lunedì 12 febbraio 2007

Le insopportabili interferenze


L’inesauribile tentativo di cercare di capire cosa sia diventato questo Paese, sempre più a sovranità limitata, mi ha condotto ad un articolo, pubblicato su “Liberazione”, che ho trovato esemplare per chiarezza e lucidità espositiva. Altrettanto chiaro, fino a sfociare nell’arrogante insofferenza, tipica da quelle parti, l’editoriale non firmato, dell’Avvenire di un paio di giorni prima. Provvidenziale e assai opportuno, infine, il commento domenicale di Eugenio Scalfari. Il tutto potrà essere letto a colazione, pausa caffè e pranzo, secondo gli usi e i costumi.


Washington (Rice) e Vaticano (Ruini) vogliono silurare il governo Prodi


Offensiva convergente delle due ”Grandi Potenze”. Condoleeza non gradisce la politica estera dell’Italia e non si accontenta di Vicenza - L’ambasciatore Usa insolentisce D’Alema. Monsignor Ruini, con toni da Pio IX, pretende la testa dell’ex-amico Prodi che considera un traditore


Rina Gagliardi


Liberazione 8 febbraio 2007


Il disegno è chiaro e passa per un patto di ferro tra due grandi poteri: il Vaticano e il governo americano. Per capirci: Sua eminenza il cardinale Camillo Ruini e Condoleeza Rice faranno di tutto, da qui ai prossimi due mesi, per far cadere il governo Prodi. Al quale, ad ogni modo, hanno già palesemente “dichiarato guerra”. Questa “informazione” o, se preferite, questa tesi circola da vari giorni nei palazzi della politica - una sorta di allarmato tam tam, sostenuto da figure diverse e tutte credibili, cioè nient’affatto dedite alla fantapolitica e per nulla afflitte dalla sindrome del “Grande Complotto”. E dunque? Dunque, noi non possiamo garantirvi che si tratti di una notizia certa, o di una verità politica dimostrata. Non dubitiamo invece della sua credibilità. Proviamo perciò ad analizzarla attraverso le cronache di queste giornate, e qualche spunto di riflessione.


Politica estera. Che stia calando il grande freddo tra Italia e Stati Uniti d’America, e che nel mirino di Washington sia finito soprattutto il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, è ormai sotto gli occhi di tutti. I tempi del “bye bye Condy” sembrano appartenere ad un’atra stagione, quando il governo americano è sembrato incassare con relativo fair play il ritiro dall’Iraq e l’iniziativa sul Libano: due scelte che certo non sono mai particolarmente piaciute all’amministrazione di Washington, ma che forse, lì per lì, sono state considerate lo “scotto” necessario da pagare al nuovo governo appena insediato, e all’affermazione di una strategia almeno dotata dell’apparenza del multilateralismo. Via via, nel corso dei mesi, la politica estera italiana ha assunto agli occhi nordamericani un pericoloso e crescente livello di autonomia, sia per il suo marcato europeismo, sia per la sua posizione “filoaraba”, sia, anche, per quella che sin da luglio è stata percepita come una scelta di disimpegno (di disimpegno militare) dal fronte afghano.


Non è certo un caso che Prodi non abbia a tutt’oggi messo in calendario, come è tradizione dei presidenti del Consiglio italiani, un viaggio nella capitale americana. Per quanto nessuno possa mettere in dubbio la sua collocazione, o i suoi sentimenti, occidentali, anzi occidentalissimi, per quanto egli abbia deciso di autorità il raddoppio della base Usa di Vicenza, Prodi resta per gli americani un politico di profilo europeo. Un leader poco affidabile. Un alleato che ha in testa più gli accordi con la Cina che non la realizzazione di un rapporto di fedele soggezione agli Stati Uniti. Non è da escludere che, avvertendo attorno a se questo clima di sfiducia, il nostro premier abbia deciso, sul Dal Molin, di compiere un vero e proprio “gesto di ubbidienza”, coartando una parte importante della sua coalizione proprio allo scopo di rassicurare il segretario di Stato e di guadagnarsi un gallone di affidabilità. Ma in tutta evidenza a Condoleeza Rice questo gesto non è bastato: pochi giorni dopo, la risposta è stata la lettera a “Repubblica” dei sei ambasciatori amici degli Usa, una interferenza sulla sovranità nazionale italiana così smaccata e pesante da non avere precedenti.


