sabato 29 gennaio 2005

Incontri

Quando questa mattina, alle 8:30, sono uscito di casa, doveva aver smesso di nevicare da poco. Fitti ricami di arabeschi bianchi erano stati disegnati sui cancelli, mentre i rami degli alberi sfioravano il suolo sotto il peso della neve caduta in grande quantità. Il cielo era uniforme nel suo grigiore, offuscato da quella sorta di foschia che prefigurava nuovi rovesci. L’aria era frizzante, lo sguardo abbagliato dal chiarore della bianca coltre: un buon risveglio assicurato. Ed è stato allora che l’ho vista.

Capelli biondissimi, incarnato molto chiaro tipico di una donna dell’est Europa, ma il volto arrossato, in questo caso, dallo sforzo. Stava, infatti, spalando la neve  davanti al cancello con molta naturalezza. Accorro in suo aiuto. Prima che si formi il ghiaccio è opportuno creare un corridoio per poter entrare ed uscire. Ride con le guance rubizze.

Conosco molto poco di lei. So che assiste una signora, da tempo costretta sulla sedia a rotelle, che abita al terzo piano (due sopra il mio) del condominio. Incrociata saltuariamente e, altrettanto bonariamente rimproverata, per l’immancabile sigaretta tra le labbra.

Si chiama L., viene da una località a 800 chilometri da Kiev, ucraìna dunque. Non dimostra certo i 22 anni che dichiara di avere. Gliene davo almeno un paio in meno. E’ sorpresa della mia (autentica) sorpresa. Si trova da otto mesi in Italia, ma da come si disimpegna con la lingua sembrano anni. I suoi genitori sono emigrati prima di lei, che invece voleva terminare gli studi in patria. “Una scommessa vinta” proclama orgogliosa. Le piace scommettere, ma solo se è sicura al 60% di vincere. Intanto raccoglie con le mani nude (e in testa non indossa neppure una cuffia,  forse ci tiene a mostrare il biondo dei suoi capelli non molto lunghi) la neve, appallottolandola e tirando a casaccio verso il muro. E’ abituata alla neve che, per quattro mesi all’anno, domina incontrastata nella sua città. Si stupisce che qui, per una ventina di centimetri, le scuole siano state chiuse. Il termometro dovrebbe scendere a -30, da lei, affinché accada la stessa cosa.

Le chiedo di un anellino che porta al pollice della mano destra, anche se so di rischiare. “Qui in Italia” – osservo  “per i ragazzi significa essere impegnati in una relazione”. Per lei non ha lo stesso significato. Aveva un ragazzo in Ucraina che l’avrebbe aspettata per sei mesi, sostenendo che sarebbe tornata. E invece è rimasta qui. Un’altra scommessa vinta, “Si vede che non era molto importante” oso. “Più che altro” – ribatte – “dovevo fargli tutto io, era come un bambino”. Un tipino tosto e non solo per le scommesse. Un maschiaccio travestito da donna, perché per un po’ ha lavorato in una carrozzeria in patria e anche qui le sarebbe piaciuto fare la stessa cosa. Penso ai calendari che, istituzionalmente, ogni meccanico detiene in officina, sorrido mentalmente, quindi osservo che mi sembra improbabile che possa svolgere la medesima attività in Italia.

Intanto ha terminato con il lancio delle palle di neve, adesso ha staccato un ghiacciolo dal ramo di un albero e lo sta succhiando. Mi scruta. La domanda, che era nell’aria e dovevo aspettarmi, arriva inesorabile.

“E tu?”

“Io cosa?”

“Non sei sposato?”

“No”

“Come mai? Non hai trovato?

“Non è facile. Le storie avute non sono state così importanti per un matrimonio. Adesso, poi...”

La sua curiosità cresce.

“Poi cosa?”

“Quando hai una donna in mente è difficile pensare alle altre”

“Ti ha lasciato? Da quanto?”

“Eh” – sospiro – “ da più di un anno”.

La osservo con maggiore attenzione, mi viene da pensare che pure Lei è bionda, anzi con i capelli color miele (erano così...), ma alta quasi quanto me che sono 1,80. La ragazza che ho di fronte è più bionda, piccoletta, ma essendo imbacuccata in un piumino non dispongo di altri elementi per fare una comparazione. Che non servirebbe, comunque. Lei resta sempre inarrivabile, con quegli occhi che equivalgono alla bellezza assoluta.

Ricordo, una mattina d'inverno, mentre aspettavo il suo arrivo, nella hall dell’albergo, per consumare assieme, la prima colazione. Scende dall’auto e poi incede, con passo sicuro, verso l’ingresso, avvolta nella pelliccia. E’ sfolgorante. Sembrano i movimenti di una dea e mi chiedo se è davvero per me che sta arrivando. Un sogno reale, allora. Un flash, adesso e non sarà l’unico della mattinata.

Chiedo a L. se deve andare anche lei a fare la spesa. “Già fatto” mi risponde. Così la saluto, ma prima mi ringrazia per l’aiuto che le ho dato a spalare la neve.

C’è un insolito afflusso per le strade, ma è un sabato mattina nevoso e, per strane convergenze, sembra che tutti quanti abbiano deciso di uscire contemporaneamente. I negozi sono affollati e devo aspettare in macelleria più di altre volte. Insolite gentilezze si contrabbandano per strada. “Stia attenta signora!”. “Ecco, dia a me la borsa”. Un uomo bussa alla finestra del suo vicino di casa anziano e gli porge la busta della spesa, Si schermisce per i ringraziamenti che riceve.

Passo dalla ricevitoria del Lotto, il rito pagano del sabato mattina. Mio padre insiste a puntare sul “53”, spera che sia custodito sotto la neve. Una volta si diceva che c’era il pane: segno dei tempi?  E’ una solenne sciocchezza quella di sostenere che un numero, perché ritardatario, abbia più possibilità di uscire, sortire dicono i lottologi, rispetto ad un altro. Io gioco le solite bollette ormai da varie settimane. Sì, c’è pure quel numero, ma in combinazioni multiple. Non manca la sua data di nascita.

Torno all’aperto e rischio quasi di schiacciare un batuffolo umano che mi ritrovo tra i piedi. Il padre lo rincorre. Ci riconosciamo. E’ P., un ragazzo che seguivo quando giocava a pallamano, ormai saranno molti anni fa e ne riferivo gli incontri ad un quotidiano locale. Un sodalizio di vecchia data. Lui poteva già definirsi, allora, uno spirito libero, uno scapigliato. Noto che indossa a tracolla la stessa borsa di cuoio, un must per lui, frutto della sua abilità artigianale.

Adesso, mi racconta, dispone di un laboratorio più grande, ma si occupa anche della campagna. E poi mixa musica funky, il sabato sera, in discoteca. Rigorosamente in vinile (almeno 2500 posseduti). Anche quella del dj è una passione immutata, nonostante gli anni passati, il matrimonio (credo) e un figlio. Così come inalterato è rimasto il  piacere di viaggiare e il gusto di prendere una cartina, appoggiarvi sopra alcuni pizzichi di tabacco, arrotolare, chiudere con la saliva e poi assaporare il prodotto della propria manualità.

Capigliatura fluente come un tempo, accompagnata ora da baffoni che lo rendono più grande di quanto effettivamente sia (credo 35 anni). Ma poi, a ben guardare, l’aspetto è sempre quello del ragazzino che mostrava fin troppo entusiasmo per lo sport e l’impazienza per ciò che avrei potuto scrivere. C’era stato, infatti, un periodo in cui investito da delirio di onnipotenza, una sorta di Giannibrera dei poveri, assegnavo voti dopo ogni gara. Gli lascio il mio indirizzo di posta elettronica e ci salutiamo abbracciandoci. So già che non mi scriverà, ma non importa. Noto che, anche a distanza di tempo, chi poteva avere una buona opinione sul tuo conto l’ha mantenuta e in epoca di povertà sentimentale è già molto.

Mi avvio e lungo il tragitto sfioro un veicolo parcheggiato al lato della strada, semicoperto dalla neve, riesco però ad accorgermi che è lo stesso modello della sua auto. Il colore è diverso (la sua era silver) e anche la targa, naturalmente. Scopro così di non rammentare la targa della sua auto: singolare, perché ricordo tutto di Lei.

Quanto torno a casa, alle 11:00, riprende la silenziosa danza dei fiocchi bianchi.

giovedì 27 gennaio 2005

 

SE QUESTO E' UN UOMO

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case;
Voi che trovate tornando la sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce la pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì e per un no

Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno:

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole:
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli:
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri cari torcano il viso da voi.

Primo Levi

Sessant’anni fa le truppe dell’Armata Rossa abbattevano i cancelli di Auschwitz e il mondo scopriva l’esistenza del Male assoluto.

Il 27 gennaio 1945 è una data che deve restare impressa nella memoria. Il racconto dei testimoni che sono sopravvissuti, per raccontare l’inferno che hanno attraversato, è il modo migliore per non dimenticare mai, soprattutto quando l’ultimo di loro sarà morto e allora ci sarà chi potrà far credere, alle nuove generazioni, che era stata tutta un’invenzione. Facciamo in modo che la memoria storica non ci abbandoni. Senza di essa non c’è futuro.

 

“…Emersero invece nella luce dei fanali due drappelli di strani individui. Camminavano inquadrati, per tre, con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato in avanti e le braccia rigide. In capo avevano un buffo berrettino, ed erano vestiti di una lunga palandrana a righe, che anche di notte e di lontano si indovinava sudicia e stracciata. Descrissero un ampio cerchio attorno a noi, in modo da non avvicinarci, e, in silenzio, si diedero ad armeggiare coi nostri bagagli, e a salire e scendere dai vagoni vuoti.
Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle. Ma una cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche noi saremmo diventati così”.

Primo Levi da “Se questo è un uomo” Opere, Einaudi

“In Lager si entrava nudi…La giornata del Lager era costellata di innumerevoli spogliazioni vessatorie: per il controllo dei pidocchi, per le perquisizioni degli abiti, per la visita della scabbia, per la lavatura mattutina; ed inoltre per le selezioni periodiche, in cui una “commissione” decideva chi era ancora atto al lavoro e chi invece era destinato all’eliminazione. Ora, un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme. Gli abiti, anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo. Sa che potrà essere schiacciato ad ogni momento”.

Primo Levi da “I sommersi e i salvati” Opere, Einaudi

Ci siamo accorti subito, fin dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e rispondeva in modo articolato, si instaurava una parvenza di rapporto umano. Con chi non li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò: l’ordine che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico a voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto del messaggio.
Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati) arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso linguaggio: l’uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinchè l’uomo sia uomo, era caduto in disuso. Era un segnale: per quegli altri, uomini non eravamo più. (…)

Primo Levi  da “ I sommersi e i salvati” Opere, Einaudi


Il racconto di Giorgio Perlasca è una storia vera, l’incredibile vicenda di un commerciante padovano che, nell’inverno 1944, a Budapest riuscì a salvare dallo sterminio migliaia di ebrei, spacciandosi per il console spagnolo.
Era un fascista entusiasta e aveva combattuto in Spagna come volontario per Franco. L’8 settembre 1943 lo trovò lontano da casa, ricercato dalle SS. Avrebbe potuto mettersi in salvo.
Dal suo Diario, emerge l’azione straordinaria di un uomo solo, aiutato da uno sparuto gruppo di persone, che sforna documenti falsi, organizza e difende otto “case rifugio”, trova cibo, strappa ragazzi dai “treni della morte” di Adolf Eichmann inganna nazisti tedeschi e ungheresi
.

“30 dicembre, sabato
La notte scorsa è successo un fatto terribile. Hanno preso un gruppo di ebrei del ghetto e li hanno trucidati in piazza Ferenc Liszt e in via Eötvös. Abbiamo prima udito le grida e le suppliche di centinaia di persone, e poco dopo gli spari.
All’alba mi sono recato sul posto e ho visto che i morti erano per la maggior parte donne e bambini. La mattina sono andato all’hotel Hungaria per incontrare il delegato della Croce Rossa Internazionale, Weyermann. Improvvisamente mi si è avvicinato un ufficiale ungherese, pregandomi di andare con lui in riva al Danubio. I miei carabinieri hanno tentato di mandarlo via, temendo un attentato. Poi si sono limitati a rimanermi vicino, ma con i mitra puntati sull’ufficiale.
Tutta la riva del fiume era ricoperta da neve, ma davanti ai caffè Hungaria e Negresco il colore era diventato rosso sangue. Nel fiume si vedevano i corpi nudi di centinaia di morti, che l’acqua non aveva potuto trascinare con sé a causa della presenza di blocchi di ghiaccio. Queste persone erano state ammazzate durante la notte e poi gettate in acqua.
Ho detto all’ufficiale che avevo visto qualcosa di simile vicino al ponte Margherita e gli ho chiesto perché mi avesse invitato qui. Il suo scopo era quello di convincere gli stranieri che l’esercito era estraneo a questi fatti. E’ vero, gli ho risposto, ma l’esercito serve per far rispettare la legge e tutelare i diritti dei cittadini, non per assistere a simili atrocità. Mi hanno raccontato che le vittime erano state costrette a camminare per circa due chilometri, in fila per due, con le mani legate, a piedi scalzi e completamente svestite. Le avevano poi fatte inginocchiare sulla riva del fiume e avevano sparato loro alla nuca.
L’ufficiale mi ha consegnato una donna che si era salvata per essere caduta in acqua prima degli spari. L’avevano slegata e la stavano frizionando con della canfora. L’ho portata con me all’ambasciata."

Enrico Deaglio, da “La banalità del bene” Storia di Giorgio Perlasca, Tempo ritrovato, Feltrinelli

Le tre vittime montarono insieme sugli sgabelli.
I tre colli furono infilati nei cappi allo stesso momento.
“Viva la libertà!” gridarono i due adulti.
Ma il ragazzo rimase in silenzio.
“Dov’è Dio? Dov’è?” chiese qualcuno dietro di me.
Ad un segno del comandante del campo, i tre sgabelli rotolarono…
Cominciò la marcia dinanzi alle forche. I due grandi non vivevano più. Le lingue cianotiche penzolavano gonfie. Ma la terza corda si muoveva ancora; così leggero, il ragazzo era ancora vivo…
Stette là per più di mezz’ora, lottando tra la vita e la morte, morendo d’una lenta agonia sotto i nostri occhi. E lo dovemmo guardare bene in faccia. Era ancora vivo quando io passai. La lingua ancora rossa, gli occhi non ancora vitrei. Dietro di me, udii lo stesso di prima domandare:
“Dov’è Dio adesso?”
E udii una voce dentro di me rispondergli:
“Dov’è? Eccolo lì – appeso a quella forca…”
Quella notte la zuppa sapeva di morto."

Elie Wiesel da “La notte” Giuntina editore

 

martedì 25 gennaio 2005

Candida come la neve

 

“Addio passeggiate a Rivoli. Ecco la bella amica dei ragazzi! Ecco la prima neve! Fin da ieri sera vien giù a fiocchi fitti e larghi come fiori di gelsomino. Era un piacere questa mattina alla scuola vederla venire contro le vetrate e ammantarsi sui davanzali; anche il maestro guardava e si fregava le mani, e tutti erano contenti pensando a fare alle palle, e al ghiaccio che verrà dopo, e al focolino di casa.”

Il brano tratto dal libro “Cuore” non poteva mancare come sfondo per raccontare la nevicata che mi ha impedito di andare al lavoro oggi (e anche per domani c’è incertezza). Da un celeberrimo libro per ragazzi arriva, così, la celebrazione di quello che è un ritorno al passato per noi adulti, riportandoci a quella dimensione ludica e spensierata che i fiocchi di neve suscitavano.

