di reintrodurre i coefficienti di redditività, per indurre commercianti ed artigiani a dichiarazioni verosimili, è una tesi a lungo sostenuta sul Corriere, tanto che il documento governativo non solo la realizza, ma usa queste stesse parole. Tuttavia lo fa con ritardo incolmabile; quella sui coefficienti doveva e poteva essere un’operazione iniziale e non terminale, passaggio di graduale risanamento, non posticcio alibi di condono.


Neppure l’eliminazione del segreto bancario è un passaggio risolutivo: che risulti, l’autorità giudiziaria non ha infatti mai negato l’accesso ai conti degli evasori. Solo che, a differenza della Guardia di Finanza, l’amministrazione finanziaria ne ha fatto un uso limitatissimo. Dunque, si tratta soprattutto di una norma-messaggio, messaggio comunque debole, rispetto a quello forte trasmesso con il condono.


La riforma dell’amministrazione finanziaria è infine, in questa fase, negativa. Nel 1971 si è fatta la riforma delle imposte, senza quella dell’amministrazione. Ora si fa il contrario ma così si finirà soltanto per accrescere la popolazione dei pubblici parassiti Senza contare che, attuata in un momento di crisi fiscale gravissima, così si destabilizza il fisco.


Dall’unità d’Italia manca il precedente di una politica tributaria come questa, una politica che è riuscita a fare due cose opposte: legittimare l’esplosione di spese coperte da entrate inventate, far cadere le entrate da autoliquidazione, che presuppongono una fiscalità autorevole e non ridicolizzata da continue improvvisazioni e contraddizioni. A questo punto una sola cosa è certa, che questo governo tira a campare, ma il prossimo scompare sotto il disastro della finanza pubblica.


lunedì 19 settembre 2005

Primo giorno


www.delfo.forli-cesena.it


“Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla Sezione Baretti a farmi inscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s'accalcava tanta gente che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgombra la porta...


Lo rividi con piacere quel grande camerone a terreno, con le porte delle sette classi, dove passai per tre anni quasi tutti i giorni. C'era folla, le maestre andavano e venivano. La mia maestra della prima superiore mi salutò di sulla porta della classe e mi disse: - Enrico, tu vai al piano di sopra, quest'anno; non ti vedrò nemmen più passare! - e mi guardò con tristezza...


Al pian terreno, dove s'eran già fatte le ripartizioni, c'erano dei bambini delle prime inferiori che non volevano entrare nella classe e s'impuntavano come somarelli, bisognava che li tirassero dentro a forza...


Il mio piccolo fratello fu messo nella classe della maestra Delcati; io dal maestro Perboni, su al primo piano. Alle dieci eravamo tutti in classe: cinquantaquattro: appena quindici o sedici dei miei compagni della seconda, fra i quali Derossi, quello che ha sempre il primo premio. Mi parve così piccola e triste la scuola pensando ai boschi, alle montagne dove passai l'estate!...


Io dicevo tra me: - Ecco il primo giorno. Ancora nove mesi. Quanti lavori, quanti esami mensili, quante fatiche! - Avevo proprio bisogno di trovar mia madre all'uscita e corsi a baciarle la mano. Essa mi disse: - Coraggio Enrico! Studieremo insieme. - E tornai a casa contento...”



Sono per forza di cose sfumati e in dissolvenza, i ricordi legati al mio primo giorno di scuola: 1° ottobre 1963 (nel romanzo di De Amicis è invece datato 17 ottobre) che riaffiorano in questo periodo mentre si completa il ritorno tra i banchi e ogni volta che passo davanti alla mia scuola. O meglio all’edificio, da anni trasformato in ufficio postale e ludoteca al piano terra; in biblioteca e sala convegni al primo piano.


Di quel tempo sono rimaste solo le mura esterne e le scale, quelle che certamente, con passo incerto e mille curiosità, salii quella mattina per entrare nella grande aula a pianterreno che avrebbe ospitato un numero elevato di alunni. Non cinquantaquattro naturalmente, ma almeno una trentina sì. Molti di quei bambini e di quelle bambine li conoscevo già, avendoli avuti per compagni di giochi alla scuola materna o asilo infantile. Altri avevano volti sconosciuti e anche atteggiamenti che, a quel tempo, mi apparvero insoliti.


Rammento anche la maestra, un donnone con un vocione severo e dai modi sbrigativi che, non so per quale motivo, trovò ospitalità preso una famiglia nello stesso condominio dove abitavo.


Non ebbi mai bisogno di suoi consigli extra scolastici. Infatti, andai in prima elementare sapendo già leggere e scrivere grazie al maestro Manzi e alla sua storica trasmissione: “Non è mai troppo tardi”. A pensarci, ora, dovette anche essere un anno piuttosto noioso, perché molto di quello che c’era da imparare io lo avevo appreso e non credo disponessi, allora, della pazienza necessaria per attendere pure i progressi degli altri.


