martedì 1 aprile 2008

La maglia nera della Cina


Mi sono entusiasmato leggendo questo articolo di Maurizio Chierici sull’Unità di ieri e ho ritenuto opportuno che venisse condiviso. Ho poi trovato, si sa come funziona nel web, un interessante post nel blog di Vittorio Zambardino, giornalista de “la Repubblica”, che propone ai suoi colleghi un’ipotesi suggestiva e, secondo me, anche praticabile, sempre riferita ai Giochi Olimpici di Pechino. In questo caso rimando al blog con l’opportuno e doveroso link. La Cina e il Tibet, l’abbinamento è ancora questo. Poi, volendo, si può allargare il discorso al Darfur, alla Birmania, ancora con il regime di Pechino abbinato e la violazione dei diritti umani imprescindibile. Aggiungo, infine, un altro link per un blog “monotematico”, secondo la sua autrice, in questi giorni. Rossana e la sua dipendenza da Tibet, che non è solo suggerita dalla moda del momento, ma si tratta di qualcosa che è parte di me, è dentro di me, è parte integrante della mia storia, del mio dna, della mia struttura mentale” come scrive lei stessa nel penultimo post. 


 


Lontani dalla Cina


Maurizio Chierici


«I valori dello sport aiutano la pace» parole che accompagneranno tv e giornali fino all’ultimo giorno delle Olimpiadi di Pechino. «I Giochi servono a stimolare la democratizzazione e il rispetto per i diritti umani», Jacques Rogge, presidente del comitato olimpico ripassa le buone intenzioni. È d’accordo lo scrittore Alberto Bevilacqua: le Olimpiadi rappresentano la spiritualità dello sport. Eppure nessuna voce riesce a spiegare cosa sono questi valori e quale spiritualità possono aiutare mentre la Cina ripulisce le città da «teppisti e teste calde»: migliaia e migliaia in marcia verso i campi di rieducazione. Forse torneranno a casa a giochi finiti. Forse. Non è una novità che lo sport prova a nascondere politica e affari con l’ipocrisia di una distensione che non c’è. Giocare nello stadio di Santiago ridotto da Pinochet a lager di prigionieri «politici» ammassati come animali e torturati negli spogliatoi, colpo alla testa e corpi uno sull’altro come pezzi di legno, in quale modo ha aiutato i cileni a liberarsi della dittatura?

Per invogliare Pinochet alla democrazia, le nazionali dei paesi democratici hanno continuato a giocare nello stadio degli orrori finché le vittime si sono arrangiate da sole rimpicciolendo l’oppressore dopo 17 anni di partite internazionali.

Ho ascoltato per la prima volta la favola dei «valori dello sport» nella notte bianca di martedì 5 settembre 1972, Monaco di Baviera. Olimpiadi sconvolte da un commando palestinese. Otto uomini incappucciati avevano preso in ostaggio atleti e massaggiatori israeliani per svegliare la disattenzione che avvolgeva (e avvolge) la vita amara di milioni di profughi. Non hanno risvegliato niente. Il dramma continua malgrado la buona volontà di pacifisti inascoltati: scrittori, intellettuali arabi ed ebrei, ma anche della vecchia Europa e dell’America che predica bene mentre riempie gli arsenali. I protagonisti della tragedia di Monaco sono stati uccisi 21 ore dopo. Gli infallibili cecchini della polizia tedesca non hanno fatto differenze tra aggressori e ostaggi fulminati dalla terrazza dove prendevano la mira. Avevano fretta. L’incidente andava subito chiuso: l’olimpiade non poteva fermarsi. Due giorni senza gli elastici bianchi e neri che bruciavano vecchi record sembravano insopportabili. Rinchiusi nelle sale stampa sterilizzate, feltri sintetici e ragazze-bambola ben pettinate, ben profumate, sorrisi del tutto va bene, noi che dovevamo raccontare aspettavamo notizie. Centottanta giornalisti ad ogni piano, angosciati perché le ore passavano e i giornali dovevano chiudere e i direttori si arrabbiavano: siamo sicuri che la concorrenza non sa cosa è successo? Raccoglievamo solo le prediche delle autorità. Fermare l’olimpiade diventava un sacrilegio che avrebbe stimolato nuove catastrofi. I valori dello sport riappacificano i popoli ripiegando odio e terrorismo. Guai abbassare i riflettori. Di ora in ora, un discorso dopo l’altro e i poveretti stretti tra i fucili scivolavano nell’oscurità delle comparse che in fondo davano fastidio. Sapete quanto abbiamo speso per stadio nuovo e villaggio olimpico? Miliardi da capogiro. Da riguadagnare coi palazzoni in vendita appena si spegne la fiamma. Se perdiamo i diritti delle tv la voragine del debito farà tremare la nostra economia. Questo non ci interessa, rispondevano dalle redazioni di ogni giornale. Sono morti o sono salvi? Quanti morti, quanti feriti? Insomma, la notizia. Dei palestinesi e di Israele magari parleremo appena si ricomincia a correre.