Rammento che quando si profilava l’ipotesi e poi, in genere a pomeriggio inoltrato, cominciava a nevicare, mi ritrovavo con il naso schiacciato contro il vetro della finestra, insensibile agli spifferi di aria fredda, per non perdere nulla dello scenario che andava ridisegnandosi. E, quando il buio della sera calava, prendevo la torcia elettrica per verificare l’intensità dei fiocchi, chiedendo ai genitori se potessero attecchire o meno. Poi cenavo frettolosamente perché dovevo tornare a presidiare quella finestra e controllare, se la neve ci fosse ancora, per andare a dormire tranquillo dopo “Carosello”.

Il mattino dopo, era tutto un prolungato “ooooooohhhhh” di meraviglia di fronte ad un paesaggio straordinariamente suggestivo, imbiancato e reso davvero fantastico: tutto era bello. La colazione veniva consumata con rapidità, perché poi si correva all’aperto. La chiusura obbligata della scuola radunava per strada tanti bambini, così palle di neve e pupazzi vivacizzavano tutta la nostra giornata. Ma che emozione, poi, se la caduta era stata abbondante, passare in mezzo a veri e propri canaloni. Anche se l’evento è stato raro, quegli scarni ricordi si dipanano ora con intensità. Come la figura di un uomo, salito sul tetto della propria abitazione e impegnato a rovesciare, in strada, i cumuli di neve che si erano ammucchiati.  

Ma, dopo il divertimento di quelle giornate, arrivava la preoccupazione di dover assistere al disfacimento. Così il passaggio delle rare auto, insieme all’apparire del sole, erano il preludio al malinconico spettacolo, mentre i fiocchi di neve diradati erano solo animati dal vento e della coltre bianca al suolo restava un triste ricordo. Lo sporco, lo scioglimento che lasciava in eredità pericolose lastre di ghiaccio e la stupita constatazione che le zone non erano più candide come appena qualche giorno prima. Il panorama riemergeva in tutto il suo grigiore e il rimpianto accompagnava il ritorno alla normalità.

I miei genitori mi hanno raccontato spesso di una nevicata del ’56 che provocò molti disagi, forse per compensare questo un anno dopo nascevo io. Perdonate la civetteria.

lunedì 24 gennaio 2005

Un giorno come tanti

 

Premessa necessaria. Questo post viene editato in "differita", ossia non è fresco di giornata. L'ho inserito come commento in un altro blog alcuni giorni fa. Ma, poiché mi è stato fatto notare che avrebbe potuto costituire un argomento a se stante, invece che farne un commento, considerando inoltre che la giornata raccontata non è molto dissimile da altre che si vivono in ufficio e che, infine, il lunedì rappresenta l'inizio di una nuova settimana lavorativa, posso impugnare queste ragioni e proporlo qui. Dopo aver ottenuto una liberatoria.

"Questa mattina sono arrivato in ufficio alle 9:00, cioè un’ora dopo, ma non me la sono presa troppo. Ho scartato il tradizionale panino e mi sono messo a mangiare con buon gusto. Nel frattempo, aprivo la posta aziendale, che appunto deve sempre restare in primo piano e scambiavo opinioni e commenti con i colleghi. Lo so, non si dovrebbe parlare con la bocca piena, ma siamo molto informali e si accetta tutto. E poi lo facevo dopo aver inghiottito il boccone.
Circa tre quarti d’ora più tardi, mi sono recato in comitiva alla visita guidata verso la macchinetta del caffè, l’altarino pagano dei giorni nostri. Nel piccolo spazio c’era la folla delle ore di punta e, dopo aver salutato Tizio, Caio e Sempronio, ho scelto la bevanda (cioccolato forte), ho scroccato una crostatina e poi mi sono messo a guardare il paesaggio per accertarmi delle condizioni meteo (cominciava a nevicare, ma poi è diventata pioggia).
Al rientro nella stanza, sono stato convocato da un collega vice-capo per cercare di ricostruire assieme il percorso di una lettera, confrontando alcuni particolari, per cercare di capire come mai un cliente si fosse lamentato.
Poco dopo entra un responsabile di settore che chiede informazioni sul digitale terrestre. La ricerca si è arrestata e si è sviluppato un confronto su quale apparato fosse il migliore (Humax), sugli aggiornamenti da effettuare, sulle schede prepagate da acquistare e sul tempo che sarà necessario per clonarle. Nonché sugli sviluppi della situazione televisiva per quanto riguarda lo sport criptato. Quindi un collega, da poco convolato a nozze, espone il problema del canone tv e dell’importo, maggiorato, che doveva pagare.
La discussione si è spostata, allora, sull’opportunità di pagarlo, su come imboscare il tutto, arricchita dal gossip su un conoscente che era stato "sgamato" in modo banale. Un tipo chiede alla madre se avessero il televisore a casa e, ricevuta risposta affermativa, ha chiesto di entrare per verificare i pagamenti, fino ad allora mai effettuati. "Da oggi dovete pagare", concludeva perentorio. Un collega, entrato nel mezzo del racconto, ricordava che un poliziotto suo amico ricordava che in casa si può entrare solo per perquisizioni di armi e droga. Vera o falsa che fosse la versione si commentava l’ingenuità, poi l’ingiustizia e infine elencavano le scappatoie, nonché i consigli al novello sposo, di non pagare, anche se lui voleva farlo.
Quindi si è tornati alla lettera e alla ricerca di qualche responsabile. Il mouse scorreva le mail in precedenza ricevute ed inviate, si ricostruiva se chi aveva avuto l’incarico ci fosse o meno negli ultimi giorni dell’anno, perché allora era accaduto tutto per questo motivo. Poi si convocava un’altra persona e, infine, si lanciava il nobile proposito di chiarire tutto con il capo. Prima di rientrare nel mio ufficio mi accertavo sullo stato di riproduzione di un paio di cd musicali (quasi fatti) e così usufruirò del bonus, poiché chi cura la sezione cd e presto lo ripeterà con i dvd, rilascia una tesserina su cui vengono annotati i cd venduti, il cui prezzo all’inizio dello scorso anno si era riallineato: 5 euro. Al completamento della tesserina, cioè al decimo acquisto, il successivo è gratis.
Tornavo alla scrivania mentre altri colleghi si eclissavano, perché nel frattempo mezzogiorno era passato da venti minuti. "Ciao". "Ciao". "Ah, ci vediamo domani, perché ho il corso d’inglese". "Va bene". E, finalmente da solo, potevo iniziare a lavorare. Entravo in Rete, leggendo i blog a fasi alterne, fino alle 14:00, l’ora dell’uscita. Poi affrontavo il vento freddo e la pioggia che cadeva. Peccato: dentro, al caldo, si stava meglio."

Premessa necessaria. Questo post viene editato in "differita", ossia non è fresco di giornata. L'ho inserito come commento in un altro blog alcuni giorni fa. Ma, poiché mi è stato fatto notare che avrebbe potuto costituire un argomento a se stante, invece che farne un commento, considerando inoltre che la giornata raccontata non è molto dissimile da altre che si vivono in ufficio e che, infine, il lunedì rappresenta l'inizio di una nuova settimana lavorativa, posso impugnare queste ragioni e proporlo qui. Dopo aver ottenuto una liberatoria.

