venerdì 30 marzo 2007

Tra moglie e marito non mettere i Dico

 

I mariti


Pietro Grivon è il marito di Olga Cerise, la donna che in un giorno di giugno ha provato a affondare in un laghetto della Val d'Aosta tenendo in braccio un bimbo di 21 giorni. Le cronache lo raccontano così: " Pierino è uno di loro, e tutti sono pronti a descrivere la sua laboriosità. Le aveva fatto la promessa di una casa loro e l'ha mantenuta: non importa quanti turni di notte gli è costata, alla Baltea Disk, la ditta informatica del gruppo Olivetti".


Valter Pasini, 49 anni, è il marito di Elisa Barbato, la donna che a Imola in un giorno di maggio ha ucciso a coltellate la figlia di 7 anni e poi si è suicidata. La tragedia è stata scoperta dal marito della donna, di rientro dal lavoro. Le cronache lo raccontano così: "è considerato un gran lavoratore: oltre all'impiego come operaio all'Irce, grande azienda che produce cavi smaltati, coltiva anche un piccolo terreno a Dozza Imolese".


Venanzio Compagnoni, 39 anni, operaio edile, è il marito di Loretta Zen, la donna che un pomeriggio di domenica ha afferrato la piccola figlia Vittoria e l'ha infilata nel cestello della lavatrice. Anche di Venanzio raccontano le cronache: "lo conosce da sempre. 'Un gran lavoratore'. Uno che per mantenere la famiglia e vivere con dignità si spacca la schiena in una impresa edile del paese, guidando gli escavatori".


Mariti laboriosi, che si spaccano la schiena, nocciolo duro dell'Italia che lavora, che regge le crisi, che sta in trincea, in casamatte, in ridotti della vita, piccoli paesi con piccole fabbriche che punteggiano le valli, le pianure, le coste, dove la famiglia è ancora un vincolo potente e assillante e l'unico miracolo che si conosca è quello di una qualche madonnina che piange. E' quello che si costruisce con le proprie mani. Ma impotenti di fronte alla crisi dentro le loro case.


Uomini, mariti, che per primi assistono inermi a quello che è ormai un movimento sociale, un male oscuro, un male nero che emerge, come mai si riuscirà a fare con il lavoro nero: fa impressione leggere la sequenza.


11 agosto 2000 - a Castel del Sasso (Caserta) una maestra di 36 anni si uccide con le tre figlie di sei, due e un anno, saturando l'interno della macchina con i gas di scarico.


18 aprile 2001 - a Inzago (Milano) un impiegato di 40 anni torna a casa e trova il figlio di 19 mesi morto e la mamma impiccata a una trave del soffitto. La donna si è suicidata dopo aver soffocato il figlio.


29 giugno 2001 - a Cretone, una frazione di Palombara Sabina (Roma), una donna macedone di 36 anni, sposata con un italiano, uccide con 30 coltellate i suoi due figli di 5 e 6 anni.


12 settembre 2001 - a Limidi di Soliera (Modena), un uomo di 43 anni, al rientro a casa, trova il figlio autistico di 14 anni ucciso, soffocato da un sacchetto di plastica stretto attorno alla testa e la moglie, Paola Mantovani, 39 anni, legata e gettata in piscina. La donna attribuisce la responsabilità ad una banda di rapinatori, ma il 16 ottobre è accusata di omicidio premeditato.


27 ottobre 2001 - a Nove (Vicenza), una donna di 28 anni uccide, strangolandola con una calza di nylon, la figlia di 7 anni appena rientrata a casa da scuola. Il 29 confessa l'omicidio.


2 dicembre 2001 - a Vittuone (Milano) una donna di 40 anni uccide la figlia di 7 anni, infilandole un sacchetto di cellophane sulla testa e stringendoglielo al collo con i suoi collant di nylon. Poi si siede sul divano di casa, attendendo l'arrivo del marito.


19 febbraio 2002 - a Novara, una donna di 21 anni uccide la figlia di poco più di un mese, cercando con violenza di farla smettere di piangere.


E poi Loretta, Elisa, Olga.


Donne che uccidono i propri figli, che uccidono o provano a uccidere se stesse, che non degnano minimamente di attenzione l'ipotesi di uccidere il proprio compagno.


E' questa la cosa che più mi impressiona.


E pure: che odio puoi provare verso figure così sbiadite, insignificanti, "laboriose"?


Attenti pure, a modo loro: Valter Pasini avrebbe proposto a Elisa una visita da uno specialista privato; Pietro Grivon si era accorto che Olga "al cambio di stagione diventava depressa non è mai andata da nessun medico, nonostante le avessi detto che l'avrei accompagnata per farsi visitare". Preoccupati pure, a modo loro: chiederebbero aiuto agli specialisti. Una qualche medicina miracolosa ci sarà pure.


I mariti, sempre increduli, non trovano di meglio che ripetere come un mantra un concetto solo: "Io non capisco", patetiche figure di "razionale verità", del tentativo di salvare il salvabile mentre tutto si muove come una coperta gettata addosso un covo di serpenti, la casa è sbilenca, sta per crollare e tu cammini in piano sul pavimento inclinato: come quell'assurdità costruita e piantata nel cuore del giardino di Bomarzo. Quella rivelazione.


La casa sta prendendo fuoco.


Quella casa costruita a prezzo di sacrifici, di turni di notte, di straordinari, di orari massacranti - condivisi o imposti dalla necessità alla propria compagna. Di lavoro.


Quale prezzo sta pagando, ha pagato questo paese al benessere, ai modelli di consumo visti in tivvù? Dov'è l'amore? Ah, non ho proprio paura di dirlo: dov'è l'amore?


Quale prezzo stanno pagando le donne a quel loro rifluire dentro casa, al non riconoscersi nelle paillettes e nelle luci rutilanti, nel successo del lavoro, nel cercare faticosamente altri percorsi per resistere, per esistere? Quali silenzi assordanti rimbombano nelle loro orecchie come insopportabili realtà, una vita che non vale proprio la pena d'essere vissuta così, che non vale la pena i nostri figli vivano così, che se la vivano quelli che ci credono, perché toglierli di mezzo?


Donne che tolgono il disturbo.


Della loro inquietudine, della loro sofferenza, della loro irrequietezza che non si placa con la casa nuova dai bei tetti spioventi e le mura di mattoni a vista. Con rassicurazioni.


Che non sanno che farsene di medicine e specialisti [quelli, mandateli tutti in tivvù a ciacolare e rimpinguare il conto in banca].


Che non sanno che farsene dei loro uomini, dei loro mariti.


Non sono buoni neanche per essere uccisi, questi.


La casa brucia.


Succede questo.


Noi mariti, noi uomini, non lo capiamo.


E' già tardi.


Ma resteremo in vita, per quel che vale.


Lanfranco Caminiti 



Questo intenso pezzo l'avevo letto su “il manifesto”, a suo tempo, ma lo ritrovo nella cartella d'archivio con due date diverse (28 giugno e 1 luglio, sempre dello stesso anno, il 2002), forse pubblicato su siti diversi. Tuttavia non è rilevante questo aspetto, quanto piuttosto la freschezza del commento. Infatti, se eliminiamo tutti i riferimenti alle cronache di cinque anni fa (anche se l'episodio della madre che aveva provato ad affondare nel lago lo ricordo) resta un impianto non solo solido e ricco di stimoli, ma pure sorprendentemente attuale, laddove si delira sulle convivenze che sarebbero un attentato alla famiglia, con ingerenze pericolosissime che retrodatano questi giorni ai tempi della “questione romana” (1860) evidentemente mai risolta compiutamente, nonostante due concordati (che sono, giudizio personale, anacronistici), se si ripropone con inaudita virulenza l'invasione di campo vaticana con la “Nota del Consiglio Episcopale Permanente a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto”.


Ho evidenziato in grassetto le parti più significative di questo interessante articolo che, naturalmente, mi trova d'accordo soprattutto per l'impostazione che gli è stata data.


Un'ultima annotazione: mi è stato riferito che martedì sera a “Ballarò”, l'ex presidente della Camera si sia trovato in palese difficoltà parlando della sua compagna, perché – da fiero oppositore dei Dico - non sapeva come definirla, (frequentatrice di casini, non sarebbe stato male) e così se l'è cavata con un inusuale Azzurra, inusuale in quel contesto intendo. Ma d'altronde costoro hanno una faccia di bronzo e poi lui con quella bocca può proprio dire ciò che vuole, da democristiano doc: ossia l'ipocrisia fatta persona.