Il libro “Cuore” lo ricevetti in regalo in seconda elementare, quando cambiai aula trasferendomi al primo piano e proprio lì, in quei luoghi, raffigurai mentalmente ogni episodio raccontato dal giovane Enrico.


Di sicuro mai avrei potuto immaginare che, molti anni dopo, ci sarebbe stato da ricordare, in modo assai meno suggestivo, un altro primo ottobre, un altro primo giorno, quello di cassa integrazione possibile seppure, mi auguro, poco probabile.



giovedì 15 settembre 2005

Comiche italiane

www.segnalidifumo.it  www.freccecche.it




di ALESSANDRO ROBECCHI


da "il manifesto" dell' 11 settembre



Non sarei così sicuro, come ostentatamente si mostrano tutti, sul fatto che la vicenda Fazio-Bankitalia danneggi l'immagine dell'Italia. Credo invece che presso i comici di tutto il mondo, gli scrittori satirici, i clown da circo, gli architetti di paradossi e persino tra gli esegeti più o meno interessati dei linguaggi del potere, stiamo guadagnando parecchi punti. Perché il paradosso di Palazzo Koch è davvero formidabile, e la parabola del banchiere di Alvito, pio e devoto come pochi, si avvia a diventare degna di narrazioni bibliche, di un'aneddotica che supera i confini delle banche, dell'economia, della politica, per diventare strabiliante metafora delle contorsioni del potere. Attenzione non della pochezza del potere, ma della «tantezza» del potere. Già, ecco la storia. Esiste un potere (il governatore di Bankitalia) che nessuno può cacciare e destituire, se non lui medesimo. Esiste un potere a cui si chiede - ormai quasi in ginocchio, implorandolo - di autoriformarsi, insomma di tagliarsi le palle da solo (scusate il francesismo), essendo tutti gli altri poteri inidonei a compiere il lavoretto di cesoie, sia pure con la sacrosanta anestesia. Il premier di un paese che chiede ai banchieri europei di cacciare il suo proprio banchiere centrale non può che far ridere. La risposta dei banchieri europei - prenditi le tue responsabilità e caccialo tu - è ancora più esilarante. Le proposte di cacciarlo tutti insieme, cioè di far fare al Parlamento quel che non vuole o non può fare il governo fa, se possibile, più ridere ancora, come se il paese intero concordasse il coro, uno, due, tre, coraggio tutti insieme: vattene! Il ministro dell'economia attuale, che sostituì quello creativo capace solo di far danni, che fa marameo al suo governo nazionale per sostenere i banchieri europei nel loro corale marameo è da antologia. Il Renato Brunetta che scarica Siniscalco e rivuole Tremonti fa ridere fino alle lacrime. Le centinaia di articoli della stampa economica mondiale che chiedono a Fazio di andarsene e che restano lettera morta e inascoltata, sono un altro potere forte che si dimostra debole e inutile. Un poterino locale e bifolco come
la Lega
, che non ha nemmeno il quattro per cento dei consensi - ma al quale è stata salvata una banchetta pellegrina e fallimentare - ottiene quel che vuole, cioè che tutti gli altri poteri risultino impotenti, mentre le sorti della banca centrale della settima (sesta? ottava? centoundicesima?) potenza economica mondiale rimangono appese a decisioni prese intorno al pentolone della polenta in qualche baita cisalpina. E non dimentichiamo il tassello ultimo, che vale da ciliegina sulla torta: Opus Dei, Vaticano, figlie suore dei Legionari di Cristo (occristo!) e cardinali amici. Dico: serve qualcos'altro per innalzarci alla grande sul gradino più alto di tutto il ridicolo del mondo? 
Ora, è possibile che nel ridicolo molti abbiano i loro torti e le loro ragioni. Ma si tratta di cose tecniche, di procedure, di prassi più o meno consolidate. Se si vede la questione da fuori, invece, dall'alto e dalla distanza siderale che separa le vite normali dei cittadini dalle alchimie delle segrete stanze del potere, la vicenda è strepitosamente avvincente come una pièce di teatro dell'assurdo. Vedere tutti quei poteri immensi e spaventosamente potenti che si arrabattano e si disperano nell'incapacità di cacciare un potente dovrebbe essere una lezione per tutti (e pure per il potere, se si degnasse ogni tanto di ascoltare qualche lezione). Ma soprattutto, vien da pensare, se la famosa Europa, il governo con la più grande maggioranza della storia italiana, l'opposizione che è ormai maggioranza nel paese, la stampa economica e finanziaria,
la Confindustria
, i sindacati, il ministro dell'economia, e altre centinaia e centinaia di poteri non riescono né con le buone né con le cattive a cacciare un potente, che vorrà dire? Che quel potente è troppo potente oppure che tutti gli altri poteri sono, alla fine, parecchio impotenti? La favola di Palazzo Koch e del pio uomo di Alvito continuerà ora per chissà quante puntate e conterrà chissà quanti colpi di scena, e il ridicolo si sommerà al ridicolo fino a esaurimento scorte. Dopotutto, in fondo in fondo, alla fine della fiera, non è esattamente questo, il potere?

martedì 13 settembre 2005

Parodia di un processo per stupro-2

blog.virgilio.it/infanziaviolata


L'indomani mattina, cioè oggi (26 agosto n.d.b.) il bravo Protection Officer si ripresenta al tribunale alle 10, come da orario annunciato, accidenti a lui e ai due anni e mezzo passati a Ginevra. Ovviamente non c'e' nessuno. Si sono persino dimenticati di mandare la convocazione al medico di MSF. Ci pensa il bravo Protection Officer che recapita la missiva e ritorna con il Field Coordinator francese, la dottoressa colombiana e il paramedico liberiano che ha riempito il certificato. Ancora non c'e' nessuno.