"Questa mattina sono arrivato in ufficio alle 9:00, cioè un’ora dopo, ma non me la sono presa troppo. Ho scartato il tradizionale panino e mi sono messo a mangiare con buon gusto. Nel frattempo, aprivo la posta aziendale, che appunto deve sempre restare in primo piano e scambiavo opinioni e commenti con i colleghi. Lo so, non si dovrebbe parlare con la bocca piena, ma siamo molto informali e si accetta tutto. E poi lo facevo dopo aver inghiottito il boccone.
Circa tre quarti d’ora più tardi, mi sono recato in comitiva alla visita guidata verso la macchinetta del caffè, l’altarino pagano dei giorni nostri. Nel piccolo spazio c’era la folla delle ore di punta e, dopo aver salutato Tizio, Caio e Sempronio, ho scelto la bevanda (cioccolato forte), ho scroccato una crostatina e poi mi sono messo a guardare il paesaggio per accertarmi delle condizioni meteo (cominciava a nevicare, ma poi è diventata pioggia).
Al rientro nella stanza, sono stato convocato da un collega vice-capo per cercare di ricostruire assieme il percorso di una lettera, confrontando alcuni particolari, per cercare di capire come mai un cliente si fosse lamentato.
Poco dopo entra un responsabile di settore che chiede informazioni sul digitale terrestre. La ricerca si è arrestata e si è sviluppato un confronto su quale apparato fosse il migliore (Humax), sugli aggiornamenti da effettuare, sulle schede prepagate da acquistare e sul tempo che sarà necessario per clonarle. Nonché sugli sviluppi della situazione televisiva per quanto riguarda lo sport criptato. Quindi un collega, da poco convolato a nozze, espone il problema del canone tv e dell’importo, maggiorato, che doveva pagare.
La discussione si è spostata, allora, sull’opportunità di pagarlo, su come imboscare il tutto, arricchita dal gossip su un conoscente che era stato "sgamato" in modo banale. Un tipo chiede alla madre se avessero il televisore a casa e, ricevuta risposta affermativa, ha chiesto di entrare per verificare i pagamenti, fino ad allora mai effettuati. "Da oggi dovete pagare", concludeva perentorio. Un collega, entrato nel mezzo del racconto, ricordava che un poliziotto suo amico ricordava che in casa si può entrare solo per perquisizioni di armi e droga. Vera o falsa che fosse la versione si commentava l’ingenuità, poi l’ingiustizia e infine elencavano le scappatoie, nonché i consigli al novello sposo, di non pagare, anche se lui voleva farlo.
Quindi si è tornati alla lettera e alla ricerca di qualche responsabile. Il mouse scorreva le mail in precedenza ricevute ed inviate, si ricostruiva se chi aveva avuto l’incarico ci fosse o meno negli ultimi giorni dell’anno, perché allora era accaduto tutto per questo motivo. Poi si convocava un’altra persona e, infine, si lanciava il nobile proposito di chiarire tutto con il capo. Prima di rientrare nel mio ufficio mi accertavo sullo stato di riproduzione di un paio di cd musicali (quasi fatti) e così usufruirò del bonus, poiché chi cura la sezione cd e presto lo ripeterà con i dvd, rilascia una tesserina su cui vengono annotati i cd venduti, il cui prezzo all’inizio dello scorso anno si era riallineato: 5 euro. Al completamento della tesserina, cioè al decimo acquisto, il successivo è gratis.
Tornavo alla scrivania mentre altri colleghi si eclissavano, perché nel frattempo mezzogiorno era passato da venti minuti. "Ciao". "Ciao". "Ah, ci vediamo domani, perché ho il corso d’inglese". "Va bene". E, finalmente da solo, potevo iniziare a lavorare. Entravo in Rete, leggendo i blog a fasi alterne, fino alle 14:00, l’ora dell’uscita. Poi affrontavo il vento freddo e la pioggia che cadeva. Peccato: dentro, al caldo, si stava meglio."

venerdì 21 gennaio 2005

Sotto accusa, maschio!

I numeri della vergogna sono: 520 mila le donne tra i 14 e i 59 anni che hanno subito almeno una violenza tentata o consumata, equivalente al 2,9% della popolazione femminile nella medesima fascia di età. 3,6% la percentuale di donne tra i 25 e i 44 anni che più frequentemente hanno subito violenza. Sotto i 24 anni sono l’1,9%.

3,3%  quelle avvenute nel Nord-Ovest, 3,4% nel Nord-Est, tassi più bassi al Sud e nelle piccole località. 373 mila (3,1%) le donne tra i 14 e i 59 anni che hanno subito ricatti sessuali sul luogo di lavoro. 221 mila (1,8%) per essere assunte, 42 mila(0,4%) negli ultimi tre anni; 208 mila (1,8%) per la carriera, 61 mila (0,5%) negli ultimi tre anni; 582 mila (4,9%) le richieste di disponibilità sessuale (4,9%), 160 mila (1,4%) negli ultimi tre anni.

9 milioni e 860 mila (55,2%) sono state le donne, tra i 14 e i 59 anni, che hanno subito molestie sessuali. 4.600 mila le molestie verbali, 3.524 mila le molestie fisiche, 4.077 mila hanno patito l’esibizionismo, 4.423 mila hanno ricevuto telefonate oscene, 4.082 mila sono state pedinate.

460 mila donne hanno subito un tentato stupro nel corso della vita, 107 mila negli ultimi tre anni. 102 mila le donne che hanno subito, invece, uno stupro nel corso della loro vita, 18 mila negli ultimi tre anni (ogni vittima può aver subito entrambe le violenze, per questo motivo il numero complessivo è superiore al dato globale).

23,4% la percentuale di amici autori del tentato stupro, 21,9% gli estranei e 17,9% i colleghi. 23.8% la percentuale di amici autori dello stupro, 3,5% gli estranei e 4,4% i colleghi.

25,2% la percentuale del tentato stupro per strada, 14,% al lavoro, 12,1% tra le mura domestiche.

4% la percentuale di stupri consumati per strada, 1,6% al lavoro, 31,2% a casa propria.

89,7% la percentuale di donne che non hanno denunciato il tentato stupro, 7,5% coloro che hanno avuto il coraggio di farlo, 2,9 coloro che non ricordano.

91,6% la percentuale di donne che non hanno denunciato lo stupro subito, 7% coloro che l’hanno denunciato, 1,4% coloro che non ricordano. Negli ultimi tre anni la percentuale delle denunce presentate è salita al 9,3%.

Un terzo di donne non ne parla mai e, coloro le quali decidono di raccontare, quasi sempre si confidano con un familiare o con un amico, pochissime si rivolgono ad uno psicologo, oppure ad un centro sociale. La paura di essere giudicate male, di non essere credute, il senso di vergogna e la mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine, sono tutti motivi che garantiscono, di fatto, l’impunità agli aggressori.

A causa dei miei omologhi, schifato per un reato verso la persona grave, infamante e vile, vorrei dimettermi dal ruolo di uomo.

Questi dati sono stati ripresi da un’indagine Istat sulla "Sicurezza dei cittadini", realizzata nel 2002 attraverso interviste telefoniche e resa nota nelle scorse settimane.

giovedì 20 gennaio 2005

Interrogativo inevitabile

La domanda era nell’aria, galleggiava tra le parole del post di ieri, si defilava nei commenti e io stesso avrei voluto porla subito. Lo faccio adesso.

Se foste costretti a scegliere tra un Grande Amore o una Grande Amicizia, cosa priviligereste?

Il primo procura gioie immense, trascendentali, indicibili, trasporta in paradiso, come la separazione precipita nell’inferno dove le fiamme del ricordo bruciano l’anima, la dilaniano, facendo soffrire crudemente.

La seconda propone un’intesa che si fonde talora nello spirito comune, rappresenta una certezza che resiste all’usura del tempo, regge nella gioia e nel dolore fino a che morte non la separi.

Avevo il Grande Amore, stavo provando a recuperare la Grande Amicizia: ci fossi riuscito potevo vivere felice e contento, ma forse proprio perché questa conclusione è tipica delle favole e non della vita, mi ritrovo in una realtà a lettere minuscole.

Se foste costretti a scegliere tra un Grande Amore o una Grande Amicizia, cosa priviligereste?

Il primo procura gioie immense, trascendentali, indicibili, trasporta in paradiso, come la separazione precipita nell’inferno dove le fiamme del ricordo bruciano l’anima, la dilaniano, facendo soffrire crudemente.

La seconda propone un’intesa che si fonde talora nello spirito comune, rappresenta una certezza che resiste all’usura del tempo, regge nella gioia e nel dolore fino a che morte non la separi.

Avevo il Grande Amore, stavo provando a recuperare la Grande Amicizia: ci fossi riuscito potevo vivere felice e contento, ma forse proprio perché questa conclusione è tipica delle favole e non della vita, mi ritrovo in una realtà a lettere minuscole.

mercoledì 19 gennaio 2005

Il signor G.