 


 

 

martedì 27 marzo 2007

Esplosione di primavera


La ragazzina multimediale è seduta, in autobus, di fronte a me. Accanto a lei una compagna di scuola. Entrambe ascoltano musica, dividendosi gli auricolari, dall’immancabile riproduttore mp3, appoggiato sulle gambe della prima.


La ragazzina multimediale ha tra le mani il telefonino (un Samsung) che tormenta febbrilmente. Le dita, lunghe e sottili, hanno unghie ben curate. Il medio della mano destra è ornato da una fedina d’argento. Nella narice sinistra brilla un diamantino. Ha capelli castano scuri, lisci, che le arrivano alle spalle, occhi vivaci, non annoiati. La bocca è carnosa, il naso proporzionato, i gesti privi di quella volgarità che sembra patrimonio genetico di molte coetanee.


Un’altra amica le chiede la macchina fotografica per vedere le foto che ha scattato il giorno prima. Lei sembra quasi schermirsi:”Non sono venute bene, c’era il vento”, mentre estrae dalla borsa a tracolla (il fatto che non abbia l’ingombrante zainetto depone benevolmente a suo favore) l’astuccio che racchiude l’Olympus e gliela porge. Poi posa il cellulare accanto alla chiavetta USB e cerca qualcosa nella sacca di pelle, ornata di frange. Stacca per qualche istante l’auricolare, per fornire una delucidazione alla compagna, chiude il telefonino e lo ripone nella borsa.


Rientra in possesso della macchina fotografica e passa di nuovo in rassegna qualche scatto, a tratti visibilmente compiaciuta. Si rassegna, infine, a staccare gli auricolari, perchè è quasi arrivata a destinazione. Un bacio all’amica del cuore, suppongo, perchè ho notato tenere complicità e prende tempo per confermare l’appuntamento pomeridiano con lei, quindi saluta Ila (la ragazza che guardava le foto) dileguandosi in tutta fretta.


Beata e sana, voglio pensare, gioventù.

venerdì 23 marzo 2007

Il blog tra toga e martello


Ritrovo un pezzo de “Il Sole-24Ore” che avevo accantonato, riguardante tutti noi, dico noi abitanti e peripatetici nella blogosfera. Si tratta di una sentenza di condanna che rischia di creare un precedente e, nello stesso tempo, adombra futuristici scenari oscuri per i troppo liberi. Giova solo constatare come, ancora una volta, i tempi della giurisprudenza siano sistematicamente in ritardo rispetto a nuove realtà e, male che vada, si può poi confidare nella burocrazia che rappresenta il vero centro di potere, almeno in Italia, in grado di accelerare (si fa per dire) o ritardare (più concretamente) riforme di qualunque genere. In ogni caso, troviamoci un buon avvocato. Non si sa mai.


Tribunale di Aosta. Nuovi media


Il blogger è equiparabile al direttore


Stefano Martello


IlSole-24Ore (6 novembre 2006)


Il titolare di un blog è assimilabile a un direttore responsabile in quanto «soggetto che ne aveva in disponibilità la gestione». Per questo può essere condannato per diffamazione sulla base dell’articolo 596 bis del Codice penale. Lo ha stabilito il Tribunale di Aosta con la sentenza n. 553 del 2006.


La decisione offre interessanti spunti di dibattito sui nuovi strumenti di informazione nati nella Rete e sulla conseguente tutela giuridica approntata per disciplinarli. La figura del direttore responsabile appare centrale; la stessa, infatti, si realizza solo se il soggetto, iscritto all’Albo nazionale dei giornalisti, adempie agli obblighi di registrazione previsti dal combinato disposto di cui all’articolo 1 della legge 62/2001 e dagli articoli 2 e 5 della Legge 47/1948 sulla stampa).


Lo strumento utilizzato — il blog — non prevede però alcun obbligo di registrazione presso il Tribunale, come avviene per le testate giornalistiche cartacee e in formato elettronico. Ponendo conseguentemente l’imputato “fuori” dall’ipotesi di responsabilità prevista dall’articolo 596 bis. Ma la sentenza del Tribunale di Aosta, oltre a evidenziare la mancanza di una normativa ad hoc per i nuovi strumenti multimediali, pone indirettamente il dilemma per cui: è possibile equiparare un blog a una testata giornalistica?

La giurisprudenza americana, per esempio, ha risposto affermativamente con una sentenza della Corte d’appello dello Stato della California (Ho28579 del 26 maggio 2006) che ha riconosciuto a tutti i blogger il diritto al segreto sulle fonti utilizzate, equiparandoli nei fatti a giornalisti. Ma attenzione, perché il giudice californiano non ha invocato a difesa della propria tesi il primo emendamento della Costituzione americana, bensì l’articolo 1 della legge dello Stato della California. Questo vuol dire che, pur assumendo la sentenza stessa valore di precedente giuridico, non è scontato che la medesima decisione possa essere emessa in un altro Stato americano. Senza contare le differenze operative che intercorrono tra il panorama italiano e quello Usa anche in termini di accesso alla professione giornalistica.


Se in Italia, infatti, si registrano sostanzialmente due scuole di pensiero — la prima che intravede nello strumento la concreta possibilità di una partecipazione democratica aperta a tutti, a fronte della seconda che ritiene lo strumento dispersivo e poco obiettivo nel trasferimento dell’informazione — negli Stati Uniti il blog ha assunto un vero e proprio ruolo credibile nel mondo dell’informazione.


Sicuramente, ritornando al panorama italiano, serve una normativa più incisiva, oggi inesistente, che riguardi tutta la Rete (ricomprendendo anche i blog) attraverso una maggiore comprensione, da parte del Legislatore, delle criticità presenti e delle peculiarità degli strumenti in esame.


http://www.ilsole24ore.com/norme La sentenza del Tribunale di Aosta


Foto:http://www.diegomolina.net/gallerie%20post/altre%20immagini/060929%20biella.jpg

martedì 20 marzo 2007

Il feudatario e il vassallo


Ad un lettore che si rammarica perché l’Italia dedica poca attenzione e scarse risorse alla difesa, così risponde Sergio Romano sul Corriere della Sera del 15 marzo 2007.(Il grassetto è mio).


“È vero che l'Italia spende troppo poco per la propria sicurezza. Ed è particolarmente vero in un momento in cui tutti i governi italiani, di destra o di sinistra, ritengono utile promuovere l'immagine del Paese nella politica internazionale inviando missioni militari talora encomiabili, ma troppo numerose per i nostri mezzi. I pochi soldi di cui dispongono le forze armate vengono così impiegati per mantenere presenze militari che stanno divorando le risorse del bilancio e impoverendo l'arsenale del Paese. È giusto quindi sostenere, che la difesa dell'Italia richiede un maggiore impegno finanziario.

Ma nel caso delle basi americane in Italia e in particolare di quella che gli Stati Uniti intendono raddoppiare a Vicenza, dovremmo chiederci anzitutto se questa presenza possa sopperire alle nostre carenze e garantirci una maggiore sicurezza. A questa domanda ho cercato di rispondere osservando che gran parte della strategia americana sembra essere dominata dalla necessità della «guerra al terrorismo». Abbiamo visto negli ultimi tempi come gli Stati Uniti concepiscano questa guerra. Hanno invaso l'Afghanistan come se l'operazione potesse esaurirsi nella eliminazione di un regime che aveva ospitato sul proprio territorio le milizie di Al Qaeda e hanno trascurato per molto tempo il problema della ricostruzione economica e civile del Paese. Con il risultato che il maggior problema oggi è la riconquista del territorio. Il caso iracheno è ancora più drammatico. Gli Stati Uniti hanno invaso il Paese con motivazioni infondate e con un contingente militare inadatto al controllo del territorio. E hanno suscitato una nuova guerra, molto più micidiale e sanguinosa. Se è questo l'uso che gli americani intendono fare delle loro basi dislocate nei cinque continenti, siamo davvero sicuri che la base di Vicenza possa garantire la nostra sicurezza? Molti si chiedono ormai da tempo se all'origine di questi errori non vi sia proprio il concetto di guerra al terrorismo. In un articolo apparso nell'International Herald Tribune del 9 febbraio, Joseph S. Nye jr., professore dell'università di Harvard e alto funzionario dell'amministrazione Clinton, ci ricorda che il maggior problema, nella lotta contro il terrorismo non è quello di sventare attentati e arrestare sospetti. La maggiore esigenza è quella di evitare che le organizzazioni terroristiche riempiano i vuoti dei militanti arrestati o uccisi con nuove reclute. L'espressione «guerra contro il terrorismo» ha fornito ai dirigenti delle organizzazioni islamiste l'occasione per affermare che l'America è in guerra contro l'Islam e che i giovani hanno quindi l'obbligo di rispondere all'appello correndo a combattere nelle file della «resistenza». L'espressione, in altre parole, si è ritorta contro coloro che l'hanno usata e contribuisce a ingrossare i ranghi dei loro nemici. Non è un caso che gli inglesi se ne siano accorti e abbiano deciso di abolire l'uso dell'espressione «guerra al terrorismo».