L'udienza comincia con un ritardo di soli 50 minuti sull'orario previsto. Si procede ad ascoltare la testimonianza del paramedico liberiano di MSF al quale viene richiesto di giurare su un libricino delle dimensioni di un bignami che apprendiamo essere
la Bibbia
(me la ricordavo più grande l'ultima volta che l'ho vista, ma forse ero io che ero piccolo, mah). Dopo aver baciato il testo sacro, il paramedico conferma il contenuto del certificato da lui riempito.


A quel punto, la difesa gioca il suo asso e mette alle corde il teste sfruttando il fatto che il giochino del dito non ha provocato sangue. Il PM incassa il colpo. L'accusa rincara la dose e sfodera citazioni da alcuni testi giuridici incartapecoriti, tra i quali, la chiave di volta dell'udienza, un passo della Genesi in cui si parla di stupro. Il bravo Protection Officer trasecola:
la Genesi
?? Quella di Adamo ed Eva?? O cazzo sacro, siamo a posto. Il Field Coordinator di MSF suda, sorride nervoso ma e' preoccupato per il suo collega in difficoltà, la dottoressa colombiana di MSF mi guarda interdetta e sembra dirmi: "No, yo no la traje' la coca".
La Genesi.


La mossa vincente della difesa e' la definizione di stupro contenuta nella Genesi. Va beh che anche la donna l'ha creata l'onnipotente, però pensavo che la definizione di certe porcate l'avesse lasciata agli esseri umani. Che avrebbe detto Previti se fosse stato condannato in base a un versetto del vangelo secondo Giovanni? E quale poi? "Non sappia la sinistra quel che fa la tua destra?" (in realtà non so se dica esattamente così, ne' tanto meno se sia secondo Giovanni, ma fa lo stesso, vero?).


Intanto il giudice infierisce sul teste col risultato di mandarlo in confusione totale. Allora minaccia di incarcerarlo per spergiuro e gli infligge un'ammenda di 100 dollari liberiani (poco meno di 2 dollari americani). Il bravo Protection Officer trattiene Francois che nel frattempo ha mandato qualcuno a comprargli un kalasnjikov al mercatino sull'altro lato della strada e sta armeggiando attorno al caricatore. Dopodichè, il bravo Protection Officer va dal giudice e con tono affabile gli dice che forse c'e' un malinteso e che il paramedico non ha fatto nulla di male.


I sottotitoli nella versione italiana recitano: "Razza di coglione rugoso, avete fatto un casino della madonna con le domande più cazzute dell'anno lunare e ve la pigliate con questo povero cristo?". Il giudice spara una martellata isterica sulla scrivania che ormai comincia a lacrimare e richiama indietro il paramedico dicendo che sarà clemente. Francois ripone il kalasnjikov. La dottoressa colombiana ripone il sacchetto di coca.


A quel punto, il giudice, vinto dalla retorica scoppiettante del difensore, ma soprattutto schiacciato dalla valenza giuridica della parola d'iddio, dichiara che l'indiziato non può essere perseguito per stupro. Il difensore perde il controllo e fa ampi gesti con le mani che vogliono dire "E' fatta" o forse "Te l'ho messo in culo io stavolta, PM dei miei coglioni", o forse "Cazzo, mi si ripropone il serpente allo spiedo di ieri sera". Il PM rimane seduto composto. Non russa.


Il giudice, che si sta arrotolando intorno a una lunga frase che pare preludere all'assoluzione, con il bravo Protection Officer che nel frattempo si e' impadronito del kalasnjikov di MSF e si sta chiedendo come mai facciano le impugnature così lunghe e sottili e con un buco in cima, all'improvviso pronuncia un sonoro "però!" (but!) seguito da una breve pausa teatrale che catalizza l'attenzione della platea. Questo deve aver appreso la professione guardando “Forum”. "Alla luce del rapporto medico e della testimonianza della bimba appare evidente che qualcosa e' successo". Tutti trattengono il respiro. Il che non e' neanche male, dato l'odore di sudore che aleggia nell'aria. E questo qualcosa, continua il Perry Mason dell'Africa occidentale, il Matlock della foresta pluviale, e' sufficiente per qualificare il reato di tentato stupro!


Il bravo Protection Officer capisce che quella e' la canna del kalasnjikov e non l'impugnatura ma ormai e' ora di riporre l'attrezzo. Il giudice si e' salvato in corner. Con i minuti di recupero, magari si riesce a portare a casa un buon risultato. E infatti il giudice dispone la carcerazione del soggetto e il suo trasferimento alla corte superiore di Sanniquellie, la capitale della contea, responsabile per giudicare crimini di questa e altra gravità che vanno dall'omicidio, alla strage, fino ai sacrifici umani e alle scoreggie sui minivan iperaffollati che percorrono le piste della contea.


La martellata che si abbatte sulla scrivania fa gemere di dolore quest'ultima in maniera percettibile agli uditi più sensibili, sopravvissuti agli schianti precedenti. La seduta e' tolta. Il ritorno si giocherà a Sanniquellie in data da destinarsi.







 

Parodia di un processo per stupro

www.cineforum.bz.it


Lo ha definito “uno sfogo un po’ ironico dopo 16 mesi di permanenza in questo strano pianeta” L. è un amico conosciuto in un blog due anni fa, quando lavorava a Ginevra con UNHCR, l'ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR e' l'acronimo in italiano). Il suo titolo – come mi racconta – “e' Protection Officer, ruolo cardine in un'organizzazione il cui mandato e' quello di garantire international protection ai rifugiati”. In sostanza si occupa di “verificare che i diritti fondamentali dei rifugiati, sanciti dalla Convenzione di Ginevra sullo stato dei rifugiati del 1951 e successivi strumenti, siano rispettati dal paese ospitante. Si tratta anche di assicurare la distribuzione di assistenza umanitaria e di mettere in atto misure che ne favoriscano il più possibile la pacifica integrazione nella società”, accertando, infine, “che le autorità locali garantiscano il rispetto dei diritti umani fondamentali”.


Dalla Liberia ha trasmesso a un gruppo di amici una lunga e drammatica testimonianza, sotto certi aspetti cruenta e ironica, come appunto l’ha classificata. Dopo aver ottenuto da lui una sorta di liberatoria la rigiro in questo spazio integralmente, vale a dire senza alcun tipo di aggiunta o correzione da parte mia, neppure per attenuare la coloritura del linguaggio. L. è persona di alto profilo che sperimenta in presa diretta cosa significhi vivere in quella parte del mondo perennemente in via di sviluppo, dove l’abbruttimento morale, esasperato dalle condizioni di vita, conduce verso una desolante deriva. Lo sottolineo per troncare alla radice considerazioni di tipo razzistico che sarebbero, riferite a L., un ossimoro.


Si tratta, infine, di un post che, a causa della lunghezza, ho diviso in due parti. La seconda l’aggiungerò nel pomeriggio odierno.


E scusate il ritardo.


"Oggi (25 agosto n.d.b.) ho assistito per la prima volta a un processo in Liberia. Per la verità, e' la prima volta che ho assistito a un processo, se si escludono svariate puntate di “Un giorno in Pretura”, alcuni annetti fa, quando ancora stavo in Italia.


Sabato scorso, un rifugiato del campo di Saclepea ha pensato bene, previa offerta di una banana (il frutto, niente ironie prego) per ingraziarsi la vittima, di ravanare con le dita dentro una bimba di sei anni. Mi hanno chiamato verso le 19.30 che già mi stavo preparando per andare a cena da MSF per dirmi che la folla voleva sbucciare e mangiarsi il suddetto. Ci siamo precipitati al campo per calmare le acque, mandare la bimba alla clinica di MSF e scortare il tizio alla polizia. L'esame medico ha confermato il fatto, surrogato anche dalla testimonianza molto precisa della bimba.


Finalmente, ieri mattina, un po’ oltre le 72 ore canoniche previste per la carcerazione preventiva, ma, si sa, gli orologi qui non e' che funzionino gran che, il soggetto compare davanti al GIP di Saclepea per l'udienza preliminare. Da bravo Protection Officer mi tocca essere li' per assicurarmi che all'indiziato sia garantito un processo più o meno equo.


La parte lesa e' presente e il giudice pensa bene di intimarle di sedersi sulla panca in prima fila, da sola, accanto al gentiluomo che qualche sera prima si era preso con lei qualche libertà di troppo. Primo sussulto del bravo Protection Officer: "Ma che cazzo fate?", sbotta in italiano ma con tono sufficientemente seccato per farsi capire. Il giudice lo guarda sorpreso, allorché il bravo Protection Officer articola il concetto facendo presente che magari non era il caso che la bimba sedesse sola e soprattutto a stretto contatto con il tipo. “Eh già”, dice il giudice che scemo non e' e autorizza quindi i genitori a sedersi sulla stessa panca costringendo tutti a “sandwicciarsi” in maniera indegna.