Lo conobbi sul pullman di ritorno dallo stadio, una domenica pomeriggio. La partita di calcio era terminata da un pezzo e mi accorsi, solo allora, di questo ragazzo che la commentava con indubbia competenza. Era sempre stato il mio sogno quello di incrociare chi di calcio ne parlasse, non come al bar dello sport, ma basandosi su dati di fatto, annotazioni tecniche: competenza, insomma.

Mi intromisi nella conversazione, ci capimmo al volo. G. esprimeva passione ed interesse, abbinati a memoria storica e citazioni adeguate. Non ci volle molto per stabilire e, consolidare poi, un legame che trascese lo sport, il calcio soprattutto, per estendersi in ogni settore della vita.

Abitando in città diverse, il contatto venne mantenuto per mezzo di lettere (l’e-mail era ancora di là da venire) ed incontri allo stadio, in curva (dove non stanziavano solo imbecilli). Memorabile la finale di Coppa dei Campioni, giocata a Barcellona dal Milan, nell’anno di grazia 1989, non solo per il trionfo della nostra squadra, ma per quello che significò stare insieme così tanto tempo. Dall’aereo, al pullman e poi in treno.

Di partita in partita le confidenze extra calcio diventarono un terreno comune. Nominava spesso la sua ragazza, A., un rapporto che durava da tempo, ma altalenante per le sue distrazioni calcistiche, perché lei veniva dopo. Una sera me la presentò, all’uscita da un teatro. Avevo sempre pensato, pur senza dirglielo, che  esagerasse nel magnificarla. Addirittura, ripeteva che assomigliava a Carol Alt, modella e attrice famosa negli anni ’80. Ma quella sera, conoscendola, dovetti dargli ragione, perché i tratti del viso e gli occhi erano identici: una piccola nona meraviglia.

Anche A. sapeva di me, ci trovammo simpatici e iniziammo a scriverci. A G. era noto il fatto, ma non mostrava preoccupazione. Con lei, ovviamente, non parlavo di lui, ci confrontavamo su altri argomenti e una buona intesa, amalgamata da alcune comuni affinità, si  stava creando.

Un giorno G. mi raccontò di una sua avventura estiva, piuttosto recente. Una “toccata e fuga” come si direbbe in modo piuttosto volgare, di cui ero - a quel punto - depositario unico.

Nel frattempo A. aveva accettato la proposta, che le avevo fatto tempo prima, di incontrarci a metà strada, Mi andava di vederla e conoscerla meglio. Accettò e senza alcuna difficoltà trascorremmo una giornata assieme, rigorosamente da amici, anche se non ero indifferente al suo fascino.

Ad un certo punto si lasciò andare ad una confidenza su G.. Non capiva certi suoi atteggiamenti, le pareva sempre di più che avesse una sorta di doppia vita. “Cosa ne sai tu?- mi chiese a bruciapelo. Paventavo la domanda, cercai di guadagnare tempo compiendo una veloce ricognizione mentale.

Se rivelavo la scappatella estiva (che poi non era neppure la prima) mi sarei guadagnato la sua fiducia e, forse, anche altro per gratitudine. In fondo, in quel rapporto vissuto sempre sull’asse di equilibrio, sarebbe bastato davvero poco per sbilanciarlo. Se, invece, fornivo una versione rassicurante, avrei mantenuto il rapporto di grande amicizia con G., ma avrei perduto un’opportunità irripetibile di assestare un colpetto di grazia a quella relazione che, neppure lui ormai, si preoccupava più di tanto di preservare. Che poi sarei potuto subentrare io sarebbe stato tutto da dimostrare, ovviamente. Intanto, perché non provarci...

“E’ tutto normale – risposi- ha sempre avuto i suoi interessi oltre te, dunque lasciagli spazio e non preoccuparti. Mi parla di te molto spesso, nessuna doppia vita”. Mi guardò rincuorata, ci salutammo con piacere e la vidi andar via assieme ad un’opportunità unica, probabilmente.

Con il tempo, le mie frequentazioni di curva divennero saltuarie, la corrispondenza con G. diminuì fatalmente, inghiottita dalle nuove realtà che si prefiguravano per ciascuno di noi e, anche con A., le lettere si ridussero in maniera significativa, fino a scomparire.

Qualche anno più tardi, la posta elettronica permise nuovamente incroci significativi. G. aveva intrapreso la logica professione per lui, vale a dire giornalista sportivo. Con A., nel frattempo diventata moglie e madre, era finita ormai da tempo, ma con forte rimpianto. Gli chiesi ragione del prolungato silenzio e mi rispose, amaramente, che il mio incontro con lei, le lettere che ci scambiavamo: “Troppi equivoci, troppe cose non chiare” mi confessò, ci avevano allontanato. Replicai che tra me e A. non c’era stato assolutamente nulla, anzi aggiunsi che l’avevo tutelato, minimizzando e negando taluni suoi comportamenti.

Provammo a mantenerci in contatto. G. aveva ricostruito tutto, sostanzialmente scagionandomi e riconoscendo le proprie responsabilità. Ma ormai troppo tempo era passato e le incrostazioni si erano sedimentate sul fondo dei nostri cuori.

Anche per le ultime feste gli ho inviato gli auguri, come utile pretesto per aggiornarci, ma pure questa volta non c’è stata risposta.

Quella foto, che ci vede abbracciati dopo la notte entusiasmante vissuta al Camp Nou di Barcellona, rimane il simbolo di un grande sodalizio. E ogni volta che la guardo, mi sembra ancora di udire il boato dello stadio come colonna sonora della gioia di essere proprio lì e di vivere assieme quelle ore esaltanti. Un momento magico, due amici, un’istantanea. Per sempre.

domenica 16 gennaio 2005

Come eravamo

 

La posta in arrivo mi recapita una lettera sulla felicità, o meglio sulla possibilità di essere felici, anzi di esserlo stati. Mi fa così tornare indietro nel tempo, impegna la memoria, offre varie possibilità di discussione (sempre molto libera, naturalemente).

Questa lettera propone una serie di situazioni che, coloro i quali sono nati negli anni 50, 60 e 70, dovrebbero aver vissuto nella maggior parte dei casi. Riproduce istantanee che fanno sorridere di quel piacere che sempre impregna i ricordi dell’infanzia e ce li offre, oggi, sotto una prospettiva dove la malinconia e la tenerezza non sembrano conoscere confini. Parte da una domanda, molto semplice, per arrivare ad una conclusione, altrettanto semplice, attraverso una serie di fotogrammi talvolta reali, altre verosimili. Non mi sono potuto sottrarre alla suggestione evocata.

Si chiede, a coloro che erano bambini in quegli anni, come abbiano fatto a sopravvivere fino ad oggi. Perché si andava in auto che non avevano cinture di sicurezza né airbag. Le culle erano dipinte con colori vivacissimi, con pitture a base di piombo. Non erano previste chiusure di sicurezza nelle confezioni di medicinali e di detersivi. Quando si andava in bicicletta non si portava il casco. I maschietti trascorrevano ore ed ore a costruire carretti a rotelle e, sopra a questi, si lanciavano in discesa, salvo ricordare a metà corsa di non avere freni. Dopo vari scontri contro i cespugli, però, s’imparava a risolvere il problema. Quando si usciva a giocare l'unico obbligo era quello di rientrare prima del tramonto. La scuola durava fino a mezzogiorno e si tornava a casa per pranzo. Non si aveva il cellulare... Impensabile.

Ci si tagliava oppure ci si rompeva un osso o si perdeva un dente, ma non c'era alcuna denuncia per questi incidenti. La colpa non era di nessuno, se non di noi stessi. Si mangiavano biscotti, pane e burro, si bevevano bibite zuccherate e non c’erano problemi di sovrappeso, perché si stava sempre in giro a giocare. Non esistevano Playstation, Nintendo, videogiochi, televisione via cavo con innumerevoli canali, videoregistratore, computer. Invece si avevano amici. Si andava a casa dell’amico, si entrava senza bussare, lui era li e si usciva a giocare. Si! Lì fuori! Nel mondo crudele! Senza un guardiano!

