lunedì 12 febbraio 2007

E non se ne vogliono andare


Basi Usa: il vizio militare di una grande democrazia


risponde SERGIO ROMANO


Corriere della Sera 4 aprile 2005


“La rete di basi americane che ormai circonda l’emisfero settentrionale è di rilevante importanza politica oltre che militare. Alcune, realizzate negli ultimi anni impongono nuovi scenari ai Paesi interessati e danno una nuova dimensione alla superpotenza Usa, Eppure di tutto ciò si parla poco.


Da un dispaccio dell’Associated Press da Kabul, pubblicato sulla stampa americana negli scorsi giorni, abbiamo appreso che gli Stati Uniti stanno spendendo 83 milioni di dollari per rinnovare e attrezzare due grandi basi afghane: quella di Bagram, che i sovietici usarono sino al loro ritiro nel 1988, e l’aeroporto di Kandahar nel Sud del Paese. Quando ha visitato Kabul il segretario di Stato Condoleezza Rice ha detto che a Washington non è stato ancora deciso quanto durerà la presenza del contingente americano in Afghanistan. Ma è probabile che gli Stati Uniti non abbiano alcuna intenzione di abbandonare, anche dopo l’evacuazione delle truppe, le due basi afghane. Ed è altrettanto probabile che non intendano rinunciare, qualsiasi cosa accada nei rispettivi Paesi, a mantenere basi in Iraq, Qatar, Arabia Saudita, Uzbekistan, Kirghizistan e, forse, a una presenza leggera in Georgia.


Quelle che ho elencato sono soltanto le ultime arrivate nel lungo catalogo delle installazioni militari americane disseminate nel mondo. Credo che non sarebbe giusto definire l’America «militarista», nel senso che la parola ebbe prima della Grande guerra quando venne spesso utilizzata per definire i regimi politici della Germania guglielmina e dell’Austria asburgica. E’ una grande democrazia dove un presidente (Harry Truman) non esitò a esigere le dimissioni di un famoso generale, Douglas McArthur, allorché questi, all’epoca della guerra di Corea, fece dichiarazioni che furono considerate una inammissibile invasione di campo. Ma è certamente un Paese dove i militari si sono spesso candidati alla Casa Bianca e Theodore Roosevelt divenne vicepresidente nel 1900 anche grazie al piglio guerresco con cui aveva dato l’assalto a una collina cubana durante la guerra ispanoamericana del 1898.


Proprio a Cuba, del resto, si manifestò la predilezione degli Stati Uniti per le basi militari in territorio straniero. Nel 1903 s’installarono a Guantanamo e più tardi, approfittando della Seconda guerra mondiale formalizzarono la loro presenza con un contratto d’affitto che divenne più tardi, ai fini pratici, atto di proprietà. Nello stesso periodo (1940) Franklin D. Roosevelt fornì alla Gran Bretagna le navi e gli aerei di cui aveva bisogno per combattere la Germania, ma scambiò 50 cacciatorpediniere contro alcune basi britanniche sul continente americano. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale l’America allargò il sistema delle basi all’Europa continentale, al Giappone, all’oceano Indiano e all’oceano Pacifico. Dopo la fine della guerra fredda s’installò nei Paesi del Golfo Persico, nella penisola balcanica e, più recentemente, in quelli che ho elencato all’inizio della mia risposta. Esistono basi logistiche, basi missilistiche, basi aeroportuali, basi per sommergibili nucleari, basi ospedaliere (come quella tedesca di Landstuhl dove sono stati trasportati e curati i feriti della campagna irachena) e stazioni attrezzate per l’intercettazione satellitare delle comunicazioni. Alcune di queste installazioni appartengono alla Nato e altre sono esclusivamente americane.


Ma quasi tutte sono, di fatto, capitolazioni americane, enclave statunitensi in territorio straniero dove, come abbiamo constatato nel caso del Cermis, la legge vigente è quella degli Stati Uniti.


Nella maggior parte dei casi gli americani non hanno alcuna intenzione di andarsene. Ma può accadere che un Paese, anche a costo di aprire una crisi nei suoi rapporti con l’America, congedi i suoi ospiti americani. E’ successo nel 1966 quando il generale de Gaulle, tornato al potere otto anni prima, annunciò che la Francia sarebbe uscita dall’organizzazione militare del Patto Atlantico e chiuse le basi della Nato in territorio francese”.


È questa la settimana dell’importante manifestazione di sabato 17 a Vicenza contro il raddoppio dell’aeroporto militare Dal Molin per farne la base statunitense più grande d’Europa, una vera e propria portaerei destinata ad uso di guerra, come ormai va di moda fin da quando il cow boy texano si insediò alla Casa Bianca. Il grande popolo della pace che affluirà a Vicenza urlerà il No totale a questo progetto, scellerato, di eterna belligeranza. E dovrà essere ascoltato, perché conterà molto più di un’imprecisata pacca sulle spalle con cui il ranchero di Arcore gratificò il suo omologo americano.


È avvilente come l’Unione voglia mantenere questo improbabile patto, balbettando pretestuosi motivi e mostrando semmai preoccupazione per l’ìmpatto ambientale. È umiliante che un governo di centrosinistra continui a ripetere le stesse stupidaggini di quello, già pessimo, che lo ha preceduto. È sconcertante che quegli stessi “amici” americani tutto pretendano e nulla concedano, in nome della verità e della giustizia, come per esempio il caso dell’omicidio di Nicola Calipari. Ed è infine irritante che questo nostro Paese continui a rivendicare, quasi fosse motivo di orgoglio, una sovranità limitata, restando succube degli Stati Uniti e accettando il commissariamento del Vaticano. Sicuri che sulla scheda elettorale ci fosse scritto Prodi e non Ruini?


Ho scelto questa risposta fornita da Sergio Romano, ad un lettore, perché reputo interessante la ricostruzione storica (ad opera di un moderato) del vizietto americano. Il mondo, dopo gli scenari delineati, è profondamente cambiato, anzi si può giustamente osservare che si tratta di una mutazione in fieri, eppure i rimasugli della guerra fredda, Nato compresa, vengono costantemente lucidati come gioielli di famiglia e laddove si blatera stucchevolmente di riformismo ci si adopera, di converso, con alacrità a tutelare un conservatorismo ormai anacronistico e fuori stagione. Sia esso la fedeltà al Patto atlantico, come le deliranti e inaccettabili intromissioni di Ratzinger e soci nella vita politica e sociale dello stato italiano.

1 commento: