mercoledì 17 gennaio 2007

Il nero che avanza. E puzza.

 "A PERENNE RICORDO

DI

ANTONIO MARINO

CADUTO PER OPERA DI FORZE EVERSIVE

IL 12 APRILE 1973

MENTRE IN SERVIZIO GARANTIVA IL RISPETTO DELLA LEGGE

NELLA LEGALITA' DEMOCRATICA E COSTITUZIONALE"




IL COMITATO PERMANENTE

PER LA DIFESA ANTIFASCISTA

DELL'ORDINE REPUBBLICANO

 


Si rammaricava recentemente (11 gennaio) l’amica Marzia che, girando nella blogosfera, sta trovando sempre meno roba di qualità. Che io, invece, ho rintracciato dallo “scorpione” Lorenzo Calza, il quale scrive il 9 gennaio, per esempio, di fascismo riemergente da fogne troppo fragili. Verissimo, ha ragione. Le sue considerazioni fotografano perfettamente l'allarmante tendenza. Poi, qualche giorno più tardi leggo questo articolo su l’Unità.


Nico Azzi, funerali in chiesa con svastica

di Oreste Pivetta


l’Unità 13 gennaio 2007


“La basilica di Sant’Ambrogio, la più bella chiesa di Milano, dedicata al patrono della città, si è aperta ieri nella tarda mattinata per i funerali di Nico Giuseppe Azzi, fascista ed ex terrorista nero. Si è aperta anche ai naziskin, rapati a zero e in bomber e anfibi lustri che scortavano la bara, a un tricolore fascistissimo con l’aquila rampante sul fascio littorio, deposta su un cuscino di margherite bianche.

In attesa, sul sagrato altri addolorati camerati che sventolavano altre bandiere, stavolta con la croce celtica.


D’altra parte si sa che Nico Azzi, morto cinquantacinquenne per un colpo al cuore, si era avvicinato a Forza Nuova, che non s’è mai negato il piacere di certi lugubri simboli e che ieri, sul suo sito, ricordava Azzi così: «Le parole sono insufficienti a descrivere il dolore... Altrettanto povere sembrano le parole per descrivere il tributo di gratitudine e affetto che Nico ha saputo meritare nei confronti di tutte le generazioni forzanoviste, soprattutto verso le più giovani schiere militanti...». Nell’ideale eredità di Nico Azzi alcune bombe. La prima sarebbe dovuta esplodere sul treno Torino-Roma il 7 aprile 1973. Esplose invece tra le gambe di Azzi, mentre stava preparando l’innesco di due saponette di tritolo militare da mezzo chilo l’una nella toilette (dopo aver lasciato in giro, lui e i suoi compagni, un po’ di copie di Lotta Continua, tanto per far capire dove si dovessero cercare i colpevoli). Le altre erano le bombe a mano che aveva provveduto a fornire proprio lui per una manifestazione neofascista in quello stesso aprile a Milano: una venne lanciata e ferì un agente di pubblica sicurezza e un passante, la seconda uccise un altro agente, Antonio Marino, un ragazzo di ventidue anni. Vennero arrestati i responsabili, due fascisti, Maurizio Murelli e Vittorio Loi, il figlio del popolare Duilio, il campione di pugilato. Nico Azzi fu condannato per il treno a tredici anni di carcere, per le bombe a due: non le aveva lanciate, le aveva solo procurate. Al corteo di Milano non aveva partecipato Ignazio La Russa, che era allora segretario del Fronte della gioventù e che era entrato in prefettura per protestare contro i divieti imposti alla manifestazione.


Ignazio La Russa (con il fratello Romano, parlamentare europeo) era invece ieri in Sant’Ambrogio, per salutare il vecchio amico della Fenice, cioè la famiglia milanese di Ordine Nuovo, capeggiata da Giancarlo Rognoni, coinvolto nelle indagini per la strage di Piazza Fontana (e condannato in primo grado).