Venivano organizzati giochi con bastoni e palline da tennis, si formavano delle squadre per disputare una partita. Non tutti venivano scelti per giocare e gli esclusi non subivano alcuna delusione che si trasformava in trauma. Alcuni scolari non erano brillanti come altri e, quando perdevano un anno, lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dallo psicopedagogo, nessuno soffriva di dislessia, né di problemi di attenzione o di iperattività. Semplicemente ripeteva ed aveva una seconda opportunità. Chi appartiene alle generazioni successive sicuramente stabilirà che questi bambini erano noiosi, però sono stati molto felici: così si conclude la lettera.

Ora, al di là di alcune simpatiche semplificazioni e facili generalizzazioni, non si può fare a meno di notare che un fondo di verità, tuttavia, esiste. Ma credo sia importante porsi un’altra domanda, vale a dire il passato, gli anni soprattutto della nostra infanzia, sono davvero stati così felici oggettivamente, oppure il rimpianto che in genere suscitano, nasce solo dalla constatazione che eravamo più giovani, senza peraltro adesso essere coetanei di Matusalemme?

giovedì 13 gennaio 2005

Dietro le quinte

Bello il dibattito, approfondito, soprattutto vero, intenso e partecipato. Quando le esperienze sono state vissute da tutti, è inevitabile che esista questo comune sentire, comprese le voci solo apparentemente in dissonanza. Ma della franchezza, almeno in questo ambito, non bisogna avere timore. Se, infatti, non siamo e, soprattutto non ci sentiamo liberi in uno spazio, sì virtuale ma reale come vivacità e intelligenza, quando mai lo saremo?

Se anche in un blog ci dobbiamo preoccupare dell’omologazione, di ciò che è opportuno e non opportuno dire, della convenienza, dell’opportunità, credo che sarà difficile, nel quotidiano personale, riuscire a trovare spazi per manifestare la propria autenticità. Per questo motivo ho letto e apprezzato, in maniera particolare, questa discussione che è partita dal “gelo” del titolo per confluire verso un calore umano confortante e pure raro, dunque assai prezioso.

Leggendo e rileggendo le riflessioni che si sono moltiplicate, non a caso, con la sua “presenza”, le sue parole, il suo modo di pensare che ho reso diretto, mi sono anche commosso, perché pensavo a come Lei veniva vista da voi, dall’esterno, da persone che non l’hanno mai conosciuta. E cresceva, in parallelo, il mio rammarico che, peraltro, oggi si amalgama con le dissolvenze di un sogno, della notte scorsa, l’ennesimo in cui ho ritrovato Lei, anche se la persona che vedevo non era Lei fisicamente (non ho il cuore di guardare la sua foto con il bel volto in primo piano), ma un equivalente.

Dal grumo, che del sogno è rimasto, rammento che stavo per partire, mancavano poche ore (il tempo non ci bastava mai) e Lei, che era andata in un luogo imprecisato (c’era molta folla) tardava ad arrivare. E il tempo passava. Finalmente eccola, mi sussurrava alcune parole nell’orecchio, io facevo altrettanto, poi il sogno s’interrompeva consegnandomi, per buona parte della giornata, un sapore di amarezza per non essere risuscito a completare, anche in sogno, l’incontro con Lei, perché era tardi e ci dovevamo lasciare.

L’argomento è tutt’altro che esaurito. Mi capiterà ancora di parlarne, almeno fino a quando la speranza puntellerà il pensiero insano e assurdo, unito al rimpianto per una bellissima storia d’Amore che, singolarmente, non ha sentito risuonare la parola “addio”, né da parte sua che da parte mia. Anche se non servono, credo, le parole, in questo caso, a certificare qualcosa che non rinascerà più. Forse...

martedì 11 gennaio 2005

Quella gelida letterina...

 

E infine mi ha scritto, ma più che frasi memorabili ho letto impersonalità, distacco, anche gelo: un’immagine ben lontana da quella che avevo di Lei. Forse una finzione o forse no: una,nessuna, centomila facce.

Sull’ondata emotiva, prodotta da un sogno di qualche notte fa, maturo l’idea di farle avere qualcosa di mio, preparato appositamente per Lei. C’erano sì state quella lettera la cui risposta mai è arrivata, poi ancora una riflessione, che le avevo comunicato, caduta nella fase finale dell’anno (ma non badavo alle date) e in quel buco nero che è diventato il cratere dei sentimenti. Ma non importa.

Un cd mi era parsa l’idea migliore per farle percepire, in modo diverso, il mio stato d’animo e suscitare reazioni. Anche commozione, perché no? Scelgo dalle varie raccolte le tracce più significative, le metto in ordine, ascolto i brani prima di masterizzarli e non posso fare a meno di osservare che, già dall’inizio e poi con un crescendo finale, esistevano i requisiti per metterla al tappeto. Tra l’altro avevo deciso di inviarle il cd privo di titoli, perché se si inizia l’ascolto poi è logica la curiosità ad andare avanti, non sapendo cosa ci si deve aspettare.

Ma più riproducevo quei brani, provando pure ad immaginare la reazione che avrebbero potuto provocare e, in proporzione, aumentava anche un senso di scoraggiamento. Non ho completato l’ascolto, ho interrotto lì la riproduzione. Il ripiego è stata una lettera per comunicarle del sogno, delle emozioni, dei rimpianti, del ricordo, senza aspettarmi nient’altro da Lei. E mentre già davo, comprensibilmente, per dispersa anche quest’ e-mail, ecco giungere la sua lettera. A sorpresa.

Mi dice che qualunque cosa Lei scriva non serve a niente, perché se mi comunica che non è innamorata, ma sta bene così, io le fornisco una spiegazione; se invece mi riferisce che è innamorata gliene fornisco un’altra; se poi è stanca (immagino della vita affettiva) c’è ancora un’altra versione. Come se io non dovessi cercare di capire, di approfondire il suo stato d’animo, quasi a voler attuare, in tal modo, una difesa preventiva per non esporsi, non compromettersi, non far trapelare la sua reale situazione sentimentale.

“Proprio ieri parlavo di te con un’amica e mi capita di farlo anche con altre persone, perché  molte cose mi portano al tuo ricordo”. Curioso questo, cioè che mi ricordi, anche frequentemente devo immaginare e poi si ferma lì. Curioso e strano, perché se a me capita di ricordare spesso una persona, di parlarne anche con altri, prima o poi ci sarà qualcuno che mi chiederà se l’oggetto del mio ricordo (desiderio?) non sia per caso emigrato in terre lontane, perché se è così marcato il ricordo (rimpianto?), perché non sovrapporre ad esso la presenza fisica? 

E, ancora, concludeva scrivendo che mi aveva sognato e mi sognerò ancora, perché “io non voglio dimenticarti e non lo farò”. Ora, a parte che mi sembrano proprio i capricci da bambina viziata, ma come dovrei sentirmi io? Lusingato? Felice? O irritato? Che senso ha farmi sapere come anche Lei elabori ricordi, ne sia attaccata, che non vuol dimenticarmi se poi manca l’azione conseguente? Poiché ritengo che debba esserci l’azione conseguente. Oppure sono così folle e visionario? E’ contorto il percorso per seguire il suo ragionamento, anche perché non so se sia inventato di sana pianta, oppure corrisponda ad una reale carenza affettiva.

Rimane ancora un interrogativo che mi pone e cioè: “Se tu hai ragione e io non sono felice, ma me lo sono voluto, cosa vuoi da me?” Ecco un classico caso di autopunizione, per espiare le sue colpe, trascurando il fatto che autopunirà pure se stessa, ma coinvolge, ha coinvolto nella furia iconoclasta, pure me che non credo di avere colpe da espiare.

Forse averla amata troppo?  Ma può essere questa una colpa?

Che senso ha inseguire l’infelicità, essere cosciente che incontro a questa si va, se già non l’accompagna? Ma pur di non darmi ragione, di non voler ammettere che ha sbagliato, si ribella anche alla mia intrusione, ne appare infastidita e irritata. In Lei devono convivere, seppur illusoriamente, la sicurezza e il benessere; se poi arrivo io a metterle in discussione non ci sta più. Meglio affidarsi al ricordo che è innocuo, perché sottolinea la mia lontananza e la sua irraggiungibilità. Però che lo sappia. E, tutto questo, dopo quattro mesi di totale silenzio, seguiti ad una sconvolgente e drammatica telefonata di fine agosto.

