Non sono mai stato un gran giocatore di carte. Sarebbe improprio perfino se mi definissi un giocatore della domenica. Facciamo da una, massimo due volte all’anno che sarebbero poi quelle canoniche del 25 e 31 dicembre. Eppure le carte, con la loro magia dell’imponderabile, mi hanno sempre affascinato.
Mi capitò tra le mani, non ricordo davvero come, un’enciclopedia del gioco che illustrava tutto lo scibile in materia. Passai giornate a compulsarla. Facevo solo la seconda elementare e, per uno strano motivo, mi erano proibite proprio le carte francesi, quelle su cui il volume si dilungava maggiormente, forse perchè viste come strumento peccaminoso, volano di giocate dove la posta in palio erano soldi, giochi da adulti di quelli duri e puri.
C’è stato un tempo in cui trovavo irresistibile assistere alle partite altrui, molto più divertente che giocare ed essere protagonisti. Luogo per antonomasia il tradizionale “Bar dello Sport”, quello sempre collocato in piazza, con l’insegna del Totocalcio ben visibile e raduno obbligato il lunedì, innanzitutto, per commentare il campionato di calcio con le fazioni già schierate in assetto di guerra verbale. Un gioco delle parti ripetuto e perciò rassicurante a cui nessuno si sottraeva. Ma poi, esauritesi le schermaglie e gli innocui residui velenosi, aveva luogo la rappresentazione classica.
Tavolo quadrato, bicchieri ai lati, sigarette accese e appoggiate in quelle memorabilia che sarebbero adesso i portacenere con logo Cinzano e la sfida tra i quattro migliori elementi iniziava. Nel fumoso salone altri tavoli erano in attività, ma presto la migrazione verso il tavolo principale diventava obbligata ed irresistibile. Battute, sfottò, ma poi quando la distribuzione della prima mano terminava calava un religioso silenzio e la muraglia umana accanto ai giocatori era impenetrabile. Chi aveva perduto il posto in prima fila, si faceva largo con la testa accontentandosi di posizioni improponibili, altri mantenevano un ostentato e snobistico distacco, ma intanto cercavano con lo sguardo un possibile varco in cui infiltrarsi.
La briscola prevedeva che la prima mano si giocasse in silenzio, poi era un susseguirsi di segni, parole, commenti, esasperanti attese e imprecazioni. I magnifici quattro al centro della scena diventavano di colpo matematici, statistici, psicologi, indovini e anche un po’ millantatori. C’era sempre chi riusciva a strappare un mormorio di meraviglia per aver azzeccato la giocata efficace e vincente. Al termine di ogni mano il putiferio. Chi aveva vinto commentava sarcastico, raccoglieva i consensi, si garantiva credibilità accrescendola. I perdenti si accusavano a vicenda, cercavano solidarietà negli spettatori tra i quali c’era sempre qualcuno che, immancabilmente, avrebbe giocato meglio di loro, tirando prima quella briscola, aggiungendo dopo un “carico” (l’asso o il tre). E, mentre il mazziere rimescolava con sapiente abilità le carte, restava ancora spazio per i commenti fino alla smazzata successiva. Si creava così un crescendo di tensione, perchè si entrava nella fase calda, quella che decideva le sorti finali della gara. A seguire la rivincita a tressette.
Gioco suggestivo, con poche parole gergali, adoperate in maniera secca alla stregua di un generale che impartisca ordini alla truppa. Come nella briscola, anche nel tressette è vietato scambiarsi informazioni dirette, ma è consentito farlo mediante termini o segni particolari. Naturalmente, trattandosi di parole o segnali «universali», è come se i giocatori parlino esplicitamente ed è appunto questo che rende suggestivo il gioco specie a chi è profano e fa da spettatore. Insomma una goduria. Con il compagno, però, si può comunicare, nel momento in cui tocca a lui giocare, in questo modo. Dire «busso», oppure battere un colpo sul tavolo, per invitare il compagno a far sua quella mano, con la carta più alta di cui dispone e a giocare subito dopo con analogo seme. Dire «striscio», o effettuare con una carta una strisciata sull’immaginario tappeto verde (quanti mazzi sacrificati così) a significare che si hanno in mano più carte dello stesso seme di quella che si cala. Dire «volo» o agitare una carta a mo’ di ali o ventaglio: quella che si sta giocando è l’ultima o l’unica di cui si dispone di quel seme.
Inutile dire che lo spettacolo erano la mimica e la gestualità accentuata, il mandarsi a quel paese (naturalmente con un linguaggio non così castigato), rinviando tutto alla fine, quando cioè la consegna del silenzio si poteva violare. A questo punto il turbinìo di parole raggiungeva il parossismo. I protagonisti del tavolo si elogiavano o maledicevano reciprocamente, mentre gli spettatori sapevano tutti, indistintamente, che non avrebbero giocato così quella carta. Da loro venivano le osservazioni più acuminate, ma si sa che dall’esterno sembra più facile tutto.