A sua volta, la replica del ministro degli Esteri non ha molti precedenti, per la sua secchezza e per il suo tono: D’Alema, forse, sa che si sono esauriti tutti i margini del bon ton. Gli Stati Uniti pretendono non il semplice rifinanziamento della missione italiana a Kabul, non una nuda e cruda conferma, ma il suo congruo rafforzamento, in vista della annunciata offensiva di primavera dei taliban e in vista di una guerra nella quale si giocano la loro residua credibilità. La partita, come si capisce, è tutta politica - ma anche molto simbolica. E quello che Washington pensa di D’Alema l’ha detto a chiare lettere, ieri sul “Corriere della Sera”, l’ex ambasciatore Secchia: ha detto che D’Alema è un uomo che «non capisce dove sono i suoi amici», che è segnato dalla sua storia nella sinistra radicale, che «se fosse per lui oggi ci sarebbe ancora l’Unione Sovietica». Quando mai un ex diplomatico, peraltro molto vicino al presidente Bush, ha parlato con tanta violenza di un membro eminente del governo di un paese amico?


“I Pacs”. Anche questo è un fronte più che pubblico. Le autorità vaticane hanno da settimane scatenato non una campagna, ma una crociata, contro la moderatissima proposta sulle unioni civili prospettata con una mozione alla Camera. Ci si sono messi tutti, dalle prediche domenicali di Ratzinger, ai cardinali con gli incubi di Satana. Fino al “non possumus” del giornale dei vescovi, che ha il sinistro sapore del sillabo di Pio IX e del peggior clericalismo neotemporalistico: come se avesse senso oggi dettare allo Stato italiano le leggi che può fare e quelle che non può fare. Dunque, i pacs, se così si può dire, sono anche un cavallo ruffiano, uno strumento, un pretesto: il cardinal Ruini, che gestisce in toto la politica della chiesa cattolica, mira in realtà a sgambettare il governo Prodi e l’Unione, ai suoi occhi così zeppi di laicisti e di comunisti. E’ noto che Sua eminenza, tanto legato a Prodi d’aver celebrato il suo matrimonio, considerò la sua discesa in campo, nel ’96, a capo di uno schieramento di centrosinistra, un vero e proprio tradimento. Che abbia deciso di fargliela pagare, anche sul piano personale? Mancano solo tre mesi al pensionamento del cardinale e alla nomina del nuovo presidente della Cei (si dice, speriamo sia vero, che sarà più pastore e meno intrigante). Il tempo stringe, perciò sale a mille la pressione sui politici e parlamentari cattolici, perciò i teodem alzano i toni, anzi strillano, come hanno fatto ieri, annunciando il loro “non possumus”, che va dai pacs alla messa in discussione del testamento biologico.


“Conclusione provvisoria”. La cronaca quotidiana forse non conferma il sospetto del Grande Complotto, ma di sicuro accredita l’inasprimento dell’offensiva vaticana e nordamericana contro il governo dell’Unione. Un’aggressività che si produce in contemporanea e che sfrutta tutte le contraddizioni che sono già presenti nella coalizione e concorre a produrne di nuove. Una coincidenza? Forse. Quel che è sicuro, è che sembra essere tornati ai tempi dell’ambasciatrice Luce e del pontificato di Pio XII e che, oltreoceano e oltretevere, si vorrebbe terremotare il quadro politico ben oltre le speranze e le volontà dello stesso Berlusconi (una crisi di governo in tempi rapidi, magari nuove elezioni, non convengono oggi al Cavaliere: metterebbero comunque in pole position il suo ex alleato Casini). Invece, logorare l’Unione, anzi frantumarla e seppellirla, cacciare Prodi e D’Alema, andare ad un anno e mezzo o due di governo neocentrista, riformare la legge elettorale nel senso indicato dai referendari, ovvero nel senso di recidere per la sinistra radicale e per Rifondazione comunista ogni vera possibilità di rappresentanza, inaugurare, insomma, la terza Repubblica: ecco il programma che, chissà, Camillo può avere spiegato a Condy, e che comunque va realizzato ora, non tra un anno. Non passerà, ne siamo sicuri. Ma, se il cardinale ce lo consente, è davvero diabolico.