Ieri però, a differenza di altre volte, il mio coinvolgimento emotivo è stato di minore durata. Esauritasi la mia replica, infarcita di domande che, peraltro, non avranno risposta, come appunto ho intitolato la lettera, si è ristabilito lo status quo di inizio pomeriggio.

Altro non mi attendo, se non aggiungere stupore a stupore quando leggo che la mia risposta al suo messaggio di auguri (riportata nel mio primo post) l’ha lasciata “svuotata” per la sensazione che le ho trasmesso, per quello che penso di Lei. Io, invece, svuotato lo sono da un anno e qualche giorno, svuotato di ogni sentimento, privato della gioia di vivere passioni vere, entusiasmi per cose anche piccole. Un lungo lavorio che mi ha scavato dentro, brutalizzandomi ed esercitando una violenza quotidiana. Cosa si aspettava da un uomo su cui è calato, come un sudario, il silenzio dei sentimenti?

domenica 9 gennaio 2005

Un'idea per ripartire

 

Ricordare di impostare il timer, ore 6:00, sullo stereo, stazione 4 (Radio Dee Jay, le prime tre sono tradizionalmente riservate a Radio Rai.

Ricordare di preparare la colazione: pane e marmellata che, sono più che mai convinto, resta la merenda più sana, almeno per compensare quegli intrugli che servono le macchinette del caffè aziendali. Certo che potrei anche permettermi il cappuccino in più: è un regalo dell’innominabile, ma non voglio esagerare, anche se l’idea di un cappuccino in più al giorno è allettante.

Ricordare di controllare la data di scadenza dell’abbonamento dell’autobus, l’eventuale controllore domani potrebbe essere più inquieto del solito, visto che pure le scuole riapriranno.

Ricordare di andare a dormire presto, perché poi Nicola Vitiello e il suo: “Sei sveglio?” saranno implacabili.

Insomma si ricomincia. Dopo due settimane di ferie, come lo studente di una volta, il ritorno al lavoro con i consueti rituali e la rincorsa del tempo, delle coincidenze tramviarie, con l’orologio sotto controllo, accessorio che durante le vacanze evito di portare.

Prevedo un primo giorno di relax, nel senso che ci saranno varie cose da raccontare, la posta aziendale da leggere, i colleghi da salutare senza temere di venire appestato dal fumo, sia perché da alcuni mesi l’azienda ha predisposto zone di “free smoking”, sia perché in reparto non si è mai fumato. E poi è anche avanzato un panettone da consumare religiosamente.

Torno al lavoro diverso, con un blog da gestire (e forse nelle pause riuscirò a farlo meglio ed in orari più umani), ma soprattutto conservando negli occhi le immagini strazianti delle vittime del maremoto a cui si sono aggiunte, in una macabra gara al rialzo, anche le vittime di un incidente ferroviario per nulla imprevedibile. Ho pensato che pure io, fino a poco più un anno fa, mi ero trovato spesso a viaggiare su interregionali, anche in condizioni di tempo sfavorevoli, seppure su un’altra tratta. Sono stato fortunato.

La differenza, rispetto a due settimane fa, è però l’apocalisse che si è scatenata nel Sud-est asiatico e che ha fatto irruzione nelle feste, interrompendo il gaudente pasteggiare, mescolandosi con panettone e spumante, sollecitando emotività che si è allargata a dismisura. E adesso che i riflettori mediatici stanno spegnendosi, ho deciso che per me non può finire così. Quei brandelli di amore che sono rimasti impigliati nel mio cuore li convoglierò in quelle zone: sosterrò un bambino a distanza.

giovedì 6 gennaio 2005

La stella polare


Quegli scontrini che scivolano dal portafoglio mi colgono di sorpresa. Li raccolgo, rovisto nella borsa e, naturalmente, c’è ancora il biglietto del treno. La data è proprio quella dell’ultimo viaggio, quello di ritorno.


Gli scontrini li ammucchio da una parte e neppure li guardo, perché so già che mi riporteranno in "quel" bar, in "quel" ristorante, in "quella" gioielleria, da "quel" fioraio e non mancherà neppure quello della gelateria che frequentavamo immancabilmente. Lei cioccolato, nocciola, panna, io tuttifrutti. Poi assaggiava il mio cono ed io il suo. Quasi fosse, quello dello scambio, un rituale scaramantico, uno scacciapensieri da consumare rigorosamente assieme.


Ah, ci sono anche le foto della sua città. Alcuni fogli strappati da una rivista che corredava, con abbondanza di foto, un reportage. E a queste non riesco a sottrarmi. Ecco la piazza, il Duomo, il porticato: i miei occhi sono fissi su quelle immagini come se dovessero (e potessero) all’improvviso animarsi e dunque le persone camminare e poi, sì certo, rivedere noi due assieme.


Quante volte abbiamo passeggiato sotto quelle arcate incollati uno all’altra. Quante volte abbiamo attraversato quella piazza fino all’ingresso della cattedrale dove la seguivo, per non lasciarla neppure lì, anche se non sono credente. O almeno non lo sono più.


Rispettavo il suo raccoglimento, mi impressionava un pochino questa sua dimensione spirituale, evitavo però di chiederle a chi si rivolgesse e cosa chiedesse. Non ne abbiamo mai parlato. Penso sia stato l’unico aspetto che di Lei non ho voluto approfondire, chissà perché? Forse per non turbare la sua coscienza di donna allora separata, ma due anni prima,  quando ci eravamo conosciuti, ancora sposata? Anche in questo l’ho rispettata. Era un suo spazio riservato che non volevo invadere.


Torno sulla piazza, ne analizzo gli angoli e scorgo quelli dove ci eravamo fermati, di fronte ad una vetrina e riecheggiano anche le osservazione che facevo. La sua voce però non risuona.


La memoria è terribilmente e maledettamente prodigiosa. I pensieri, come uno sciame di moscerini, mi investono e infastidiscono ronzandomi attorno. Ripiego i fogli, metto da parte quelle immagini, le allontano. Ma la stessa cosa non posso fare con il vortice che ha preso a turbinarmi attorno. Chiudo gli occhi e quando li riapro è già buio. Saranno passate ore o minuti?


Alzo gli occhi al cielo e ricordo quella sera in cui uscimmo dopo cena per fare una passeggiata. Le stelle, mai così numerose, scintillavano nella volta celeste come fosse un immenso lunapark. Il cielo sembrava in festa per noi. A lei piaceva tanto osservarle, perché si vedeva riflessa in uno specchio. Poi mi indicava le costellazioni, la stella polare.... “Ma ce l’ho accanto!” – esclamai. Ad un tratto vide una stella cadere: “Dai, esprimi un desiderio”. Auspicai per Lei la felicità. Glielo confessai qualche mese più tardi. Ma i desideri non si devono rivelare, perché poi non si avverano. E, forse, per questo motivo adesso mi trovo così lontano da Lei, ormai più irraggiungibile della stella polare. Il suo, di desiderio, non l’ho invece mai saputo

mercoledì 5 gennaio 2005

La libreria dei sogni

Complici le iniziative editoriali dei due maggiori quotidiani italiani, ma pure io ci ho messo del mio frequentando periodicamente la “Feltrinelli”, mi sono ritrovato assediato dai libri. Che non è certo una gran brutta cosa, ma al contrario assai piacevole. Però con tutta la buona considerazione possibile, l’invasione "dolce" va regolamentata, per essere completamente apprezzata. In altri termini, una nuova libreria s’impone. In realtà, lo spazio esiguo disponibile richiede un mobile su misura, seppure solido e robusto, perciò si devono escludere Ikea et similia: è necessario un falegname.


Ora gli artigiani, almeno quelli di mia conoscenza e per essere stato allertato, sono bravi certo, ma possiedono l’imperdonabile difetto di tirarla molto per le lunghe. Tuttavia animato di ottimismo e pazienza telefono a colui che potrebbe risolvere il mio problema.