In questo modo il pomeriggio volava (si era nel tempo mai sufficientemente rimpianto dell’adolescenza) e la sfida terminava lasciando, sia tra i vinti che tra i vincitori, il desiderio inalterato di replicare tutto il giorno dopo. Fatalmente quando il tavolo principale veniva abbandonato anche la sala si svuotava, mentre calava un senso impalpabile di malinconia. Talvolta mi capitava anche di dirigermi verso altri giocatori, coppie magari improvvisate, che si trovavavo lì più per noia che per vera passione. A emozioni si stava a zero e allora non restava che prender la via di casa dove si rientrava sempre troppo tardi per i genitori, ma sempre in tempo per aprire libri e quaderni abbandonati sulla scrivania al ritorno da scuola. E così veniva presto sera.
17... scopa!
RispondiEliminaQuesto post parla di un mondo scomparso. Oggi sono rari perfino i "Bar Sport", anche nelle insegne che sono tutte con nomi strani, per lo più anglofoni.
RispondiEliminaNon si gioca più a carte. Anche gli anziani si rincoglioniscono davanti alla Tv e, quindi, non si ricordano neppure come si giocava.
Dalle mie parti si giocava il "madrasso", un misto fra "tressette" e "briscola"; non si poteva parlare e neppure farsi motti e gesti strani. Durante i tornei veniva inserito un divisorio che tagliava diagonalmente il tavolo e, pertanto, i due, non vedendosi, potevano intuire il gioco da fare solo in base alle carte che posava il compagno.
Alla fine, grandi discussioni! Per qualche partita le discussioni proseguivano anche per giorni.
Naturalmente c'erano quelli che, ovviamente con il senno di poi, avrebbero giocato in maniera diversa. Tutti si sentivano campioni ... a parole!
Nel piccolo paese nel cuore della Toscana, vicino alla mia casa di campagna, c'è un circolo dove d'estate si gioca a carte all'aperto, in una specie di grande terrazza che si affaccia sulla strada. Gente semplice, perlopiù anziani. Quando mi capita di passare accanto sento le loro voci a volte concitate, a volte irridenti... ci scappa anche qualche bestemmia ridicola ed improbabile detta senza intenzione di offendere.
RispondiEliminaEsistono ancora posti e persone come quelli che hai descritto.
Personalmente so giocare solo a scopa e a scala 40, ma preferisco passare in tempo in altro modo.
Ciao e un abbraccio da Fioredicampo.
Ma questo è quasi un reportage, Frank. Passo dopo passo si entra a fare capannello e guardare gli altri che giocano.
RispondiEliminaMi son fatta una cultura, leggendoti.
:)
Frank aiutami.
RispondiEliminaDi chi era quel raconto di quei 4 tizi che si accordavano per sfottere lo “spettatore scocciante”?
Quello che ricordo e’ : 4 tizi che giocano sempre a carte (al bar dello sport? Benni forse) stanchi del “guardone” che a fine partita rimprovera/critica tutti –dovevi giocare quella - tu dovevi fare cosi ecc. decidono di fare un gioco immaginario dando carte a caso, facendosi segni inventati li’ per li’, cambiando addirittura verso di gioco. Il tutto commentando con improbabile gergo. Finisce poi che .. oh caspita.. stavo per spilerare..
ciao, Paola
ultimiattimi, però che culo! :-))))
RispondiEliminaSergioYYY, mi hanno colpito due osservazioni: i nomi ormai storpiati dei bar (sarà anche qui la globalizzazione?) e quegli anziani che si rincoglioniscono davanti alla tv. Questo è l'oggi che fa sembrare un mondo incantato quel tempo (e si parla di 30-35 anni fa, non un secolo).
Fioredicampo, mi conforta questo tuo riscontro: frammenti di un mondo perduto. Conservane il dna. Pure io scopa e scala40 (pinnacolo imparato qualche anno fa mi aveva molto coinvolto) e non ti nascondo che passerei volentieri un po’ di tempo anche giocando a carte, per disintossicarmi. Un caro abbraccio.
marzia, sapessi quanta ne offri da te! Questa è cultura popolare, dei bei tempi andati e scrivere questo post mi ha fatto tornare indietro negli anni a rimpiangerli proprio tutti, comprese le atmosfere evocate. Grazie per l’apprezzamento. Un abbraccio.
Paola, vorrei tanto aiutarti, ma non ho sottomano il libro di Benni (che sospetto pure io possa essere l’autore del geniale episodi che sintetizzi). Anzi, a pensarci bene è molto probabile che neppure ce l’abbia questo testo veramente “cult”. Fa lo stesso? Io ci ho provato. Ciao ciao :-))))