Combattere il terrorismo esige altre politiche. Occorre isolare i nemici, suscitare contro di essi la riprovazione delle società musulmane, impedire che dispongano di un territorio su cui combattere e di un retroterra su cui appoggiarsi. Sino a quando gli Stati Uniti non avranno modificato il loro vocabolario e la loro strategia, sarà lecito chiedersi quale uso intendano fare delle loro basi”.


L’editorialista del quotidiano milanese non appartiene certo alla cosiddetta sinistra radicale, i suoi giudizi sono generalmente improntati ad equilibrio e buon senso, sebbene talune considerazioni non si prestino ad essere condivise, ma la sua posizione sulle basi americane è assai apprezzabile. In sostanza, sostiene Romano, è meglio non avere basi Usa nella guerra al terrorismo. Altro che raddoppiarle.


Esistono inoltre altri aspetti, essenzialmente di carattere economico. Stando a quanto risulta dai documenti ufficiali di bilancio delle forze armate Usa, del Dipartimento della difesa e del Congresso degli Stati Uniti, l'Italia paga ogni anno il 37% dei costi delle basi e delle truppe americane di stanza nel nostro paese. Nel 2002, ad esempio, ognuno di noi, volente o meno, consapevole oppure no, ha partecipato alle spese militari americane per un ammontare di 326 milioni di dollari. Una parte della somma è stata versata in denaro liquido, il resto sotto forma di sgravi fiscali, sconti e forniture gratuite che riguardano trasporti, tariffe e servizi ai soldati e alle famiglie. La stragrande maggioranza dei pagamenti nascono da «accordi bilaterali» tra Italia e Stati Uniti, mentre solo una minima parte viene dalla divisione delle spese in ambito Nato. I pagamenti a Washington, tra l’altro, non finiranno nemmeno se le basi dovessero essere chiuse, come sta per accadere alla Maddalena, in quanto negli accordi esiste una clausola chiamata Returned property - residual value, che prevede un indennizzo per le «migliorie» apportate.


A questo punto se la guerra fredda poteva (forse) giustificare una parziale perdita della nostra sovranità nazionale, ora che questo pericolo non esiste più, non sarà il caso che questi parassiti invadenti lascino definitivamente il suolo italiano?


 

venerdì 16 marzo 2007

La Spagna illuminata


Zapatero, stessi diritti uomo-donna. Approvata la "Ley de Igualdad"


Acclamato, Zapatero dice: «Da sola giustifica la legislatura». Così il premier spagnolo si è espresso sulla legge che - come lui dice - vale i primi tre anni di governo. Si chiama Ley de Igualdad e darà alle donne la parità nelle liste elettorali e sul lavoro a cominciare dalle amministrazioni pubbliche passando anche per gli incarichi nei consigli d´amministrazione delle imprese. Insomma, si tratta di una misura che, progressivamente, porterà al riconoscimento delle pari opportunità tra i due sessi anche in tutti i posti sul lavoro.


Il testo è stato approvato in via definitiva dal parlamento spagnolo con l'astensione del centrodestra, che ha criticato in particolare la parità elettorale (non più del 60 per cento e non meno del 40 per cento per ciascun sesso). Che non si tratti di "quote rosa" ma del raggiungimento di una parità effettiva, lo si capisce già dalle percentuali fissate intorno al "fifty-fifty". E contestate dall´opposizione di centrodestra, al pari del progetto contenuto nella Ley de Igualdad che introduce, con percentuali simili, l'obbligo di procedere a una equa assegnazione degli incarichi entro otto anni ai vertici delle imprese.


Ma se il premier Josè Luis Rodriguez Zapatero, fuori del parlamento, ha ricevuto gli applausi di una piccola folla di donne, tra cui diverse deputate socialiste, che con tono scherzoso si sono rivolte al premier al grido di «Ista, ista, Zapatero feminista...», così non è stato all'interno delle Cortes, con le critiche dell'opposizione. Ciò detto, con il progetto della Ley de Igualdad si prevede un permesso di paternità di 15 giorni (un mese fra cinque anni), separato da quello della moglie, l'estensione del permesso di maternità nel caso di bambini prematuri o ospedalizzati e l'attribuzione della qualifica di rifugiate alle donne straniere che fuggano dai propri Paesi a causa della violenza sessuale e dei maltrattamenti.


Zapatero intervenendo in parlamento prima del voto ha detto che la legge - il cui scopo è «dare giustizia alle donne» - trasformerà «radicalmente» la società spagnola perché uomini e donne saranno ora «perfettamente eguali davanti alla legge». «Insieme a quella sull'assistenza alle persone dipendenti - ha dichiarato - questa legge vale tutta la legislatura». http://www.unita.it 15 marzo 2007


La gaffe di Buttiglione: senza figli non c'è famiglia


«Se non ci sono figli non c'è famiglia». Il filosofo senatore dell'Udc Rocco Buttiglione, cattolicissimo, pronuncia la frase con il suo sorrisino, mentre prende parte ai lavori della Commissione Giustizia al Senato dove inizia la discussione generale della legge sulle coppie di fatto. Sconcerto, all'inizio. Che vuoi dire «niente figli, niente famiglia»?. Cosa sono allora tutte quelle coppie che vivono insieme da anni, sposate o no, che per i più svariati motivi non hanno figli (compreso quello di non riuscire ad averne)? Buttiglione all'inizio, va dritto per la sua strada: «Di questa legge non si sente un gran bisogno in Italia, perché oltre il 96% delle coppie sono tradizionali, il 3% di quelle che convivono si sposano entro tre anni e gli altri sono separati e divorziati a cui non interessa ristabilire questo tipo di vincolo». Discorso a parte i gay. Riconoscergli i diritti riconosciuti alle famiglie sarebbe come «riconoscere loro un privilegio, perché è prevista un'azione di sostegno e riparazione da parte dello Stato solo verso la famiglia riconosciuta dalla Costituzione, perché in questa famiglia c'è qualcuno, nella maggior parte dei casi la donna, che si prende cura dei figli e che a parità di merito rispetto agli uomini è destinata a raggiungere obiettivi professionali inferiori». Cioè, «se non c'è una struttura ordinata ad accogliere i figli, sia che i figli ci siano sia che non ci siano, non si può parlare di famiglia». Poi, dopo qualche richiesta di chiarimento, il senatore fa marcia indietro: «II matrimonio è fatto per creare l'ambiente ideale per generare ed educare i figli. È ovvio poi che se i figli non arrivano la famiglia c'è lo stesso. È altrettanto vero - aggiunge però - che una convivenza che, a priori, non può avere figli, non è famiglia». l’Unità 15 marzo 2007


TITOLO II


RAPPORTI ETICO-SOCIALI


Art. 29.


La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.


Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.


L’articolo della Costituzione lo riporto integralmente, perchè di sciocchezze ne ho sentite tante in proposito e, come si può leggere, non esiste la distinzione tra uomo e donna, come i teo-dem, i neo-com e mastellonidi vari si affannano a ripetere. Tanto vuole la precisione.


