sabato 29 settembre 2007

Mi è scoppiata la rivoluzione


L’attualità mi fa propendere per un post lungo e diviso in quattro parti. Argomento unico: la Birmania. Credo sia molto importante cogliere il forte segnale che proviene da una terra così lontana, dai tenaci e umili protagonisti della “rivoluzione allo zafferano” che sono questi giovani monaci buddisti che hanno raggrumato attorno a sé la popolazione e catalizzato l’attenzione del mondo, spero non solo per il simbolico giorno di buonismo manierato con l’abbigliamento in rosso. Se un altro mondo è (o sarà) possibile, proprio a questi segnali deve affidarsi per recuperare la speranza in un domani disponibile anche per le generazioni successive.


Quelle urla nel silenzio


Marina Forti


Da almeno quarant'anni la Birmania si sottrae agli occhi del mondo, come una casa sprangata e nascosta dietro un muro troppo alto per guardare dentro. Da quando hanno preso il potere nel 1962 con un colpo di stato, i militari hanno costruito una cortina di buio. La Birmania è diventata un paese isolato dal mondo, informazione censurata, internet filtrata, contatti con l'esterno minimi. Ma nessuna censura riesce mai a essere totale. Ieri le immagini dei militari che infieriscono sui giovani monaci di Yangoon hanno fatto il giro del mondo. Abbiamo visto il fumo e gli spari, i manganelli che si abbattono sui giovani avvolti nelle tuniche, i volti insanguinati degli studenti. La cortina di buio è crollata. Le proteste di queste settimane in Birmania sono la prima rivolta di massa contro il regime militare dal 1988, quando le proteste studentesche furono spente con un massacro. Non arrivate inaspettate, almeno per chi conosce un po' il paese. Dopo il massacro del 1988, e le elezioni annullate del 1990, l'opposizione birmana è costretta all'esilio o al lavoro sotterraneo: ma non è scomparsa. La politica è ovunque fatta di simboli e il volto sorridente di Aung San Suu Kyi, leader della Lega per la Democrazia, è un potente simbolo anche se costretta agli arresti e al silenzio. Non solo: una nuova generazione di studenti oggi si richiama a quelli che si erano ribellati vent'anni fa, e in questi giorni è scesa nelle strade. Poi ci sono i monaci, da sempre parte rispettata e importante della società birmana - e tanto più in un paese governato dalla censura, dove il monastero è anche scuola e luogo di confronto. Ora i monaci buddisti esercitano il loro «ruolo morale» sfilando nelle strade, facendosi microfono di un'intera popolazione, chiedendo democrazia e dialogo. Hanno calibrato bene i loro gesti: nei loro cortei hanno toccato prima la residenza di Aung San Suu Kyi, simbolo di unità, poi l'ambasciata cinese, perché il sostegno di Pechino è indispensabile alla giunta militare. Finora il mondo è rimasto indifferente a quanto succede in Birmania, nascondendosi dietro l'ipocrita formula del «dialogo costruttivo» (è il caso dell'Italia). È stato necessario vedere il sangue nelle vie di Yangoon perché le potenze mondiali uscissero dall'apatia. Ora risuonano parole indignate, si riunisce il Consiglio di sicurezza dell'Onu, si parla di condanne. Bene: bisogna che la Cina usi la sua influenza sulla giunta militare birmana. Servono sanzioni vere, non simboliche come quelle sui visti preannunciate dal presidente degli Stati uniti George W. Bush. La forza del governo militare di Yangoon sta nell'aver rastrellato negli ultimi vent'anni grandi investimenti stranieri: il più importante è quello di Total-Fina e Unocal, che hanno messo due miliardi di dollari nello sfruttamento del gas naturale chiudendo gli occhi alla repressione e al lavoro forzato imposti dal governo militare attorno al loro gasdotto. Il «dialogo costruttivo» non regge più. Gli studenti e i monaci di Yangoon si aspettano che il mondo li sostenga.


il manifesto (27 settembre 2007)


Quei buddisti monaci così miti e così forti


Come nella rivolta dell'88, anche oggi in prima fila contro la brutalità del potere militare ci sono le tuniche color porpora. Da dove viene la loro forza?