CIRCA LA BOZZA SULLE UNIONI DI FATTO


Il perché del nostro leale "non possumus"


Avvenire 6 febbraio 2007


Il lavorìo su un possibile disegno di legge del governo in materia di unioni di fatto sembra dunque arrivato ad una svolta. Le anticipazioni di stampa - soprattutto quella assai particolareggiata fornita sabato scorso da "Repubblica" - tenderebbero a confermare che ormai ci siamo. In realtà, però, a quanto è dato di capire, non ci siamo affatto. L'impianto della bozza normativa fatta circolare induce infatti a ritenere che ciò che era stato solennemente escluso, la creazione di un modello simil-familiare, è in realtà quello che si va alacremente predisponendo. Era possibile domandarsi quali soluzioni potessero essere adottate per dare attuazione a quel capitolo del programma dell'Unione (qui senza l'Udeur) che prevede il «riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà delle persone che fanno parte delle unioni di fatto». Formula questa che - secondo logica - individua come oggetto del riconoscimento che si vuole introdurre i diritti dei singoli e non la convivenza in quanto tale. Ne deriva che qualsiasi modello di registrazione, certificazione o attestazione della convivenza, ad esempio di tipo anagrafico, alla quale venisse collegata l'attribuzione di diritti e di doveri dei soggetti che ne fanno parte, sarebbe del tutto gratuita, e finirebbe per riconoscere legalmente una realtà di tipo para-familiare, determinandola anzi come un nuovo status.


Ebbene, tutto ciò che qui si paventa, lo troviamo nella bozza messa abilmente in circolazione per saggiare l'opinione pubblica. È infatti l'articolo 1 a dare subito il là in senso para-matrimoniale al testo. In primo luogo, introduce il "rito" della dichiarazione di convivenza e della conseguente "annotazione" nell'anagrafe comunale e fa discendere da questo passaggio l'attribuzione di diritti e di doveri ai conviventi. Si delinea, insomma, un processo nel quale l'anagrafe diventa lo strumento non di un puro e semplice accertamento, ma dell'attribuzione di uno status giuridicamente rilevante. Inoltre lo stesso articolo va a specificare - cosa assolutamente non dovuta - a quale titolo la convivenza si instaura, ossia delimitando le convivenze oggetto della normativa a quelle tra «due persone maggiorenni» legate da «vincoli affettivi». Le unioni di fatto con finalità assistenziali o solidaristiche non sono neanche considerate. E, stando ad altre anticipazioni di stampa, sarebbero addirittura escluse esplicitamente quelle tra fratelli e sorelle o tra parenti in linea retta.


Se a qualcuno queste sembrano questioni di lana caprina, si ricreda. Un conto è riconoscere alcuni diritti a persone che hanno dato liberamente origine a una situazione di fatto che rimane tale, e tutt'altro è dare a tale condizione una rilevanza giuridica che ne fa, appunto, la fonte di diritti e doveri assai simili a quelli previsti per la famiglia fondata sul matrimonio.


Sulla base di una costruzione giuridica, si riconoscerebbe così tutta una serie di diritti - in materia di successione, di pensione di reversibilità, di obbligo di prestazione di alimenti, di dovere di reciproca assistenza e solidarietà - che non a caso l'ordinamento italiano prevede solo e soltanto in relazione allo status familiare e al valore di assoluta preminenza a questo riconosciuto dalla Costituzione e dalle leggi. E il risultato sarebbe quello di porre in modo forzoso e inevitabilmente sconvolgente su un piano analogo la programmatica stabilità della famiglia definita nell'articolo 29 della nostra Carta fondamentale e la condizione liberamente altra delle scelte di mera convivenza. Un'operazione spericolata da un punto di vista giuridico e ancora di più per significato e impatto sociale.


È questo il cuore del problema. Creare, sia pure in forma involuta e indiretta, un modello alternativo e spurio di famiglia significa indebolire e mortificare l'istituto coniugale e familiare «nella sua unicità irripetibile» (Benedetto XVI, domenica scorsa): l'esperienza, realizzata in una serie di Paesi, questo sgradevole nesso dimostra in modo incontrovertibile. E significa agire in oggettivo e azzardato contrasto con il favor riconosciuto alla famiglia fondata sul matrimonio dalla Costituzione repubblicana e da una tradizione culturale e giuridica bimillenaria.


Per questi motivi, se il testo che in queste ore circola come indiscrezione fosse sostanzialmente confermato, noi per lealtà dobbiamo fin d'ora dire il nostro "non possumus". Che non è in alcun modo un gesto di arroganza, piuttosto è la consapevolezza di ciò che dobbiamo - per servizio di amore - al nostro Paese. L'indicazione franca e disarmata di uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana.


Quei patti dimenticati tra Stato e Chiesa


EUGENIO SCALFARI


la Repubblica 11 febbraio 2007


Nella giornata di ieri la Chiesa è passata al contrattacco, guidata dal Papa in persona a rinforzo del "non possumus" emanato dalla Conferenza episcopale. Benedetto XVI, con riferimento specifico ai temi della bioetica e al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulle convivenze di fatto, ha detto che c'è da pensare "che ci siano dei periodi in cui l'essere umano non esista veramente" Addirittura! Accenti simili non si erano più uditi da quando i bersaglieri di La Marmora entrarono dalla breccia di Porta Pia mettendo fine al potere elettorale e la nobiltà clericale chiuse i portoni dei suoi palazzi sconfessando la nascita dell'Italia unita e di Roma capitale.


Dev'essere accaduto qualche cosa di molto più grave a ferire la sensibilità e gli interessi della Chiesa del riconoscimento di alcuni diritti che regolarizzano le coppie di fatto ben più timidamente di quanto già non sia avvenuto in tutt'Europa, dalla Spagna all'Olanda e dalla Francia alla Germania. Che cosa è dunque accaduto?


È accaduto che quel cautissimo atto di governo, che porta la firma d'un premier cattolicissimo ed è stato redatto da un cattolicissimo ministro, ha posto un paletto al neo-temporalismo della Santa Sede, alle sue crescenti interferenze nella legislazione e addirittura nell'articolazione delle norme di legge che il Parlamento voterà nelle prossime settimane.


È accaduto che al "non possumus" dei vescovi italiani è stato opposto il "possumus" dei gruppi parlamentari del centrosinistra e in particolare dei parlamentari cattolici della Margherita, che hanno rivendicato la loro responsabile autonomia laica e - insieme - la loro costante appartenenza ai valori del cristianesimo.


Viene in mente il rifiuto di Alcide De Gasperi all'operazione Sturzo di stampo clerico-fascista, sponsorizzata da papa Pacelli e dai Comitati civici. Da allora il leader della Dc non fu più ricevuto, neppure in udienza privata, da Pio XII, il che non gli impedì di reggere le sorti del governo nazionale senza mai venir meno ai suoi sentimenti di appartenenza cattolica e ai suoi doveri verso il paese e verso la Costituzione.


Questo preoccupa Benedetto XVI e i vescovi italiani: che i cattolici democratici, messi con le spalle al muro dall'intransigenza ruiniana, abbiano rifiutato di essere passiva cinghia di trasmissione ponendo così un argine alla clericalizzazione delle istituzioni.


Non li preoccupa né Diliberto né Pecoraro Scanio né Rifondazione comunista, bensì i Franceschini, i Letta, le Bindi, gli Scoppola e, soprattutto, Romano Prodi che va a messa e frequenta i sacramenti tutte le domeniche. Si ritrovano - i vescovi - in compagnia del paganesimo berlusconiano con il rischio di un neo-temporalismo profumato alla cipria del Bagaglino anziché all'incenso delle basiliche.


Si dice - talvolta l'ho detto anch'io - che il potere politico è debole. Ha un pensiero debole. Inclina al compromesso. Si vorrebbe una politica che scelga senza se e senza ma. E poiché i se e i ma abbondano, se ne conclude che la politica non fa il dover suo e le si contrappone il deposito dei valori della religione, alimentati dall'intransigenza della fede.


Ma si è mai vista nella storia una politica senza compromessi? La politica si nutre di compromessi, procede per sintesi, non si ferma mai ad una tesi intransigente o ad un'intransigente antitesi, salvo in regimi di dittatura o, peggio, di totalitarismo.


I regimi liberali e ancor più quelli liberal-democratici amministrano organismi complessi, interessi plurimi e spesso contrapposti. Debbono pertanto rappresentarli tutti superandone i particolarismi, includendo e non escludendo, trovando il denominatore comune.


Il pensiero debole della politica coincide con compromessi deboli e privi di obiettivi forti. E in quei casi debbono essere vigorosamente criticati. La politica è l'arte del possibile, quindi del dialogo e dell'accordo al più alto livello possibile. Cavour voleva fare un grande Piemonte nel 1857 e si accordò con la Francia di Napoleone III. Poi l'obiettivo cambiò e divenne assai più ambizioso: volle fare l'Italia. Si alleò con Garibaldi, con Ricasoli, con Minghetti e con l'Inghilterra. Si sarebbe alleato anche col diavolo se fosse servito.