Poi ci sono due esponenti politici, uno molto aperto e sicuramente appartenente al terzo millennio, mentre l’altro (italiano o italiota a scelta o entrambi) proviene direttamente dal convento del “Nome della Rosa”. Quando ho ascoltato le parole del sedicente filosofo ho sussultato e mi aspettavo anche un commento nel notiziario che, invece, sotto l’aria della normalizzazione che spira non c’è stato, perchè quando non sono gli Usa ci pensa il Vaticano a dettare la linea editoriale. E così la stupidaggine del Buttiglione è passata sotto silenzio. Analogamente non mi sembra ci siano state corrispondenze da Madrid (ma sicuramente ero distratto io) per comunicare il grande passo in avanti sulla strada della civiltà, avvenuto con l’approvazione della legge voluta da Zapatero sulla vera parità uomo-donna.


Non so se anche in Spagna le donne si siano sottomesse al rito obbligato dell’8 marzo che qui in Italia fa contenti floricoltori, ristoratori e commercianti, illudendo per una notte le donne vessate dalla mimosa, ma sicuramente è quello di Zapatero il modo migliore per riconoscere la piena dignità al sesso femminile in ogni ambito, non sull’onda di alati pensieri e vezzeggiamenti, ma nei fatti.


Non è che potremmo avere, anche solo per un mese, il leader spagnolo da noi? Da solo vale tutta la caracollante compagine governativa nostrana che ormai è il meglio del peggio, perchè sia chiaro che l’altro e i suoi compari sono da voltastomaco. W Zapatero.

lunedì 12 marzo 2007

A carte scoperte


Non sono mai stato un gran giocatore di carte. Sarebbe improprio perfino se mi definissi un giocatore della domenica. Facciamo da una, massimo due volte all’anno che sarebbero poi quelle canoniche del 25 e 31 dicembre. Eppure le carte, con la loro magia dell’imponderabile, mi hanno sempre affascinato.


Mi capitò tra le mani, non ricordo davvero come, un’enciclopedia del gioco che illustrava tutto lo scibile in materia. Passai giornate a compulsarla. Facevo solo la seconda elementare e, per uno strano motivo, mi erano proibite proprio le carte francesi, quelle su cui il volume si dilungava maggiormente, forse perchè viste come strumento peccaminoso, volano di giocate dove la posta in palio erano soldi, giochi da adulti di quelli duri e puri.


C’è stato un tempo in cui trovavo irresistibile assistere alle partite altrui, molto più divertente che giocare ed essere protagonisti. Luogo per antonomasia il tradizionale “Bar dello Sport”, quello sempre collocato in piazza, con l’insegna del Totocalcio ben visibile e raduno obbligato il lunedì, innanzitutto, per commentare il campionato di calcio con le fazioni già schierate in assetto di guerra verbale. Un gioco delle parti ripetuto e perciò rassicurante a cui nessuno si sottraeva. Ma poi, esauritesi le schermaglie e gli innocui residui velenosi, aveva luogo la rappresentazione classica.


Tavolo quadrato, bicchieri ai lati, sigarette accese e appoggiate in quelle memorabilia che sarebbero adesso i portacenere con logo Cinzano e la sfida tra i quattro migliori elementi iniziava. Nel fumoso salone altri tavoli erano in attività, ma presto la migrazione verso il tavolo principale diventava obbligata ed irresistibile. Battute, sfottò, ma poi quando la distribuzione della prima mano terminava calava un religioso silenzio e la muraglia umana accanto ai giocatori era impenetrabile. Chi aveva perduto il posto in prima fila, si faceva largo con la testa accontentandosi di posizioni improponibili, altri mantenevano un ostentato e snobistico distacco, ma intanto cercavano con lo sguardo un possibile varco in cui infiltrarsi.


La briscola prevedeva che la prima mano si giocasse in silenzio, poi era un susseguirsi di segni, parole, commenti, esasperanti attese e imprecazioni. I magnifici quattro al centro della scena diventavano di colpo matematici, statistici, psicologi, indovini e anche un po’ millantatori. C’era sempre chi riusciva a strappare un mormorio di meraviglia per aver azzeccato la giocata efficace e vincente. Al termine di ogni mano il putiferio. Chi aveva vinto commentava sarcastico, raccoglieva i consensi, si garantiva credibilità accrescendola.  I perdenti si accusavano a vicenda, cercavano solidarietà negli spettatori tra i quali c’era sempre qualcuno che, immancabilmente, avrebbe giocato meglio di loro, tirando prima quella briscola, aggiungendo dopo un “carico” (l’asso o il tre). E, mentre il mazziere rimescolava con sapiente abilità le carte, restava ancora spazio per i commenti fino alla smazzata successiva. Si creava così un crescendo di tensione, perchè si entrava nella fase calda, quella che decideva le sorti finali della gara. A seguire la rivincita a tressette.


Gioco suggestivo, con poche parole gergali, adoperate in maniera secca alla stregua di un generale che impartisca ordini alla truppa. Come nella briscola, anche nel tressette è vietato scambiarsi informazioni dirette, ma è consentito farlo mediante termini o segni particolari. Naturalmente, trattandosi di parole o segnali «universali», è come se i giocatori parlino esplicitamente ed è appunto questo che rende suggestivo il gioco specie a chi è profano e fa da spettatore. Insomma una goduria. Con il compagno, però, si può comunicare, nel momento in cui tocca a lui giocare, in questo modo. Dire «busso», oppure battere un colpo sul tavolo, per invitare il compagno a far sua quella mano, con la carta più alta di cui dispone e a giocare subito dopo con analogo seme. Dire «striscio», o effettuare con una carta una strisciata sull’immaginario tappeto verde (quanti mazzi sacrificati così) a significare che si hanno in mano più carte dello stesso seme di quella che si cala. Dire «volo» o agitare una carta a mo’ di ali o ventaglio: quella che si sta giocando è l’ultima o l’unica di cui si dispone di quel seme.


Inutile dire che lo spettacolo erano la mimica e la gestualità accentuata, il mandarsi a quel paese (naturalmente con un linguaggio non così castigato), rinviando tutto alla fine, quando cioè la consegna del silenzio si poteva violare. A questo punto il turbinìo di parole raggiungeva il parossismo. I protagonisti del tavolo si elogiavano o maledicevano reciprocamente, mentre gli spettatori sapevano tutti, indistintamente, che non avrebbero giocato così quella carta. Da loro venivano le osservazioni più acuminate, ma si sa che dall’esterno sembra più facile tutto.


In questo modo il pomeriggio volava (si era nel tempo mai sufficientemente rimpianto dell’adolescenza) e la sfida terminava lasciando, sia tra i vinti che tra i vincitori, il desiderio inalterato di replicare tutto il giorno dopo. Fatalmente quando il tavolo principale veniva abbandonato anche la sala si svuotava, mentre calava un senso impalpabile di malinconia. Talvolta mi capitava anche di dirigermi verso altri giocatori, coppie magari improvvisate, che si trovavavo lì più per noia che per vera passione. A emozioni si stava a zero e allora non restava che prender la via di casa dove si rientrava sempre troppo tardi per i genitori, ma sempre in tempo per aprire libri e quaderni abbandonati sulla scrivania al ritorno da scuola. E così veniva presto sera.

giovedì 8 marzo 2007

Profumo di donna


Ci fanno compagnia certe lettera d'amore

parole che restano con noi,

e non andiamo via

ma nascondiamo del dolore

che scivola, lo sentiremo poi,

abbiamo troppa fantasia, e se diciamo una bugia

è una mancata verità che prima o poi succederà

cambia il vento ma noi no

e se ci trasformiamo un po'

è per la voglia di piacere a chi c'è già o potrà arrivare a stare con noi,

siamo così

è difficile spiegare

certe giornate amare, lascia stare, tanto ci potrai trovare qui,

con le nostre notti bianche,

ma non saremo stanche neanche quando ti diremo ancora un altro "si".

In fretta vanno via della giornate senza fine,

silenzi che familiarità,

e lasciano una scia le frasi da bambine

che tornano, ma chi le ascolterà...

E dalle macchine per noi

i complimenti dei playboy

ma non li sentiamo più

se c'è chi non ce li fa più

cambia il vento ma noi no

e se ci confondiamo un po'

è per la voglia di capire chi non riesce più a parlare

ancora con noi.

Siamo così, dolcemente complicate,

sempre più emozionate, delicate ,

ma potrai trovarci ancora qui

nelle sere tempestose

portaci delle rose

nuove cose

e ti diremo ancora un altro "si",

è difficile spiegare

certe giornate amare, lascia stare, tanto ci potrai trovare qui,

con le nostre notti bianche,

ma non saremo stanche neanche quando ti diremo ancora un altro "si"


Fiorella Mannoia “Quello che le donne non dicono” Le Canzoni (1993)


Dedicata alle donne, ad una in particolare. Con un sorriso, anzi tanti sorrisi. Da chi detesta l’8 marzo, ma non certo le donne, anche se sono “dolcemente complicate”.


 

mercoledì 7 marzo 2007

Salvate il soldato Wilkinson


«La guerra è illegale, non torno più in quell'inferno» Parla il soldato Mark Wilkinson, sotto processo negli Stati uniti per essersi rifiutato di tornare a combattere in Iraq


Patricia Lombroso


il manifesto 1 marzo 2007


New York «Dopo il caso del sergente Camillo Mejia e quello dell'ufficiale Watada, ora spetta a me affrontare in questi giorni il processo davanti alla corte marziale come "disertore". Siamo colpevoli di un crimine inesistente. La guerra in Iraq è illegale ed è nostro diritto rifiutare di partecipare a questa aggressione americana. I comandi militari non vogliono sentirsi dire apertamente in questo momento che questa guerra ingiusta e illegale è sempre più impopolare proprio tra i soldati. Non è molto difficile dimostrarlo anche davanti ad una giuria militare. Comunque sono pronto a pagare. Io non tornerò mai più nell'inferno dell'Iraq». A raccontare la sua esperienza di resistente alle pressioni del Pentagono, è Mark Wilkinson di 22 anni, di stanza in Iraq dal marzo 2003 al maggio 2004, già intervistato allora in clandestinità come disertore (il manifesto del 21 giugno 2005), ora in attesa del processo davanti alla corte marziale della base militare di Forthood in Texas. La base militare di Forthood è una delle basi militari da dove partiranno i nuovi 21.000 soldati che Bush ha deciso di inviare in Iraq per l'escalation militare in Iraq.


A Washington i politici discutono ma a lei risulta che alcune truppe siano già partite?

La prima unità militare di cavalleria e già partita da qui per Baghdad. Il mio plotone, per la terza volta, dovrà tornare in Iraq, a maggio. Così ha deciso Bush.

Cosa pensano i soldati a Forthood per questa decisione del presidente?

La stragrande maggioranza dei soldati qui alla base militare è contraria alla continuazione della guerra. Dicono che la decisione di Bush non ha alcun senso né motivazione. I soldati della mia unita militare sostengono che non c'è per loro «nessuna missione» in quel fronte. Pensano soltanto di cercar di restar vivi e svolgere il lavoro assegnato. Hanno paura di rendere pubblica la loro opposizione a questa avventura militare, sanno che ora la guerra è diventata più impopolare, e sono consapevoli che i processi delle corti marziali che prima Watada e ora io stesso stiamo subendo, vengono seguiti attentamente. Apertamente i soldati ci dimostrano tutto il loro appoggio per il coraggio che dimostriamo e che loro ancora non riescono ad esprimere. Il Pentagono, due anni fa, ha ufficialmente reso pubblico il dato che dall'inizio della guerra sono 8000 i disertori che non tornano al fronte. A me risulta che siano 40.000 i soldati che in gergo militare sono definiti «absents of war», non tutti certo motivati politicamente. L'indice dei suicidi fra i soldati nel 2005 è salito al 19.9% dal 10% dell'anno precedente. Un dato che non comprende i suicidi di marines, nell'aviazione e nella Guardia nazionale. Nel 2005 sono stati 22 i soldati che si sono suicidati al fronte. Il Pentagono occulta tutti questi dati e questi problemi. Qui a Forthood sono tanti i casi di soldati devastati da alcoolismo e droga per quello che chiamano «post traumatic stress». Il Pentagono, alla disperata ricerca di «uomini» da inviare al fronte, non ha il benché minimo interesse rendere pubblico il fenomeno che si sta estendendo nelle basi militari tra i soldati che tornano dall'Iraq.

Qual è stata la sua esperienza di soldato in Iraq dal 2003 al 2004, se poi è finito davanti ad una corte marziale come disertore?


Sono andato in missione in Iraq dall'inizio dell'invasione nel 2003 fino al 2004. Sono stato a Tikrit, Samarra e in tutto il resto del paese come poliziotto militare. Quando son tornato negli Stati uniti nel 2004 quella esperienza sul campo mi aveva convinto a non andare mai più in quell'inferno. Inoltrai la richiesta come obiettore di coscienza. Come fece il sergente Mejia. Mi venne rifiutata dai militari, perché era «fondata su motivi politici», mi risposero. Allora i superiori mi ordinarono di tornare in Iraq per il secondo turno di servizio militare. Rifiutai di partire con la mia unità, nel gennaio del 2005. Entrai «in clandestinità» e fui classificato dal Pentagono come «absent of war», cioè come disertore. Ad agosto dello stesso anno decisi di costituirmi alla mia base militare a Forthood, consapevole di incorrere in punizioni disciplinari. Così i comandi hanno deciso di processarmi come disertore.


La sua esperienza di soldato in Iraq ha radicalmente cambiato le sue idee sulla guerra americana in Iraq?


La missione di polizia militare al fronte è stata la mia prima esperienza al di fuori della piccola comunità in Colorado dove sono cresciuto fino a quando, a 17 anni, venni spedito a Tikrit, dopo un addestramento militare di una sola settimana. Le regole d'ingaggio militare impartitemi alla partenza si sono poi rivelate inesistenti nel teatro di guerra. Venivo da una cittadina di tradizioni militari, dove non ci sono altre minoranza etniche né principi ed idee diverse da quelle grette dei cristiani evangelici. In Iraq mi sono confrontato con valori culturali e religiosi che ho trovato validissimi. Mi sono subito reso conto che la nostra missione era quella di distruggere tutto quello che incontravamo sulla rotta dei nostri convogli di humvee. Stavamo saccheggiando quel paese. Tra i soldati, esisteva quasi una gara di sadismo verso la popolazione. Contrariamente alla retorica dei «liberatori», mi resi conto che la popolazione irachena era ostile alla nostra presenza di occupanti. Gi ordini impartiti dai comandanti di irruzione nelle case di civili iracheni, costituivano spesso un passatempo sul tragitto per andare allo spaccio a comprare patatine fritte. Gli ordini di arresto ed irruzione non avevano alcun senso né giustificazione, se non quello di terrorizzare la popolazione irachena.


Il Pentagono, consapevole che scarseggiano i soldati da inviare per continuare l'occupazione, potrebbe risparmiarle il carcere purché lei torni in Iraq?

È possibile. Anche se non sono il soldato che a loro conviene mandare al fronte. Comunque non accetterò mai di tornare in Iraq. Sono pronto ad assumere le mie responsabilità e pagare per la mia opposizione a partecipare a qualsiasi guerra. Questa in Iraq è ingiusta e illegale.



Deve proprio essere un anarcoinsurrezionalista, militante nella sinistra radicale, antiamericano viscerale questo Mark Wilkinson. E poi gettare discredito sull'amministrazione Bush che sta esportando la democrazia nel mondo, rifiutarsi - inaudito - di collaborare attivamente per facilitare questo commercio, catastrofista, panciafichista. Sarà mica anche un comunista?


Soffiano brutti venti di guerra, sempre più impetuosi che convergono verso un unico obiettivo finale. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (Là dove fanno il deserto la chiamano pace. Tacito, De vita Agricolae). E solo allora si placheranno.


 


 


 

lunedì 5 marzo 2007

Foto-ricordo


La foto, del 28 febbraio 2007, tratta dal blog del caro Tafanus, si commenta da sola, come spesso si ama dire. L’Aula è quella del Senato della Repubblica e lor signori sarebbero stati pronti a mostrare gli squallidi manifesti, listati a lutto, come ultras della Curva Sud. Resta un mistero l’uso che, degli stessi è stato fatto, dopo il voto di fiducia che il Governo ha ottenuto. Si suol dire, anche, che la madre degli imbecilli è sempre incinta, ma qui quanti parti plurigemellari ha dovuto sfornare questa donna opima?

domenica 4 marzo 2007

15 anni dopo - 3


la Repubblica - Venerdì, 28 febbraio 1992 - pagina 11


LA SFIDA TRASVERSALE Dopo il blitz nell' ufficio di via Castelfidardo


CRAXI: 'CHIESA NON E' IL PSI' MA I MILIARDI ERANO SOLO SUOI?


MILANO - Fin dove arrivavano gli affari privati dell'ingegner Mario Chiesa, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio finito a San Vittore? E dove cominciava invece il suo ruolo di grand commis della lottizzazione e di finanziatore delle campagne elettorali del Psi milanese e dei suoi vip? E' su questo sottile confine che si muovono ora le indagini della magistratura. Ieri Bettino Craxi ha rilasciato una dichiarazione che è significativa dell' impatto pesante dell' operazione della Procura sul partito del Garofano: "Io sono uno che lavora per tessere una tela, per creare un'immagine: davanti a episodi come quello di Milano mi viene un grande sconforto", ha detto Craxi all'agenzia Italia, aggiungendo: "Dopo lo sconforto, però, ho riflettuto e mi sono documentato. In cinquant'anni di storia degli enti cittadini milanesi non c'è stato un solo amministratore socialista condannato per gravi reati contro la pubblica amministrazione. Il fatto di Chiesa è grave, ma non può deturpare l'immagine socialista. I partiti a volte si trovano in difficoltà come certe famiglie che scoprono che c'è un ragazzo poco di buono: è difficile trovare i rimedi preventivi, importante è essere inflessibili". Solo lo sviluppo delle indagini potrà dire quanto la tesi del "ragazzo poco di buono" applicata all'ingegner Mario Chiesa abbia la possibilità di reggere. L'irruzione dell'altra notte nell'ufficio segreto di Chiesa in via Castelfidardo ha portato gli investigatori di fronte alle tracce di un frettoloso repulisti: non un documento, non una traccia degli affari svolti da Chiesa per anni in questa sede. Dove sono finiti gli scatoloni di documenti che, nell'imminenza dell'arresto, qualcuno aveva scaricato nei locali? Anche a questa domanda il giudice Di Pietro cerca una risposta, mentre continua la caccia al tesoro-Chiesa: gli undici miliardi sequestrati finora costituirebbero, secondo una stima approssimativa, poco più della metà del suo patrimonio. Un patrimonio che, secondo un collaboratore dell'imputato intervistato ieri da un quotidiano milanese, alimentava le campagne elettorali degli esponenti del Garofano: "Chiesa ha stampato i santini a Bobo Craxi, gli pagava i manifesti. Ha sostenuto Bobo e Ricotti (Maurizio Ricotti, capogruppo in Regione, ndr). A Milano Chiesa aveva messo insieme il venti per cento delle tessere" ha candidamente dichiarato il suo portaborse, Gregorio Marataro, segretario della sezione psi di Chiesa.



la Repubblica - Domenica, 1 marzo 1992 - pagina 17


PIERO COLAPRICO


Scandalo della tangente a Milano: resta in carcere il presidente dell'istituto per l'assistenza agli anziani


CHIESA, INGEGNER MILIARDO


Trovati altri conti per oltre trecento milioni di lire. In tutto sono stati recuperati 11 miliardi. Sentita come testimone anche la moglie separata. E gli affari dell’imprenditore diventano un fumetto ciclostilato


MILANO - Mario Chiesa passerà alla storia come uno degli uomini più ricchi di Milano. Gli investigatori, infatti, hanno appena recuperato alcuni libretti al portatore per 300 milioni, "riconducibili", secondo il sostituto procuratore della Repubblica Antonio Di Pietro, al presidente della Baggina, l'istituto d'assistenza agli anziani milanesi. In dieci giorni, insomma, Chiesa, 47 anni, protagonista d'uno dei più grossi "scandali della tangente" degli ultimi tempi, ha visto finire sotto sequestro quasi 11 miliardi, tra soldi e titoli contenuti in due cassette di sicurezza o depositati in alcuni conti correnti. E 116 milioni in contanti gli sono stati trovati in casa. Oltre, naturalmente, ai 7 milioni del "pizzo" che gli sono stati trovati addosso, tredici giorni fa e per cui è finito in galera. Per lui non ci sarà rito abbreviato: per ora Chiesa resta in carcere, cella singola a San Vittore. Ieri è stata giornata di interrogatori. Anche il cupo e barbuto Mario Sciannameo, il "principe" delle pompe funebri milanesi, amico e socio di Chiesa, è stato ascoltato per tre ore in un prefabbricato sistemato nel cortile di palazzo di giustizia, dove hanno la sede alcuni uffici distaccati dei carabinieri. Emergono inoltre altri particolari sull'immobiliarista Virgilio Battanta, che ha acquistato (sottocosto, secondo una denuncia penale) alcuni palazzi della Baggina, presieduta appunto da Chiesa. C'è pensino una fanzine, un giornale ciclostilato da un gruppo di inquilini sfrattati dalla Baggina, che ripercorre in diciotto pagine la storia della compravendita velocissima, delle corsie preferenziali per alcune immobiliari, dell' inchiesta archiviata in Procura dal giudice Guido Viola. È da tempo che Di Pietro si occupa del potente imprenditore e delle scatole cinesi delle sue società. Il pm, infatti, un anno fa chiese alla Guardia di Finanza di indagare su un turbine di immobiliari, tutte società a responsabilità limitata, con 20 milioni di capitale, che acquistavano stabili e li rivendevano poco dopo, incamerando un profitto invidiabile. Queste società, con un trucco adoperato spesso dai commercialisti, trasferivano la sede in altre città, cambiavano amministratori, poi scomparivano nell'inattività per aggirare il fisco. Dietro le immobiliari "in fuga" dalla città, il Pm intendeva accertare se ci fossero delle holding di Battanta, poco noto al grande pubblico, ma ben conosciuto a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano: una sua società, la Gecomi, ne aveva ristrutturato la facciata austera. Di Pietro si era occupato di Battanta anche per la vendita di un suo stabile, quello di via Zenale 9, dopo un lungo braccio di ferro con gli inquilini. Non risultano altre vicende giudiziarie legate all'ingegner Battanta, se non una piccola serie di reati amnistiati, tutti connessi alla sua attività di immobiliarista: costruzione senza concessione, costruzione abusiva, violazione delle norme prevenzioni infortuni, lesioni personali colpose, assegni a vuoto, assegni postdatati. Battanta è sicuramente proprietario di due dei quattro stabili "svenduti" dalla Baggina, quelli di via Panfilo Castaldi 37 e di via Lomazzo 65, acquistati il primo a un milione e 220 mila lire al metro quadro, il secondo per 780mila. Ma torniamo alle iniziative giudiziarie di ieri: il pm ha chiesto a Mario Sciannameo quali fossero i suoi rapporti con Chiesa. L' ha interrotto poche volte, mettendo a verbale la versione dell'imprenditore. Poco prima delle 13, ha inoltre interrogato come testimone Laura Sala, la moglie separata dell'ingegnere, che ha intentato una lunga causa per protestare contro l'esiguità degli alimenti che Chiesa pretendeva di versare a lei e al figlio quattordicenne: Chiesa li calcolava sul suo stipendio ufficiale, e non sul tenore di vita così elevato che avrebbe potuto garantire aprendo ogni tanto le cassette di sicurezza. A proposito di Chiesa, indiscrezioni parlano anche di conti in Svizzera. Ma la moglie nega che ce ne siano. Sono sfilati davanti al magistrato anche il commercialista Roberto Briola e un rappresentante del gruppo Perfetti, che aveva acquistato alcuni capannoni dalla società Edilnate. I due avrebbero spiegato che a tenere in mano la società era la strana coppia dei due Mario: Chiesa, manager della Baggina e dell'ospedale Sacco, e Sciannameo, che al Sacco e alla Baggina ha goduto di qualche vantaggio per organizzare funerali a ciclo continuo. Bettino Craxi è intervenuto ancora sulla vicenda al seminario elettorale del Psi in programma alle Stelline: "Se si verifica un caso scandaloso di disonestà di un amministratore, il partito non può che reagire come ha fatto, prendendo subito una decisione doverosa e dolorosa. Ma - ha detto il segretario socialista - si deve sapere che reagiremo con fermezza anche al tentativo di condurre una campagna di diffamazione verso il Psi". Più duro il Ministro dell'ambiente, e candidato al Senato, Giorgio Ruffolo: "Ho sempre considerato la questione morale come una questione politica centrale - ha dichiarato a Repubblica -. Convengo anch'io che un caso singolo non può coinvolgere l'intero partito, ma il Psi ha il dovere e la possibilità di condurre una battaglia spietata contro questo tipo d' inquinamento".