Il giudice procede da bravo a informare l'indiziato di aver diritto a un avvocato come prevede la costituzione della repubblica della Liberia. Mi lancia uno sguardo interrogativo, gli rispondo con un leggero cenno compiaciuto del capo del tipo: "Bravo ciccio, era il minimo che potessi fare, mortacci tua". Ora, trovare un avvocato a Saclepea, per giunta senza preavviso, e' come trovare un leghista che paga le tasse in provincia di Varese. Ci sono solo i due che stavano già litigando in un angolo su chi avrebbe fatto il PM e chi gli avrebbe aperto i codici. I due si guardano, ghignano mostrando ampie caverne tra gli incisivi ingialliti e si mettono d'accordo come i ragazzini che giocano a guardie e ladri.


Intanto, alla faccia della privacy, il pubblico si ammassa alla porta e alle finestre della stamberga che ospita il tribunale per vedere quella a cui hanno infilato le dita e quello che ha infilato le dita. Questa volta, lo sguardo misto tra il supplichevole e il minaccioso del bravo Protection Officer si scontra contro la naturale indifferenza del giudice che, non pare affatto disturbato dalla presenza di tanti curiosi e dall'odore di sudore che corrode le narici.


Iniziano subito le schermaglie tra accusa e difesa che paiono aver preso tremendamente sul serio i rispettivi ruoli. Con un inglese orrendamente deformato da un formalismo esasperato e dal terribile accento liberiano che scivola tra le caverne degli incisivi ingialliti dibattono su cosa sia da considerarsi stupro. Il difensore sostiene che, siccome l'indiziato non ha usato il pisellone, lo stupro non sussiste, al massimo si può parlare di molestie. Il PM ribatte che l'uso del pisellone non e' necessario per determinare lo stupro. Il bravo Protection Officer annuisce con discrezione come a dire: "Ragazzi, non facciamo scherzi. Un dito infilato in una bimba di 6 anni e' stupro, non ci son cazzi".


Il giudice da ragione al PM e procede con l'interrogatorio della bimba che, contrariamente alle aspettative, con la sua vocina sottile, senza tentennamenti racconta quello che le era successo il sabato precedente. Il difensore vuole sapere da lei se il tizio le ha fatto qualcosa col pisellone. Il bravo Protection Officer lo fulmina con uno sguardo da apartheid. Il PM obietta. Il giudice accoglie l'obiezione e quasi manda affanculo il difensore che bestemmia qualcosa nel dialetto locale. Il PM ride. Anche il giudice sghignazza. Il pubblico, che aveva già ghignato ogni volta che si nominavano pisellone e patatina, segue a ruota. Il bravo Protection Officer, a disagio, si immagina a capo di un drappello di Boeri nel Sudafrica della seconda metà dell'800 di passaggio in un villaggio di Zulu ribelli.


Nel frattempo, nessuno si e' preso la briga di tradurre in yakuba per indiziato e parte lesa il dibattimento. Quella che avrebbe dovuto fare da interprete se ne sta in piedi accanto alla panca, gettando occhiate imploranti verso i rappresentanti della comunità dei rifugiati che siedono in fondo alla sala, a due metri da lei, con l'aria di un bambino che non sa la parte alla recita di fine anno: "Ma che devo di'? Che ce sto affa' qui? Che stanno a ddi'?". Il bravo Protection Officer s'incazza e chiede una pausa per permettere all'avvocato difensore in collaborazione con un po' di gente del posto di fare una specie di riassunto per spiegare all'indiziato che cazzo sta succedendo. Il giudice comprensivo accetta. La pausa dura quasi 40 minuti, di cui solo 2 sono utilizzati per spiegare al tipo che e' abbastanza nella merda.


Al rientro del giudice, il bravo Protection Officer, che ha ormai scaldato il cucchiaino e preparato la siringa, sta cercando la vena giusta. La ripresa del dibattimento lo costringe a mollare tutto. Dopo pochi minuti, durante i quali ha battuto col martello di legno sul tavolo una dozzina di volte, facendo sobbalzare tutti e provocando attacchi di prurito isterico a una dozzina di persone, un anziano entra trafelato pretendendo di parlare subito col giudice. La risposta del giudice, urlata indecentemente, viene coperta dal battere fragoroso del martello sulla scrivania che comincia a mostrare crepe evidenti.


Tradotta dal dialetto Ghio all'italiano deve essere suonata più o meno così: "Vecchiaccio del cazzo, ti faccio sbudellare e farcire come un maiale selvatico se non ti togli di qui veloce come una scoreggia!". Lo deduco dall'agilità con cui il vecchio, un po' male in arnese, salta il gradino e schizza fuori tra le risate del pubblico ormai completamente catturato dalla sceneggiata che si sta svolgendo sotto i loro occhi.


Il PM produce il certificato medico rilasciato dalla clinica di MSF. Nessuno ci capisce un cazzo. Tutti concordano che sia meglio convocare il mattino dopo il medico che l'ha compilato. Il giudice e' d'accordo e sospende la seduta vibrando una terrificante martellata sulla scrivania ormai pericolante.


La seduta, che doveva cominciare alle 10 ma che ha avuto inizio alle 10.30, si conclude alle 13.45. Qualcuno fa capire all'indiziato che deve rientrare nella sua comoda cella 50x30 (centimetri). La folla si disperde".


