mercoledì 7 marzo 2007

Salvate il soldato Wilkinson


«La guerra è illegale, non torno più in quell'inferno» Parla il soldato Mark Wilkinson, sotto processo negli Stati uniti per essersi rifiutato di tornare a combattere in Iraq


Patricia Lombroso


il manifesto 1 marzo 2007


New York «Dopo il caso del sergente Camillo Mejia e quello dell'ufficiale Watada, ora spetta a me affrontare in questi giorni il processo davanti alla corte marziale come "disertore". Siamo colpevoli di un crimine inesistente. La guerra in Iraq è illegale ed è nostro diritto rifiutare di partecipare a questa aggressione americana. I comandi militari non vogliono sentirsi dire apertamente in questo momento che questa guerra ingiusta e illegale è sempre più impopolare proprio tra i soldati. Non è molto difficile dimostrarlo anche davanti ad una giuria militare. Comunque sono pronto a pagare. Io non tornerò mai più nell'inferno dell'Iraq». A raccontare la sua esperienza di resistente alle pressioni del Pentagono, è Mark Wilkinson di 22 anni, di stanza in Iraq dal marzo 2003 al maggio 2004, già intervistato allora in clandestinità come disertore (il manifesto del 21 giugno 2005), ora in attesa del processo davanti alla corte marziale della base militare di Forthood in Texas. La base militare di Forthood è una delle basi militari da dove partiranno i nuovi 21.000 soldati che Bush ha deciso di inviare in Iraq per l'escalation militare in Iraq.


A Washington i politici discutono ma a lei risulta che alcune truppe siano già partite?

La prima unità militare di cavalleria e già partita da qui per Baghdad. Il mio plotone, per la terza volta, dovrà tornare in Iraq, a maggio. Così ha deciso Bush.

Cosa pensano i soldati a Forthood per questa decisione del presidente?

La stragrande maggioranza dei soldati qui alla base militare è contraria alla continuazione della guerra. Dicono che la decisione di Bush non ha alcun senso né motivazione. I soldati della mia unita militare sostengono che non c'è per loro «nessuna missione» in quel fronte. Pensano soltanto di cercar di restar vivi e svolgere il lavoro assegnato. Hanno paura di rendere pubblica la loro opposizione a questa avventura militare, sanno che ora la guerra è diventata più impopolare, e sono consapevoli che i processi delle corti marziali che prima Watada e ora io stesso stiamo subendo, vengono seguiti attentamente. Apertamente i soldati ci dimostrano tutto il loro appoggio per il coraggio che dimostriamo e che loro ancora non riescono ad esprimere. Il Pentagono, due anni fa, ha ufficialmente reso pubblico il dato che dall'inizio della guerra sono 8000 i disertori che non tornano al fronte. A me risulta che siano 40.000 i soldati che in gergo militare sono definiti «absents of war», non tutti certo motivati politicamente. L'indice dei suicidi fra i soldati nel 2005 è salito al 19.9% dal 10% dell'anno precedente. Un dato che non comprende i suicidi di marines, nell'aviazione e nella Guardia nazionale. Nel 2005 sono stati 22 i soldati che si sono suicidati al fronte. Il Pentagono occulta tutti questi dati e questi problemi. Qui a Forthood sono tanti i casi di soldati devastati da alcoolismo e droga per quello che chiamano «post traumatic stress». Il Pentagono, alla disperata ricerca di «uomini» da inviare al fronte, non ha il benché minimo interesse rendere pubblico il fenomeno che si sta estendendo nelle basi militari tra i soldati che tornano dall'Iraq.

Qual è stata la sua esperienza di soldato in Iraq dal 2003 al 2004, se poi è finito davanti ad una corte marziale come disertore?


Sono andato in missione in Iraq dall'inizio dell'invasione nel 2003 fino al 2004. Sono stato a Tikrit, Samarra e in tutto il resto del paese come poliziotto militare. Quando son tornato negli Stati uniti nel 2004 quella esperienza sul campo mi aveva convinto a non andare mai più in quell'inferno. Inoltrai la richiesta come obiettore di coscienza. Come fece il sergente Mejia. Mi venne rifiutata dai militari, perché era «fondata su motivi politici», mi risposero. Allora i superiori mi ordinarono di tornare in Iraq per il secondo turno di servizio militare. Rifiutai di partire con la mia unità, nel gennaio del 2005. Entrai «in clandestinità» e fui classificato dal Pentagono come «absent of war», cioè come disertore. Ad agosto dello stesso anno decisi di costituirmi alla mia base militare a Forthood, consapevole di incorrere in punizioni disciplinari. Così i comandi hanno deciso di processarmi come disertore.


La sua esperienza di soldato in Iraq ha radicalmente cambiato le sue idee sulla guerra americana in Iraq?


La missione di polizia militare al fronte è stata la mia prima esperienza al di fuori della piccola comunità in Colorado dove sono cresciuto fino a quando, a 17 anni, venni spedito a Tikrit, dopo un addestramento militare di una sola settimana. Le regole d'ingaggio militare impartitemi alla partenza si sono poi rivelate inesistenti nel teatro di guerra. Venivo da una cittadina di tradizioni militari, dove non ci sono altre minoranza etniche né principi ed idee diverse da quelle grette dei cristiani evangelici. In Iraq mi sono confrontato con valori culturali e religiosi che ho trovato validissimi. Mi sono subito reso conto che la nostra missione era quella di distruggere tutto quello che incontravamo sulla rotta dei nostri convogli di humvee. Stavamo saccheggiando quel paese. Tra i soldati, esisteva quasi una gara di sadismo verso la popolazione. Contrariamente alla retorica dei «liberatori», mi resi conto che la popolazione irachena era ostile alla nostra presenza di occupanti. Gi ordini impartiti dai comandanti di irruzione nelle case di civili iracheni, costituivano spesso un passatempo sul tragitto per andare allo spaccio a comprare patatine fritte. Gli ordini di arresto ed irruzione non avevano alcun senso né giustificazione, se non quello di terrorizzare la popolazione irachena.


Il Pentagono, consapevole che scarseggiano i soldati da inviare per continuare l'occupazione, potrebbe risparmiarle il carcere purché lei torni in Iraq?

È possibile. Anche se non sono il soldato che a loro conviene mandare al fronte. Comunque non accetterò mai di tornare in Iraq. Sono pronto ad assumere le mie responsabilità e pagare per la mia opposizione a partecipare a qualsiasi guerra. Questa in Iraq è ingiusta e illegale.



Deve proprio essere un anarcoinsurrezionalista, militante nella sinistra radicale, antiamericano viscerale questo Mark Wilkinson. E poi gettare discredito sull'amministrazione Bush che sta esportando la democrazia nel mondo, rifiutarsi - inaudito - di collaborare attivamente per facilitare questo commercio, catastrofista, panciafichista. Sarà mica anche un comunista?


Soffiano brutti venti di guerra, sempre più impetuosi che convergono verso un unico obiettivo finale. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (Là dove fanno il deserto la chiamano pace. Tacito, De vita Agricolae). E solo allora si placheranno.


 


 


 

2 commenti:

  1. stefanomassamarzo 07, 2007

    interessante.

    grazie di averlo segnalato

    ciao stef

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  2. stef, grazie a te per aver apprezzato: si tratta di valutazioni "pesanti". Ciao.

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