 


 



venerdì 2 marzo 2007

15 anni dopo - 2

                                        

la Repubblica - Mercoledì, 26 febbraio 1992 - pagina 10


di LUCA FAZZO


L' ITALIA DEGLI SCANDALI. CHIESA E IL GIUDICE LA CACCIA AL TESORO


Dopo la scoperta di cinque miliardi sul conto dell'ignara segretaria, si indaga ancora


MILANO - Sola, senza avvocato, Stella Monfredi ieri - per la seconda volta in due giorni - è rimasta a lungo nella stanza in fondo al corridoio della Procura della Repubblica. E' la stanza del giudice Antonio Di Pietro, il sostituto che otto giorni fa ha mandato in manette a San Vittore il datore di lavoro di Stella Monfredi e degli altri 1250 lavoratori del Pio Albergo Trivulzio, il glorioso istituto assistenziale milanese. Nell' inchiesta sugli affari dell' ingegner Mario Chiesa, il dirigente socialista arrestato il 18 febbraio, la giovane impiegata è entrata di prepotenza, dopo che in una cassetta di sicurezza e in alcuni conti correnti intestati a suo nome in una banca della banlieu milanese, i carabinieri hanno trovato un' altra consistente parte della montagna di soldi che l' indagine dei carabinieri sta portando alla luce: più di cinque miliardi in contanti e in titoli che si vanno ad aggiungere al malloppo, più o meno della stessa entità, sequestrato nella cassetta di sicurezza dei genitori di Chiesa. Ma se i genitori hanno fatto quadrato, dichiarando ai giornalisti che il bel gruzzolo a loro disposizione è il frutto dei risparmi di tre generazioni, la giovane ex segretaria del presidente ha detto esattamente il contrario: che di quei soldi lei non sa assolutamente nulla, e che i conti e la cassetta intestati a suo nome erano di fatto nelle mani dell' esponente socialista. Perché, dopo questo primo incontro, il magistrato è tornato a convocare Stella Monfredi? "Unicamente - spiegavano ieri sera in Procura - perché ci aiutasse ad orientarci nei computer di Chiesa". E' una conferma esplicita dell' importanza che gli investigatori annettono alla notevole mole di documentazione custodita negli uffici di Chiesa al Pio Albergo Trivulzio e nel suo ufficio privato di rappresentanza in via Soresina. E' nella memoria di quei computer e nelle decine di floppy sequestrati che i carabinieri cercano qualcosa di preciso: la contabilità della tangente, i conti segreti che potrebbero documentare le strade percorrendo le quali il giovane e promettente uomo politico socialista aveva costruito le sue segrete e miliardarie fortune. E' la prima volta che il tesoro privato di un politico milanese viene portato alla luce: e sembra che la magistratura sia decisa a sfruttare fino in fondo le possibilità che questa inchiesta le offre per svelare regole e dimensioni del sistema della mazzetta. Il sequestro dell' altro ieri, la seconda tranche di miliardi individuata dagli investigatori, non sembra infatti concludere le indagini sulle fortune del socialista rampante. Nonostante il totale dei beni individuati superi già gli undici miliardi di lire, la caccia al tesoro continua, nella certezza che altre cassette di sicurezza e altri conti correnti custodiscano cifre ancora sostanziose. Negli ambienti politici milanesi si parla con insistenza di un conto cifrato in Svizzera costituito da Chiesa negli scorsi anni. Ma si parla anche di soldi più a portata di mano, in una delle migliaia di filiali e agenzie bancarie sparse per la Lombardia: titoli e libretti di risparmio al portatore, alcuni dei quali potrebbero essere intestati a Mario Sciannameo, già segretario della sezione Psi di Quarto Oggiaro, vecchio amico di Chiesa, finito nell' inchiesta per i rapporti tra le sue aziende di pompe funebri e il Pio Albergo Trivulzio. Sciannameo, che appena il suo nome è venuto a galla ha dichiarato di essere pronto a presentarsi al magistrato per chiarire la propria posizione, non è stato ancora convocato: l' impressione è che Di Pietro stia finendo di chiarirsi le idee, e che quando Sciannameo verrà interrogato non sarà in qualità di teste. Analoga la strategia che il sostituto procuratore sta seguendo nei confronti dell' imputato principale, detenuto a San Vittore: dopo il primo interrogatorio davanti al giudice per le indagini preliminari, Chiesa non è più stato sentito dai giudici, le scoperte di questi giorni non gli sono state mai contestate, gli avvocati hanno appreso le novità dalla stampa; un secondo interrogatorio, con tutta probabilità, avverrà solo quando il magistrato si sarà fatta un' idea completa, o quasi, della situazione dei conti dell' ingegnere. Contemporaneamente si scava nei bilanci del "Trivulzio": dagli otto miliardi di case vendute (sottocosto, dice qualcuno) negli anni scorsi, ai sedici miliardi annui di forniture varie, alle clientele nell' assegnazione di abitazioni in affitto. Un giro d' affari consistente ma non gigantesco, che - anche se si volesse applicare una tangente implacabile del dieci per cento - forse non spiegherebbe fino in fondo l' opulenza patrimoniale conquistata da Chiesa nei suoi sei anni di presidenza. Il Comune, intanto, si affanna a parare le ripercussioni dell' esplodere dello scandalo. Con una piccola gaffe al posto di Chiesa la giunta aveva proposto Guido Viola, l' ex magistrato che qualche anno fa prosciolse Chiesa da un' accusa di tangenti. Dopo le critiche emerse in consiglio, Viola (con un gesto che le opposizioni hanno pubblicamente apprezzato) ha declinato l' incarico. A reggere le sorti della "Baggina" è stato designato ieri un funzionario dell' assessorato regionale all' Assistenza, Riccardo Piccolo.


la Repubblica - Giovedì, 27 febbraio 1992 - pagina 8


di LUCA FAZZO


L' ITALIA DEGLI SCANDALI. I militari fanno irruzione in un centro frequentato da altri dirigenti socialisti


DIETRO CHIESA, UN UFFICIO ELETTORALE


MILANO - Nuova puntata nell'inchiesta milanese sulla corruzione al Pio Albergo Trivulzio: ieri sera i carabinieri hanno fatto irruzione in via Castelfidardo, in un ufficio ombra del presidente dell' istituto Mario Chiesa, arrestato nei giorni scorsi. Un vero ufficio elettorale finanziato da Chiesa, dove insieme al giovane e rampante dirigente socialista passavano alcuni tra i più bei nomi del partito del garofano a Milano. Come Alfredo Mosini, vicino a Tognoli, assessore ai Lavori pubblici del comune, e Gianni Mariani, ex vicepresidente della provincia. Un luogo deputato per incontri, promesse, trattative riservate. E dentro l' ufficio, una documentazione sulla quale i carabinieri non hanno ancora messo le mani ma che potrebbe riservare grandi sorprese: la segretaria di Chiesa, Stella Monfredi, (la stessa dal cui conto sono spuntati cinque miliardi in titoli e valuta) avrebbe scaricato casse di documenti nell'ufficio poco prima dell'arresto di Chiesa per le tangenti ricevute come presidente del Pio Albergo. È la scoperta di questo ufficio la novità più clamorosa dell'inchiesta sugli affari del dirigente socialista: dall'ufficio (che è davanti all'ospedale Fatebenefratelli) potrebbe passare il filo rosso che lega le casse di Chiesa a quelle del Psi, quello di cui parlava la madre dell'arrestato quando protestava: "Perchè non si parla dei soldi che dava al partito?". Proprio ieri, tra l'altro, altri soldi sono spuntati dai conti correnti di Chiesa: venti milioni, "spiccioli" li ha definiti qualcuno. E si è scoperto che la prima perquisizione a casa di Chiesa, il giorno dell'arresto, portò al sequestro di cento milioni in contanti. Grande imbarazzo sull'altro fronte aperto dai giudici milanesi, l'inchiesta sull'assessorato all'Edilizia privata che ieri ha coinvolto anche l’Università Bocconi. A sera, con un comunicato di poche righe, la Bocconi ha reagito alla nuova svolta dell'inchiesta: anche la Bocconi, per soddisfare la sua sete di metri cubi, era dovuta passare per le forche caudine dell' assessorato-ombra messo in piedi da Sergio Sommazzi. Un'ufficio di consulenza che, secondo le ipotesi dei giudici confermate alle confessioni di Sommazzi, nascondeva una vera e propria Tangenti srl specializzata nel conquistare corsie agevolate per le pratiche edilizie dei propri clienti. "L' Università ha da tempo formulato un piano di sviluppo decennale - sostiene il comunicato della Bocconi - che prevede complessi interventi edilizi per assicurare agli studenti strutture adeguate. Professionisti esterni avevano ritenuto opportuno chiedere la consulenza di Sommazzi. A Sommazzi l'Università aveva solo affidato un incarico professionale, di limitata e temporanea portata, a suo tempo espletato e concluso, avente l'unico scopo di predisporre uno schema di convenzione quadro tra l'Università e il Comune con riferimento al progetto allora in esame". In realtà dalle intercettazioni finite negli atti dell'inchiesta, sembra che l'interessamento dello studio Sommazzi per i progetti dell'università presieduta da Giovanni Spadolini fosse proseguito anche oltre la fase di stesura della convenzione: sia nel giugno che nel luglio del 1989 è documentato l'intervento nei confronti di Giuliano Ceriani, geometra, segretario della commissione edilizia del Comune, che sembra avesse il compito di agevolare l'iscrizione della pratica all'ordine del giorno della commissione. Ceriani - sul cui conto per i giudici esistono "gravi indizi del reato di corruzione" - è uno dei funzionari rimossi dall'incarico l'altro ieri.