 

mercoledì 7 settembre 2005

Una piccola storia tricolore

R. e A. si sono sposati il 2 giugno 2003. R. è un collega al quale mi uniscono non solo la prossimità degli uffici, ma anche il comune sentire. Immancabile è il commento sintetico sui fatti quotidiani da lui filtrati attraverso l’ironia e la demolizione dei luoghi comuni.


Tuttavia, da un po’ di tempo, un rovello lo tormenta ed è inevitabile che me ne renda partecipe. Ha infatti appreso che dal 2004 è stata promossa un’iniziativa dal Capo dello Stato relativa alla festa della Repubblica e al tricolore. R. saprebbe bene, come buona parte dei cittadini, quale uso fare della bandiera italiana. Non è un leghista, ha rispetto per le istituzioni, ma il cruccio per non rientrare nel piano, più ci pensa e maggiormente cresce. Ne parla anche a lungo con la moglie, mi accenna qualcosa, infine si decide e scrive:


“Egregio Presidente della Repubblica, Le scriviamo queste poche righe per esprimerLe tutta la nostra approvazione per
la Sua
iniziativa legata alla festa della Repubblica. Abbiamo infatti saputo che dall’anno 2004 alle coppie che si sposano il 2 giugno viene donato il tricolore.


Pensiamo che tale omaggio sia un gesto molto educativo, ad alto contenuto patriottico, con cui sensibilizzare i giovani, specialmente in questi anni così tormentati dove il valore della vita sembra essere meno forte di quello del recente passato. Anche noi, sposi il 2 giugno 2003, ci sentiremmo pregiati ed onorati di ricevere e custodire tale segno.


RingraziandoLa anticipatamente, ci scusiamo per averLa distolta dalle Sue primarie attività, certamente più importanti ed impegnative e l’occasione ci è gradita per porgerLe cordiali saluti.”.


Nell’epoca di Internet le comunicazioni viaggiano veloci per e-mail e così accade anche per questa lettera, dal sapore romantico, che richiama alla mente certi racconti mensili del libro “Cuore”. E mentre sul Web viaggia questa speranza inizia anche la fiduciosa attesa, contrappuntata quasi quotidianamente, dal suo personale monitoraggio sulle giornate del presidente Ciampi. R. ne diventa sfegatato supporter, quasi intravedendo nelle sue mosse un segnale beneaugurante.


La suggestione, si sa, talvolta distorce ed amplifica una situazione, ma perché mai disilludere un amico? Partecipo, quasi con affetto, a questa sua attesa. dissimulo le personali perplessità sulla bontà dei contatti tra cittadino ed istituzioni (e quale istituzione poi!) e provo a condividere con lui l’aspettativa (indeterminata) che si è creata.


Alla fine di luglio le immagini televisive diffondono un Ciampi, che sguazza nelle acque della Sardegna, dove ha iniziato le sue vacanze. E’ naturale pensare a quella lettera galleggiante su qualche scrivania, ma infondo speranza a R.. “Dopo tutto – osservo – adesso sai che è in ferie e al ritorno si occuperà degli arretrati”. Ma non è facile persuadere qualcuno della propria mancata convinzione.


Qualche giorno più tardi, invece, la felicità precede il suo rientro pomeridiano. “Un pacco, un pacco! – si agita estasiato – in fondo alle scale”. Così racconta, con una certa emozione, che l’ha subito prelevato e trasportato in casa, dove ha letto incredulo il nome del mittente e poi ha srotolato la bandiera italiana leggendo, ne sono certo commosso, alla moglie, la breve lettera di accompagnamento, datata 1° agosto e firmata dalla responsabile dell’Ufficio per la stampa e l’informazione della segreteria generale della Presidenza della Repubblica.


“ Gentili R. e A., rispondo alla cortese lettera del 19 luglio u.s. che il Presidente Ciampi ha letto volentieri e che ha molto apprezzato.


Sono molto lieta di esaudire il Vostro desiderio. Troverete, insieme con questa mia, una speciale edizione del Tricolore nazionale, che Vi affido insieme agli auguri più fervidi di ogni bene e un saluto tanto cordiale”.


Per sciogliere la melassa di unità nazionale, ho provato a prenotare la bandiera per il prossimo Mondiale di calcio, che si svolgerà in Germania nel 2006, ma una sua bruciante occhiata è stata eloquente. Sono però riuscito a strappare la promessa che se l’Italia... Sì, insomma (taccio per scaramanzia) allora la esporrà al balcone.

domenica 4 settembre 2005

Repetita juvant

. www.krancic.it


L'articolo (una piccola chicca) che qui riposto, traendolo dall'altro mio blog: www.vivamarcotravaglio.splinder.com, ben si presta ad un utile ripasso del nostro recente "come eravamo", visto che il soggetto protagonista è ancora a piede libero. Lo scrisse Corrado Augias su “
la Repubblica
” del 29 giugno 1991.