Che i funerali di un ex terrorista, che aveva dimostrato ben scarso e ben poco cristiano rispetto della vita degli altri, si siano celebrati in Sant’Ambrogio, la chiesa simbolo quanto il Duomo della comunità milanese, ha ovviamente creato qualche malumore. Nico Azzi, se si fosse pentito dei delitti compiuti e tentati, avrebbe sicuramente chiesto un addio più discreto. Lo speriamo, anche se la discrezione non appare certo guidare i comportamenti di terroristi, pentiti o no, rossi o neri. Persino l’abate di Sant’Ambrogio, monsignor De Scalzi, s’è sentito in dovere di giustificare: la figlia frequentava l’oratorio, non c’è attinenza con il valore simbolico della basilica. Durante l’omelia s’è sentito l’officiante ricordare quanto Nico Azzi fosse diventato padre premuroso: «A volte ci sembra imperfetta la vita delle persone, ma questo papà che è passato, è stato capace di lasciar cadere la goccia dell’amore. Nella vita di ogni persona niente va sprecato». Un padre premuroso, ricordava anche Ignazio La Russa, che insorgeva invece contro chi aveva sollevato obiezioni alla messa nella basilica milanese: «Dimenticano la pietà cristiana. Discriminazioni odiose...». Una chiesa, per quanto importante, non si sarebbe dovuta negare a nessuno, fascista o ex fascista. Per un funerale, poi... Forse la si sarebbe dovuta negare al fascio littorio, che è il simbolo di una tragedia e di ben più odiose discriminazioni (e persecuzioni). Ma una Chiesa, che non si è negata al terrorista nero Nico Azzi, la si è negata a un altro morto. La pietà cristiana si è ritratta, la Chiesa non ha aperto le braccia, all’improvviso si è scoperto un divieto, si è scoperta una scomunica. A Piergiorgio Welby, per l’estremo saluto, si è lasciata la strada”


Tanto per rimarcare quanto vomitevole sia stato questo funerale, celebrato con lugubri lustrini neri, occorre ricordare meglio chi era Nico Azzi. Un promemoria assai utile della nostra storia contemporanea, mentre le fogne si stanno aprendo e riversano liquami purulenti.


Una pagina della strategia della tensione che la destra vorrebbe fosse dimenticata, quando i neofascisti lanciarono bombe in centro uccidendo un agente di polizia


12 aprile 1973:il ”giovedi’ nero” di Milano

Saverio Ferrari


http://www.osservatoriodemocratico.org


3 giugno 2004









 



Alle 18,30 di giovedì 12 aprile 1973, nel corso di violenti scontri nel centro di Milano tra neofascisti e forze di Polizia, venivano lanciate due bombe a mano tipo SRCM contro un cordone di agenti, dislocato in Via Bellotti, poco oltre Via Kramer. A terra, ucciso sul colpo, rimaneva Antonio Marino di 22 anni, guardia di PS, colpito in pieno petto. Ben dodici i poliziotti feriti dalle schegge.

Erano i tempi della cosiddetta “Maggioranza Silenziosa” e di Piazza San Babila, stabilmente occupata da picchiatori neri appartenenti a tutte le principali formazioni della galassia dell’eversione di estrema destra, da Avanguardia Nazionale a Ordine Nuovo, a Lotta di Popolo.


Solo qualche giorno prima, il 7 aprile, all’altezza della stazione ferroviaria di Santa Margherita Ligure, Nico Azzi del gruppo “La Fenice” di Milano (la denominazione milanese di Ordine Nuovo), si feriva nel tentativo di compiere una strage sul direttissimo Torino-Genova-Roma. Nell’innescare in una toilette del treno due saponette di tritolo militare da mezzo chilo, un contatto, forse provocato da uno scossone della carrozza, faceva esplodere uno dei due detonatori.

L’attentatore con una gamba straziata veniva immediatamente arrestato. Ma Nico Azzi non aveva agito da solo. Con lui erano stati notati alcuni giovani che nei corridoi avevano a lungo ostentato copie del quotidiano Lotta Continua. La strage, collegata ad altri attentati, oltre che gettare il paese nel panico e spianare la strada a un governo militare, doveva infatti, attraverso false rivendicazioni, anche riorientare a sinistra le indagini su Piazza Fontana, da qualche mese pericolosamente sulle piste delle cellule di Ordine Nuovo del Veneto.

Giancarlo Rognoni, il capo de “La Fenice”, successivamente condannato per questo episodio, riusciva a fuggire in Spagna alla corte di Stefano Delle Chiaie, dove già avevano trovato rifugio Vincenzo Vinciguerra e Carlo Cicuttini responsabili dell’autobomba che il 31 maggio 1972 aveva dilaniato tre carabinieri a Peteano.

Ciccio Franco e Ignazio La Russa


La manifestazione da cui scaturirono gli scontri, quel 12 aprile del 1973, era stata da tempo promossa dal MSI-Destra Nazionale e dal Fronte della Gioventù per protestare, sembra surreale, contro “la violenza rossa”. In un primo momento il Questore, per motivi di “incolumità pubblica”, aveva vietato il corteo che da Piazza Cavour avrebbe dovuto raggiungere Piazza Tricolore, dove, tra gli altri, era previsto un comizio di Ciccio Franco, il capo dei “boia chi molla” della rivolta di Reggio Calabria. Per l’occasione era stato anche organizzato un massiccio afflusso di attivisti da diverse parti d’Italia. Ma nella stessa mattina del 12 aprile il Prefetto Libero Mazza vietava tutte le manifestazioni di carattere politico fino al giorno 25.

Nel pomeriggio, verso le 17,30, si radunarono presso la sede del MSI in Via Mancini alcune centinaia di giovani che di diressero verso Piazza Tricolore, a loro si aggregarono altri gruppi provenienti da Piazza Oberdan, altri ancora si attestarono in Corso Concordia. Qui, a ridosso di Piazza Tricolore, dopo che una delegazione del MSI (capitanata da Franco Maria Servello, il federale di Milano, l’On. Franco Petronio, Ciccio Franco e Ignazio La Russa, segretario regionale del Fronte della Gioventù) si era recata in Prefettura per protestare contro il divieto, veniva lanciata una prima bomba a mano che andava a ferire un agente di PS ed un passante. Successivamente, come detto, gli incidenti più gravi in Via Bellotti con l’uccisione dell’agente Marino. Moltissimi anche i danneggiamenti materiali e gli assalti, tra gli altri, alla Casa dello Studente, in Viale Romagna, e a un istituto magistrale, il “Virgilio”, in Piazza Ascoli, notoriamente di “sinistra”.

Il Sostituto Procuratore della Repubblica Dottor Guido Viola, nella sua requisitoria finale ebbe modo di scrivere: “sembravano un’orda di barbari intenta a distruggere, a saccheggiare, a ferire, a devastare”.


Gli arresti


Nel corso delle indagini che portarono in soli due giorni all’emissione di mandati di cattura nei confronti di Maurizio Murelli di 19 anni e Vittorio Loi di 21, il figlio dell’ex-campione di pugilato, accusati di aver lanciato le bombe, si appurò che i disordini erano stati programmati da tempo, ben prima dei divieti. Si ricostruirono con una certa precisione le riunioni tenute con i “sanbabilini” in alcuni bar della stessa piazza dagli emissari della federazione missina Pietro De Andreis, della direzione provinciale, e Nestore Crocesi. Furono chiarite anche le modalità attraverso cui si recuperarono pistole, molotov e mazze ferrate (poi portate in piazza), e soprattutto le tre bombe a mano, non casualmente fornite dallo stesso Nico Azzi. Tra i manifestanti furono, tra gli altri, individuati Mario Di Giovanni (arrestato nell’occasione), di lì a poco in Ordine Nero, processato e condannato nel 1974 a Varese per la detenzione di 3 chilogrammi di materiale esplodente, e Cesare Ferri, successivamente imputato e poi assolto per la strage di Piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1974.


Iscritti al Msi


Il MSI, in quei giorni convulsi, per cercare di allontanare da sé ogni responsabilità le provò tutte. Prima grottescamente emise una “taglia” di 5 milioni in favore di chiunque potesse fornire “indicazioni decisive per l’identificazione del colpevole” (intascata, si saprà in seguito, dal segretario provinciale del Fronte della Gioventù Gianluigi Radice, autore già il 12 sera della “soffiata” all’Ufficio Politico della Questura che porterà agli arresti), poi cercò di sostenere che i due arrestati nulla avevano a che fare con il partito. Ma la realtà non si poteva nascondere. Maurizio Murelli al momento della cattura aveva con imbarazzante evidenza in tasca la tessera del partito di Almirante e Vittorio Loi proveniva dalla “Giovane Italia”. Non solo, il MSI mise i 22 milioni che servirono agli imputati per risarcire i danni materiali e morali. Altri 20 furono promessi alla famiglia di Antonio Marino, attraverso l’On. Cotecchia, e mai versati, provocando anche una denuncia penale da parte di alcuni familiari.


Maurizio Murelli verrà alla fine condannato a 18 anni, Vittorio Loi a 19, Nico Azzi a 2. Cinque anni dopo i fatti, il 26 maggio 1978, il Tribunale di Milano assolveva incredibilmente i dirigenti missini dall’accusa di aver scatenato gli incidenti.

La lapide


Antonio Marino era nato in provincia di Caserta. Proveniva da una famiglia povera e numerosa: padre, madre e sette fratelli. Giovanissimo era emigrato in Germania. Poi nel 1971 era riuscito ad arruolarsi nella Pubblica Sicurezza. Percepiva uno stipendio mensile di 90 mila lire, di cui 50 mila spedite a casa. Se vogliamo, una storia di povertà come tante. In Via Bellotti ora c’è una lapide, fatta apporre dal Comitato Antifascista. Qualcuno, anni or sono, cercò anche di deturparla. Ogni 12 aprile le associazioni partigiane ricordano l’avvenimento deponendo una corona. La destra preferisce il silenzio.


1 commento:

  1. complimenti, frank....

    il fascismo risorge non tanto per "meriti" suoi quanto per demeriti e debolezza dell'anti-fascismo...

    Sermau

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