la Repubblica - Giovedì, 27 febbraio 1992 - pagina 8


di PIERO COLAPRICO


L' ITALIA DEGLI SCANDALI. ' VINCEREMO LA CORRUZIONE QUI LA MAFIA NON ESISTE'


Il procuratore generale assolve Milano Giulio Catelani rifiuta di considerare gli scandali milanesi come il segno di un degrado morale della città. E ha fiducia nella reazione dei cittadini. ' L'apertura di una filiale della Dia consentirà di aprire indagini sul riciclaggio. Ma finora non sono segnalati casi' Dura replica a Bobo Craxi: ' L'arresto di Chiesa sarebbe una manovra pre-elettorale? Questo è proprio ridicolo. Ma se è stato pescato con banconote firmate...'


MILANO - Era sembrato quasi evasivo, nella sua inaugurazione dell'anno giudiziario: non aveva parlato di mafia, aveva spiegato che il riciclaggio di denaro sporco era soprattutto un'ipotesi. Ma oggi, nel suo ufficio grande come una piazza d'armi e ricco di legni e quadri, Giulio Catelani, 66 anni, procuratore generale di Milano, la massima autorità giudiziaria della città, ha accettato di "raccontare" un po' di più. Lo fa, e per la prima volta, mentre la Milano migliore sembra vivere l'arresto di Mario Chiesa come il segno del degrado della vita amministrativa della città, mentre si riaccende la polemica sulla forza reale delle cosche mafiose al Nord. Signor procuratore, Milano era considerata un po' la capitale morale del Paese, e adesso si trova sempre più spesso nelle cronache giudiziarie. L'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, le continue puntate dello scandalo che ha investito l' assessorato all' Edilizia, e tenuto in carcere per mesi quattro funzionari ed ex funzionari del Comune, indicano una maggior diffusione della corruzione nella gestione della cosa pubblica. Lei che ne pensa? "Non è soltanto Milano. A Torino è successa la stessa cosa. E a Roma, non li hanno presi con le mani nel sacco? Dobbiamo applaudire al fatto che ci sono quelli che si ribellano a questo modo di gestire la cosa pubblica. Se si arriva a questi risultati, nel caso del Pio Albergo Trivulzio, è perché i cittadini hanno saputo reagire: è un fatto estremamente positivo". C'è indignazione nei suoi occhi, per questa storia della Baggina". "Con i vecchi, via..., ma come si fa?". Lei è d'accordo sul fatto che il caso Baggina sia una ferita aperta per Milano, e proprio in una delle sue bandiere, quelle dell' impegno sociale?. "Sì, la gente è colpita. Ma Milano ha reagito al terrorismo, figuriamoci se non ha la forza di reagire alla corruzione". Reagirà davvero? "La storia c' insegna che la società italiana nel suo complesso, e Milano ne è da sempre il motore, ha una grande capacità di reagire a situazioni difficili, di risalire la china in maniera vertiginosa...". Sì, ma in concreto: Milano secondo lei può reagire alla corruzione che sembra dilagare? "Penso di sì: io sono pronto a reagire. E se altri sono capaci di farlo... A giudicare da quello che si è detto in Consiglio comunale, mi sembra proprio che questa volontà reazione ci sia". Sì, il sindaco ha criticato aspramente l'episodio, ha avuto parole dure anche contro Chiesa. "Sono questi gli organi istituzionali che contano". Altri, come Bobo Craxi, hanno parlato dell'arresto come di una manovra pre-elettorale. Il procuratore non riesce a trattenere una risata: "L'arresto di Chiesa pescato con banconote firmate una manovra elettorale? Questo è proprio ridicolo. Così hanno detto?". L'episodio di Chiesa è secondo lei un caso o un picco? "Una domanda a cui non si può rispondere: sarebbero supposizioni". A parte gli ultimi scandali, come ha trovato Milano? "Milano è una città meravigliosa, europea, l'unica città europea che ci sia in Italia. Ha lati negativi, come tutti le grandi metropoli". Quali lati negativi? "Il traffico, c'è un traffico caotico. Il dato positivo è l'efficienza, la signorilità dei rapporti". Da due anni, dopo l'inchiesta "Duomo connection", a Milano c'è polemica sul fatto che la mafia ci sia o non sia. E i milanesi hanno qualche ragione per essere disorientati su questo tema: da una parte c'è la commissione parlamentare che lancia l'allarme rosso, dall'altra alcune autorità che sembrano più prudenti sia sulla presenza, sia sulla reale pericolosità dell'infiltrazione mafiosa al Nord. Come giudica questa diversità di vedute tra i rappresentanti dello Stato? "È necessario innanzitutto mettersi d'accordo sulla terminologia. Mafia può significare criminalità organizzata, e questo è il valore giuridico che l'ordinamento attribuisce al termine mafia, tant'è vero che l'ha prevista nell'articolo 416 bis del codice penale. Esiste poi la mafia come fenomeno sociologico, che è una tipica degenerazione del sistema di vita: questa è stata descritta da saggisti, politici e uomini di cultura. All'autorità giudiziaria interessa la mafia nel primo senso: e in questo momento non ci sono procedimenti giudiziari che riguardino accuse da 416 bis, non siamo passati dalla semplice enunciazione di una supposizione alle prove concrete dell'esistenza di un'associazione di stampo mafioso. Comunque, io non ritengo dannosa questa differenza di valutazione, anzi è positiva: attraverso questa differente valutazione si può raggiungere la verità, scopo di tutte le strutture pubbliche". Dottor Catelani, la Dia, l'Fbi italiana, apre uno dei suoi quattro uffici locali a Milano per occuparsi del riciclaggio del denaro sporco al Nord, della penetrazione delle cosche a Milano e nell'hinterland. Lei ha invece inaugurato l'anno giudiziario dicendo che, al momento, il riciclaggio è solo un'ipotesi perché non ci sono inchieste su questo tema, e non ha parlato di mafia. Non si preoccupa di poter apparire un po' troppo cauto? "Il fatto che la Dia apra una sua filiale a Milano è estremamente positivo, c'è da sperare che svolga indagini per scoprire quel riciclaggio sinora non scoperto. L'ho detto anche all'apertura dell'anno giudiziario che la rincorsa al quotidiano non ha consentito di aprire inchieste sugli appalti pubblici, sulle società finanziarie, fiduciarie, di intermediazione immobiliare, aumentate in numero rilevantissimo. Debbo precisare che il procuratore generale non è né cauto, né incauto: deve stare ai fatti, e i fatti dicono che ora inchieste sul riciclaggio del denaro sporco non ce ne sono".