Ha senso raccontare quello che sto per raccontare? O attribuisco importanza simbolica a un episodio che in realtà non la possiede? Lascio al lettore il giudizio. Domenica sera verso le 22,15, nel solito ristorante alle spalle della direzione socialista, i camerieri sono entrati in agitazione, e i clienti con loro. Trattandosi di un locale frequentato da habitués d’alto rango, tutti avevano capito quello che stava per succedere. L’unica incognita era chi esattamente fosse la personalità che stava per scendere. Questione di pochi minuti. Si trattava del ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, accompagnato da alcuni amici e amiche, una decina di persone in tutto, che entra per cenare col suo passo svelto, ravviandosi i lunghi capelli, lo sguardo saettante dietro gli occhiali.


Il ministro e i suoi commensali hanno preso posto e poiché la serata era molto calda, il ministro s’è subito messo in maniche di camicia. A un tavolo della saletta antistante si sono piazzati quattro uomini della scorta. Altri due si sono seduti dietro l’ingresso. I primi hanno cenato, questi ultimi no. Il pasto è cominciato in un’atmosfera gaia fatta di risate femminili, di commenti maschili. Il ministro contrariamente al suo solito parlava tutto sommato poco. Forse era solo stanco, sembrava più che altro concentrato sul cibo e attento alle chiacchiere che, come in ogni tavolata del mondo, s’intrecciavano fitte intorno al commensale più importante in un discreto acciottolio di stoviglie, nel solito andirivieni di cibi e di bottiglie.


Attorno al tavolo più donne che uomini, alcune di loro carine. Un paio in minigonna, una tutta in rosso, abito molto mini, molto aderente, quasi strizzato addosso. Sul tavolo, tocco finale, un telefonino. Ho riferito questa scena tutto sommato semplice, perché nonostante 1’assoluta innocenza dell’insieme, da quella tavolata si sprigionava un’atmosfera sgradevole, anzi decisamente irritante. Sedevo in vista della tavolata del ministro e tuttavia separato dalla vetrata che taglia in due il ristorante. Nel relativo silenzio della mia parte sala, non pienissima, ho colto due brevi commenti, niente più che due battute, che sono poi all’origine di questo articolo. La prima frase, secca e feroce, è stata: “I nuovi fascisti”. La seconda: “Quindici persone in tutto compresa la scorta, chissà chi paga il conto”. Risposta: “Lo paghi tu, scemo”.


Personalmente sono convinto della sostanziale ingiustizia e improprietà di quei due commenti pronunciati a mezza voce in un misto di divertimento mondano e di rabbia. Vale la pena di riferirli solo perché, qualche domenica fa, c’è stato un *referendum che ha dimostrato fino a che punto è arrivata l’intolleranza della gente comune verso scene di quel tipo. Un’intolleranza, una sazietà, che chiunque di noi aveva sentito e continuamente avverte nell’aria, e che invece ai leader del partito socialista, a cominciare dal suo segretario, era completamente sfuggita.


Se il ministro Gianni De Michelis leggerà questa nota, probabilmente si chiederà: ma insomma che cosa vogliono da me? Forse che uno, solo perché è ministro, non può andare al ristorante con alcuni collaboratori e collaboratrici? E cenare insieme a loro? Come può fare chiunque altro? A cominciare dai giornalisti?


E’ sempre molto difficile, per chi agisce in buona fede, capire perché un proprio comportamento risulta agli altri, magari a torto, fastidioso o scandaloso. Sicuramente il ministro De Michelis non ha minimamente pensato che lo spettacolo della sua tavolata sembrava un set del film: ” Il portaborse” pronto ad essere girato, compresa una controfigura dai capelli molto disordinati, il viso segnato dalla barba e dalla stanchezza, al suo posto. Le ragazze del tavolo sicuramente non erano consapevoli di apparire, nei loro attillati abitucci estivi, nell’evidente smania di mettersi in mostra, persone di pasta inferiore a quella che sicuramente darà forma alla realtà delle loro vite. I signori del tavolo, certamente impegnati per l’intera giornata su questioni della più grande importanza, rifiuterebbero con ogni ragione la spregiativa qualifica di portaborse. Eppure quella era l’impressione. Lo sconosciuto cliente del ristorante che ha borbottato:” I nuovi fascisti”, ha sbagliato il giudizio politico ma ha colto l’apparenza delle cose. Giudicando in base alla sola apparenza, nulla distingueva quel tavolo da quello di un gerarca del ventennio. Dicono che Galeazzo Ciano tenesse quasi quotidianamente una mensa di quel tipo, formata proprio allo stesso modo più donne che uomini al ristorante dell’ Hotel Ambasciatori di via Veneto.