Tra mezzanotte e le cinque del mattino scopro cosa c’era sotto il cerone malinconico che allungava le facce dei bavaresi. Non solidarietà umana, né pena per l’innocenza degli ostaggi, tantomeno comprensione per la follia di disperati che non avevano niente da perdere dopo il settembre nero di Amman quando re Hussein aveva rovesciato il fuoco del suo esercito sulle baracche nelle quali sopravvivevano palestinesi da mezzo secolo cittadini giordani. Il lamento non veniva solo dai politici che vedevano sfumare la grandeur del grande spettacolo, o dagli imprenditori che perdevano il grande affare. Anche bottegai, ristoranti, alberghi, spacciatori di souvenir, fabbricanti di birra e le scarpe, e le magliette, profumi e automobili, pubblicità da riversare negli spot del mondo, battevano i denti immaginando il crac. Chiudere l’olimpiade cinque giorni prima voleva dire compromettere la contabilità sognata dalla folla che giocava con la pelle degli altri come si gioca in borsa. Avevano torto o ragione? A loro modo, ragione. Ma era la ragione del tornaconto che si contrapponeva alla vita di nove persone prigioniere nel blocco 31, palazzina bassa fra le torri di calcestruzzo della nuova Monaco che doveva sfavillare. Il ministro bavarese Merk passa da un piano all’altro per distribuire ai giornalisti la sua rabbia: «Cosa sperano i terroristi? La pagheranno e la pagheranno cara... ». E cosa può sperare un giovanotto che è nato ed abita in un campo profughi, pattumiere di città che non lo vogliono e non sopportano altri ottocentomila accampati come lui? Arriva la conferma: tutti morti. Devono passare sei ore per capire chi ha sparato, ma alle nove del mattino finalmente lacrime di coccodrillo e bella notizia. L’olimpiade continua. Si ricomincia a correre e a saltare perché l’olimpiade è «la festa della gioventù». Cerco fra gli atleti un’ombra di sdegno. Sono agitati da altri pensieri. «Mi alleno da tre anni; una tragedia tanta fatica per niente... ». I Giochi riaprono coi pachistani appena usciti dall’agonia della guerra. Nella finale dell’hockey sul prato dovevano vedersela con l’India, quasi la rivincita delle battaglie perdute. Come potevano rinunciare? E gli americani del black power cosa faranno? Corrono, vincono: il gesto coraggioso dell’alzare il pugno verso la bandiera fa capire che sotto i muscoli batte un cuore generoso. Un po’ di noi scriveva così. E appena la fiamma si spegne, la retorica dolciastra unge ogni parola: valori dello sport, coraggio dell’affrontare gli ostacoli senza arrendersi ai ricatti. Con l’inno che suona, la conferma solenne: Olimpiadi simbolo di pace e di fraternità. Quattordici anni prima, Olimpiade a Città del Messico, la polizia aveva sparato sugli studenti: 400 morti alla vigilia della prima gara, per fortuna telecamere non disturbate dal sangue e dai corpi trascinati nell’asfalto. Insomma, bella festa dello sport. Otto anni dopo gli Stati Uniti non vanno a correre a Mosca perché la Russia ha invaso l’Afghanistan. E la Russia si vendica nell’Olimpiade che viene dopo: nessun atleta dell’arcipelago Est a Los Angeles perché Salvador e Nicaragua sono le colonie insanguinate del grande vicino. Se oggi i morti della Cecenia, Iraq, Afghanistan (un’altra volta) contassero come i morti di qualche anno fa, a Pechino salterebbero in pochi. Ma i Tg che raccontano le guerre e i giornalisti embedded hanno abituato le famiglie a non impressionarsi troppo. Vittime svalutate. E poi la Cina moderna è il paese del prodotto lordo che scavalca Wall Street. Ripiega nel suo portafoglio un terzo del debito di Washington. Quando Pechino ha il raffreddore, i nostri mercati tremano. Chi se la sente di pestare i piedi alla tigre dell’Asia, un miliardo e trecento milioni di clienti? Anche perché, diciamo la verità, il Tibet è un bel paese per fare trekking, e mettersi in posa fra i monaci buddisti, stupendi figuranti nelle foto delle vacanze, ma val la pena mettere in dubbio i valori dello sport per una piccola repressione nel piccolo tetto del mondo? Le proteste devono restare educate con qualche asprezza diplomatica a proposito delle immagini dure che sconsiderati reporter distribuiscono al mondo: «abbiamo l’impressione che state esagerando». Ma Bush brillerà in tribuna d’onore quando si aprirà il velario e quattro miliardi di sportivi saranno incollati alla tv. Un gol e uno spot, colpo di fioretto e altro spot. Ogni telecamera si incanterà davanti al ponte più lungo, all’aeroporto sterminato o allo stadio più lunare del mondo. In fondo spiace per il Dalai Lama, tanto garbato. Continui pure a pregare, prima o poi anche il Papa lo riceverà, ma più di così non si può fare: non sarebbe conveniente.


l’Unità (31 marzo 2008)


mchierici2@libero

2 commenti:

  1. vian il cerchio giallo dalle olimpiadi, che non vedrò.

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  2. meroe, come farò pure io.

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