Quale politica non fa compromessi? Perfino Cesare li fece. Perfino Napoleone. Hitler no, non li fece. Voleva sterminare gli ebrei e li sterminò. Voleva conquistare tutta l'Europa e c'era quasi riuscito se non ci fosse stato Pearl Harbor e se Roosevelt non si fosse alleato con Stalin. Ma Hitler non era un politico, era un pazzo criminale. Antipolitico per eccellenza.


Anche la Chiesa ha fatto compromessi. Perfino con Hitler. Con Mussolini. Con Franco. Con Breznev. Con Jaruzelski. Con Gorbaciov. Tutte le volte che le è convenuto ha stipulato concordati. Non è forse un compromesso il concordato? Si patteggia, si dà e si prende.


La fede non fa compromessi. Ma la fede riguarda la coscienza individuale, non le organizzazioni che l'amministrano. La Chiesa e la sua gerarchia sono il corpo che riveste la fede. Talvolta il corpo esprime e realizza l'anima, talaltra la rinserra nei suoi corposi interessi mondani. Questo è sempre stato il rapporto tra la gerarchia dei presbiteri e la comunità dei fedeli. Lo scontro tra il modernismo e il Vaticano ebbe proprio questa motivazione. Finì con la persecuzione dei modernisti della quale c'è traccia evidente perfino nel Concordato del '29. Il cristianesimo diffuso dalla predicazione degli apostoli è la religione dell'amore. Ma non sempre.


È singolare che nel dibattito in corso tra il Vaticano e il governo italiano nessuno (salvo i radicali) abbia menzionato il Concordato. Come se non esistesse più. Come se fosse caduto in desuetudine. Come se non fosse stato recepito nella Costituzione del 1947.


Infatti è caduto in desuetudine. O meglio: sta in piedi soltanto a tutela dei benefici che ne riceve la Chiesa. I limiti che la Chiesa ha pattuito con lo Stato sono stati invece superati.


Il deputato Capezzone, tanto per dire, si è stupito l'altro ieri perché si aspettava che il governo protestasse con la Santa Sede per l'irritualità compiuta dalla Cei con l'irruzione palese e anticoncordataria compiuta nei confronti del potere legislativo, così come il governo aveva ritenuto irrituale l'intervento dei sei ambasciatori che ci invitavano perentoriamente a restare in Afghanistan senza se e senza ma.


Ha ragione Capezzone. Ma ha ragione anche il governo. Il Vaticano in Italia è infinitamente più forte degli ambasciatori dei sei paesi alleati. È più forte come potere temporale. Pretende di dirigere le coscienze dei fedeli anche - anzi soprattutto - quando rivestano cariche ministeriali o siano membri del Parlamento. Chiede, anzi pretende obbedienza.


Ho letto l'intervista di Rosy Bindi su Repubblica di ieri. Dice: "Abbiamo scritto una legge giusta che tutela i più deboli, riconosce diritti alle persone discriminate, non crea nessuna figura giuridica che possa attentare alla famiglia. L'insegnamento cattolico parla di valore della giustizia, di pace, di libertà personale, di accoglienza perfino dell'errore. Di carità e di misericordia... Un politico non deve sentirsi referente di nessuno. Il mio referente è il Paese e la mia coscienza cattolica".


Ebbene, questo è il punto che per i vescovi italiani ha l'effetto d'un panno rosso davanti a un toro infuriato: il fatto che il laicato cattolico democratico abbia come riferimento la Costituzione e la propria coscienza cattolica e sulla base di questi due riferimenti fondamentali arrivi a conclusioni difformi da quelle della gerarchia ecclesiastica. La considera una ribellione perché ha perso la nozione esatta della parola Ecclesia. Che non distingue tra presbiteri e fedeli. Ecclesia è la comunità cristiana, è comunione partecipata perché tutti prendono il corpo eucaristico del Cristo, tutti nello stesso momento e alla stessa mensa. La grazia non passa attraverso l'intermediazione dei presbiteri, ma il Signore la dispensa direttamente ai fedeli che credono in lui e da lui prescelti.


Il neo-temporalismo è il contrario di tutto ciò. Non a caso Paolo VI ritenne la fine del temporalismo "un fausto evento per la Chiesa". Ma in realtà a partire dal pontificato di papa Wojtyla fino ad oggi la Chiesa sta devitalizzando i contenuti più significativi del Concilio Vaticano II e i due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. L'ha scritto a chiare lettere Pietro Scoppola nel suo articolo di tre giorni fa su Repubblica.


Questo è il senso dell'operazione in corso, di cui il disegno di legge sulle convivenze non è che il pretesto.


Si dice che il pensiero laico sia debole. Capisco perché lo si dice: i laici (qui intesi come laici non credenti) non hanno né papi né cardinali né vescovi né preti. Ciascuno parla per sé e rappresenta solo se stesso. Per fortuna.


Non significa che un pensiero laico non esista e neppure che sia debole. Al contrario è forte, è lucido, è coerente alle sue premesse e nella sua dialettica con i clerici. Basta aver letto i più recenti prodotti di questo pensiero pubblicati questa settimana dal nostro giornale: l'articolo di Ezio Mauro e quello di Gustavo Zagrebelsky a proposito del "non possumus" episcopale.


I laici sono favorevoli allo spazio pubblico che spetta alla Chiesa, per ampio e crescente che sia, e ascoltano la sua parola con interesse traendone elementi di positiva riflessione e di rispettosa accoglienza quando ve ne siano, contestando elementi di intolleranza e tentazioni teocratiche che spesso, purtroppo, vi sono.


I laici non sono anticlericali, anche se l'episcopato italiano sta facendo il possibile per farceli diventare. Ma i laici hanno come solo punto di riferimento il patto costituzionale. Su quel patto si fonda la Repubblica italiana e in esso ciascuno trova le radici della sua identità.


Perciò mi stupisco molto di coloro che sarebbero pronti ad accettare i patti di convivenza purché limitati agli eterosessuali. La Costituzione vieta in modo esplicito che la legislazione possa introdurre norme discriminanti nei confronti dei cittadini per ragioni di etnia, di religione, di sesso. Un regime di convivenza che discriminasse gli omosessuali cadrebbe ovviamente sotto la scure della Corte costituzionale e, prima ancora, sotto quella del Capo dello Stato secondo i poteri e le modalità che gli sono attribuiti.


Quindi tutto è molto chiaro. I laici vogliono il rispetto della Costituzione e di conseguenza anche del Concordato. Qualcuno, prima o poi, chiederà alla Corte se il Concordato sia ancora in vigore o sia gravemente leso. E qualora lo fosse, quali siano gli strumenti atti a recuperarne il rispetto o a proclamarne la decadenza per doveroso recesso della parte lesa.


 


 


 


 


 

2 commenti:

  1. Non ho letto fino in fondo il tuo lunghissimo ma molto interessante post. Comunque mi ero già fatta un'idea molto precisa sulla questione DiCo/Ruini/Usa e la sto diffondendo anch'io tra tante polemiche e tanti attacchi: è un'unica grande manovra per dare la spallata definitiva a questo Governo. Speriamo di resistere!

    Un abbraccio da Fioredicampo

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  2. NO DAL MOLIN



    MANIFESTAZIONE NAZIONALE 17/02/2007



    BASI MILITARI AMERICANE A VICENZA



    BASI MILITARI AMERICANE ATTUALI

    1) CASERMA EDERLE - VICENZA…...………………612.000 mq circa

    2) VILLAGGIO AMERICANO - VICENZA……………289.000mq circa

    3) BASE MILITARE SOTTERRANEA – LOC. FONTEGA DI ARCUGNANO

    3.1) AREA DELLA SERVITU’ MILITARE…………1.110.000 mq circa

    3.2) AREA RECINTATA ESTERNA………………..150.000 mq.circa

    4) BASE MILITARE SOTTERRANEA “PLUTO” - LONGARE…..200.000mq circa

    5) CENTRO AUTOVEICOLI U.S.A. – TORRI DI QUARTESOLO. 40.000mq. circa

    6) CENTRO LOGISTICO GESTIONE STRUTTURE MILITARI –

    TORRI DI QUARTESOLO – LERINO…………………………...35.000mq. circa

    TOTALE BASI ATTUALI: 1.326.000 mq circa



    BASI MILITARI AMERICANE FUTURE

    7) BASE MILITARE DAL MOLIN – VICENZA

    7.1) DAL MOLIN 1° FASE…...…………………… 550.000 mq circa

    7.2) DAL MOLIN 2° FASE……………………….773.000 mq circa

    8) VILLAGGIO AMERICANO – DI QUINTO

    e/o TORRI DI QUARTESOLO………………………………...400.000mq circa

    TOTALE BASI FUTURE: 1.723.000 mq circa

    TOTALE COMPLESSIVO: 3.049.000 mq circa

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