E’ accaduto che il degrado del sistema e delle istituzioni politiche, l’universale disistima che circonda coloro che lo incarnano, hanno fatto prevalere lapparenza sulla sostanza delle cose e, tra le apparenze, quelle peggiori. Poiché la professione della politica, come ogni mestiere svolto davanti al pubblico, vive anche di apparenza, i commenti salaci dei clienti di quel ristorante, per ingiusti e sbagliati che fossero, devono essere presi e riferiti per ciò che sono: un minimo campione statistico di uno stato d animo generalizzato, come i risultati dell’ultimo referendum dimostrano. Dal che si può ricavare la moralità conclusiva che, stando così le cose, è meglio che il ministro De Michelis le sue cene le consumi in luoghi più discreti e protetti. Sarà uningiustizia ma se i tempi sono quello che sono è anche colpa sua, quindi si adegui.


*Riduzione preferenze Camera dei Deputati 9 giugno 1991

 




 




 




 



venerdì 2 settembre 2005

Odissea

www.bonalumi.it


Questa mattina un quotidiano locale ha bruciato la concorrenza sbattendo la notizia in prima pagina, così nel giro di un’ora tutti in azienda lo sapevano. L’immagine di una vergine che abbia perduto la sua virtù è stata la prima a irrompere. Adesso tutti sanno e, cadute le vesti, la giovane offre le sue nudità, non più pudica, alla morbosa curiosità di chiunque. Forse perché l’azienda è stata sempre riservata, aliena dalla pubblicità (che solo negli ultimi anni ha cominciato a rincorrere tramite le sponsorizzazioni) al punto che lo stabilimento non porta nessuna insegna identificativa di fronte o sul tetto. All’ingresso si trova una targa, modesta nelle dimensioni, che conferma che sì, la ditta è proprio lì.


Ecco perché la diffusione pubblica di una notizia che, comunque, privata non poteva restare per molto tempo, ha percorso come un fremito tutta la comunità aziendale, simile al vento che increspa il mare. “Adesso è proprio vero” - sembravano confermare le reazioni di alcuni -  perché ne parleranno in tv, durante i notiziari regionali (come infatti è avvenuto). E domani ci sarà la prima pagina locale, nostro malgrado, quasi additati alla pubblica opinione come untori? O mentecatti? Oppure sfigati? Persino commiserevoli?


Si lavora, in questi giorni, più alacremente che mai, quasi a voler esorcizzare lo spettro che incombe, come se l’operosità mostrata possa costituire un certificato per assicurarsi la permanenza. E dai discorsi, dai capannelli spontanei che germogliano, è stata bandita ogni altra argomentazione. I volti si fissano interrogativamente, ogni parola è ponderata oppure esasperata. Ci si aggrappa ad ulteriori, presunte anticipazioni, alle novità da chi sa, vero o falso che sia l’estemporaneo portavoce. Così emerge che, il trasferimento di un impiegato da un reparto (quello da smantellare) ad un altro, attuato con tempestiva solerzia, sia puntellato da una robusta raccomandazione di ferro (addirittura) e diventa, perciò, di fatto intangibile. E’ stato messo in salvo con l’acquisito status.


Arriva poi un altro che ci tiene a far saper che dei dirigenti attualmente a libro paga, ne saranno falciati (i termini sono cruenti) nove. Mormorio di approvazione. Apostrofando un dipendente che passa c’è chi, ancora più macabro, lo indica come un “candidato all’obitorio”, intendendo dire che è in cima alla strampalata lista di epurazione che sta elaborando.


Uno dei ragazzi che lavora nel reparto più “caldo” e si era sposato due mesi fa, potrebbe essere omaggiato da un regalo di nozze ritardato e inatteso. Un collega filosofeggia, per celia, che aveva  scommesso,  un po’ di tempo fa, se sarebbe morto prima il padre oppure l’azienda. Con il genitore (da alcuni mesi malato) la vertenza si è conclusa all’inizio delle ferie d’agosto. Ma, poi, confessa che, appunto la disgrazia, ammortizza il senso di disagio per la situazione lavorativa. Sfuma i contorni di ogni cosa, privandola di dettagli e, dunque, anche d’importanza. Lui dovrebbe “salvarsi”, comunque. Un altro si avvicina a me con gli occhi arrossati. Mi capita di vederne fin troppi, in questi giorni, mentre “si avvicina l’asciutto silenzio della resa” (Alfonso Gatto).


Passa il mio responsabile di funzione, chiede a noi se ci sono novità. Lui e gli altri omologhi saranno convocati a breve, dalla direzione, per spartirsi il pacchetto di risorse umane. A ciascuno il suo. A lui, forse, niente. Trattandosi del reparto “Assicurazione Qualità”, dovrebbe anzi incrementare la pattuglia ai suoi “ordini”, considerando che buona parte della produzione verrà esternalizzata (termine che aborro, confliggendo con la lingua italiana, ma è quello in voga) e dunque i controlli, funzionali ed estetici, cresceranno. Gli riportiamo il pensiero collettivo che non invidia la sua posizione, qualora dovesse scegliere e assomiglia tanto ad una captatio benevolentiae. Stravolti anche gli atteggiamenti.


Un lampo mi squarcia la mente: potrei aprire un blog. Il sobrio titolo è subito pronto: “Inkazzati”. Tanto per rendere l’idea. Poi il clangore si placa. E si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.