E’ il 17 dicembre e l’avvicinarsi delle ferie di fine anno, dovrebbe permettermi di sistemare, con tranquillità, quei libri impilati in una sede più consona, senza dover ricorrere ai ritagli di tempo.


Il conoscente che rintraccio è gentile e disponibile, si spinge addirittura a chiedermi per quando mi serve e, lusingato da tanta attenzione, non lo metto in difficoltà lanciandogli un: “Prima del 25”, bensì un più rassicurante: “Entro la fine dell’anno”. Mi sembra di cogliere che, anche dall’altra parte della cornetta, ci sia un sospiro di sollievo per una specie di scampato pericolo e già pregusto l’arrivo della nuova ospite. Anzi, nella mia fantasia i libri sono già tutti sistemati e catalogati. “Finalmente – mi dico - potrò anche conoscerne il numero esatto e magari ritrovare quel testo che ero certo di avere e non ricordo più dove l’abbia messo“. Tanto è questione di giorni, ormai. Il dado è stato tratto. Da lunedì 27 si metterà al lavoro e poi lui stesso mi ha assicurato che non ci impiegherà molto tempo, inoltre mi ha anche chiesto quale tipo di legno volessi e quindi....


Le feste natalizie passano, lo sguardo rassicurante si posa su quei volumi che, da tempo, attendono confinati nei vari cesti colorati e mi sembra anche di assaporarne il profumo (buonissimo quello della carta stampata). Immagino il “mio” falegname che trova le tavole adatte, le misura, le lavora. Adesso mi chiedo soltanto se sarà più opportuno telefonargli mercoledì oppure giovedì, perché essendo venerdì l’ultimo giorno dell’anno, non vorrei creargli problemi per il trasporto e la consegna. Opto per giovedì e, prima ancora di indicargli l’orario migliore, mi anticipa lui.


“Sai quella libreria?”


“Sì, quanto ti manca?”


“Ecco, a mancarmi è proprio il legno”


“Ma come, non sei un falegname?”


“Certo, ma dovevo ordinarlo e ormai a fine anno è tutto chiuso. Però ho fatto l’ordine e il 3 gennaio mi consegneranno il materiale. Poi non ci vorrà molto....”


Già cosa ci vuole? Sorrido, ringrazio, neppure sollecito più di tanto, perché mi vengono in mente quegli ammonimenti iniziali. E così, mentre le ferie stanno giungendo alla fine, i libri si sono ritrovati nel nuovo anno sempre nello stesso posto. La libreria è molto presente nella mente e il progetto, scarabocchiato su un foglio quadrettato, l’ho affisso nell’angolo vuoto. A fare da segnalibro...   

E spero che il legno gli sia arrivato e che abbia preso la giusta forma. Magari se non ci è riuscito Babbo Natale, c’è sempre la Befana che può intervenire.

martedì 4 gennaio 2005

Le memorie di un anno

L’anno 2005 sarà un lungo filo rosso che congiungerà anniversari, anche importanti, che fanno parte della nostra memoria collettiva, anche la più recente, ponendoci così di fronte a numerosi appuntamenti con la Storia. Desidero ricordare qui quelli che, secondo me, sono i più significativi.


 


3 gennaio 1925. Con un duro discorso alla Camera di Mussolini ha inizio la dittatura fascista.


6 gennaio 1980. Piersanti Mattarella, democristiano, presidente della Regione Sicilia, viene ucciso dalla mafia.


27 gennaio 1945. Le truppe sovietiche entrano ad Auschiwtz, liberano i sopravvissuti e riesumano migliaia di cadaveri.


4 febbraio 1945. Si apre la conferenza di Jalta, dove verrà deciso dalla nazioni vincitrici della Seconda guerra mondiale, la rispettiva sfera d’influenza sul pianeta.


12 febbraio 1980. Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e docente di diritto amministrativo, viene ucciso a Roma dalle Br.


21 febbraio 1965. Malcom X, leader dei musulmani neri, viene assassinato a New York.


10 marzo 1985. Michail Gorbaciov diventa segretario del Pcus e assume la guida dell’Unione Sovietica.


25 marzo 1980. L’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, fiero oppositore del regime militare di desta, viene colpito a morte mentre celebra la messa.


14 aprile 1955. Nasce il Patto di Varsavia in contrapposizione al Patto Atlantico.


18 aprile 1955. Muore a Princeton Albert Einstein.


25 aprile 1945. Le città del Nord Italia insorgono e i partigiani entrano nei centri maggiori, dopo aver liberato intere zone del paese dai nazifascisti. Sarà il grande anniversario dell’anno.


30 aprile 1975. Le forze nordvietnamite occupano Saigon che viene abbandonata dai soldati americani. La guerra del Vietnam è finita.


3 Maggio 1980. Emanuele Basile, capitano dei carabinieri, che sta indagando sul clan dei corleonesi, viene ucciso dalla mafia.


24 maggio 1915. L’Italia entra in guerra a fianco dell’Austria-Ungheria. E’ la Prima guerra mondiale.


29 maggio 1985. Strage allo stadio Heysel di Bruxelles prima della finale di Coppa dei campioni tra Juventus e Liverpool. I tifosi inglesi travolgono il settore occupato dagli italiani. Muoiono 39 persone, ma la gara si disputa ugualmente.


27 giugno 1980. Un Dc9 dell’Itavia precipita in mare, al largo di Ustica. Muoiono 81 persone. I depistaggi operati dai vertici dell’aeronautica militare impediscono l’accertamento della verità. Il film “Il muro di gomma” di Marco Risi rende efficacemente l’idea di questo mistero italiano.


15 luglio 1965. Inaugurazione del tunnel del Monte Bianco che collegherà Italia e Francia.


2 agosto 1980. Alla stazione di Bologna esplode, alle 10:25, una bomba nella sala d’aspetto. Muoiono 85 persone, 200 sono i feriti. La strage è fascista e viene attribuita ai terroristi Mambro e Fioravanti, quali esecutori materiali. Rimane molto oscuro il ruolo avuto, nella vicenda, dalla loggia massonica P2 di Licio Gelli. Una sosta davanti a quella lapide non manca mai nelle trasferte a Bologna.


6 agosto 1945. All’alba la prima bomba atomica viene sganciata, dagli Usa, su Hiroshima provocando una catastrofe senza precedenti. Tre giorni più tardi una seconda bomba colpisce Nagasaki.


30 settembre 1980. Iniziano le trasmissioni dell’emittente televisiva Canale5 di proprietà di Silvio Berlusconi. Venticinque anni di frullatura del cervello. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.


2 ottobre 1935. Mussolini annuncia l’inizio delle ostilità con l’Etiopia a cui seguiranno, nei giorni successivi, la conquista di Adua, Axum e Macallè.


4 ottobre 1965. Storico discorso all’Onu di Paolo VI sulla pace.


7 ottobre 1985. Un commando palestinese sequestra la nave da crociera Achille Lauro. Due giorni dopo, gli ostaggi, tranne un  cittadino statunitense ucciso, vengono liberati. Il 10 ottobre, presso la base navale di Sigonella, le truppe italiane prendono in consegna il commando di terroristi contro il volere degli Usa che ne pretendevano la consegna.


5 novembre 1995. Viene assassinato il premier israeliano Rabin, protagonista dello storico accordo con Arafat.


20 novembre 1945. Inizia il processo di Norimberga contro i criminali di  guerra nazisti.


20 novembre 1975. Muore in Spagna il generalissimo Franco e termina la dittatura militare. Gli iberici possono iniziare il loro cammino verso la democrazia.


8 dicembre 1965. Si chiude a Roma il Concilio Vaticano II.


8 dicembre 1980. A New York viene assassinato, da uno squilibrato, John Lennon.


10 dicembre 1985 Il Nobel per la letteratura viene attribuito a Eugenio Montale.



 


E’ vero, ci sono molti morti da ricordare, ma i vivi devono raccontare le storie dei morti, altrimenti questi non sono più nutrimento dell’anima, ma restano soltanto ombre. E un paese senza memoria, anche di loro, non ha futuro.