Renato Novelli


I monaci hanno sempre avuto grande importanza nella storia della Birmania. Una parte di essi svolgeva la funzione di consiglieri e referenti dei governanti nel periodo pre-britannico. Gran parte del «Sangha» (l'organizzazione del monachesimo Theravada, quello diffuso nella regione), ebbe una funzione chiave nella resistenza culturale alla società coloniale. Dopo il colpo di stato del 1962, che portò i militari al potere a Rangoon, i monaci non cessarono mai di moderare, per quanto potevano, gli aspetti più odiosi dell'oppressione politica e hanno conservato una relativa autonomia non direttamente conflittuale con il regime. Nella rivolta dell'88 anche loro parteciparono alle manifestazioni, soprattutto i giovani.


Ora, in piena stagione delle piogge, hanno saputo prendere la testa del dissenso diffuso, trasformarlo in proposta politica largamente unitaria e ridare fiato a un'opposizione colpita da due decenni di persecuzione. La sequenza degli avvenimenti parla chiaro. In agosto, di fronte al rincaro del 500% della benzina, l'associazione degli studenti del 1988 ha scelto la protesta: il 24 di quel mese 500 persone sono scese in piazza. Sono stati arrestati, forse torturati e ancora oggi detenuti. In settembre i monaci si sono mobilitati a Pakokku, a 500 km dalla capitale, e la polizia li ha dispersi con la forza. Il giorno dopo le associazioni dei monaci (la All Burma Monk Alliance Group e altre) hanno chiesto le scuse del governo. Le manifestazioni hanno preso da allora un'ampiezza senza precedenti dal 1988. Nella mobilitazione di questi giorni si può riconoscere una strategia precisa, con tre caratteristiche originali e funzionali a una lotta popolare organizzata.


Primo, i monaci hanno marciato sulle pagode e non verso gli edifici del governo. Non parlano di carovita, né suggeriscono soluzioni di governo, ma chiedono che il popolo sia ascoltato, in nome dell'amore che è alla base della visione buddista della vita sociale. Con ciò, e con il prestigio di cui le tuniche porpora godono, si sono candidati a sostenere una lunga onda di lotta. Non sarà facile che le repressione possa ripetere il successo terribile del 1988.

Secondo, i monaci hanno marciato verso la casa di Aung San Suu kyi, creando le condizioni della più ampia unità dell'opposizione.


Terzo, hanno marciato anche verso l'ambasciata cinese, dimostrando di avere chiaro dove risiedano la «mano invisibile» e l'economia esterna che sostengono la giunta militare di Yangoon: sanno che senza la mobilitazione della società civile internazionale e l'appoggio delle istituzioni mondiali non sarà possibile sostenere lo scontro.


Il buddismo dimostra così un potenziale di forza inedito per una lotta politica di democrazia avanzata. Perché il buddismo nella regione non è, come molti in occidente hanno creduto, una dottrina di alta meditazione sulla condizione umana e insieme una religione popolare un po' naif. E' piuttosto un'attitudine culturale di fronte alla vita comprensibile a chiunque e radicata tra tutti gli strati della società.


In queste ore di scontri, tale visione può fare la differenza con la sconfitta del 1988. Il padre di tutte le giunte birmane, il generale Ne Win autore del golpe del '62, amava dire che fare un putsch è come prendere una tigre per la coda per poi lottare con lei per sempre. E' un'immagine che dà la misura di quanto il padrone di oggi, il generale Than Shwe, possa essere consapevole della fragilità del suo potere nonostante la propria forza. Myanmar è un paese dove, secondo l'Onu, il 60% della popolazione impiega il 70% delle proprie entrate in consumi di sopravvivenza. L'economia dal 1988 a oggi è profondamente mutata. Ieri il 45% dell'export erano derrate agricole, oggi le principali voci d'esportazione sono il gas, i carburanti, legname, pietre preziose, droghe. La giunta ha realizzato un paese-lager dove esistono i lavori forzati in massa, da dove fuggono milioni di emigranti, dove si viene arrestati per niente. Il canto dei monaci di oggi ricorda il canto dei loro predecessori del 1945, che incrociano i soldati giapponesi nell'Arpa birmana: potrebbero fermare i carri armati, se una parte dell'esercito si pronuncerà contro la repressione brutale dei dimostranti.


il manifesto (27 settembre 2007)



Democrazia ma non solo: è partita la corsa alle ricchezze di Myanmar


Le manovre interne alla giunta militare e alla comunità buddista birmana e thailandese. La posta in palio è grossa: Cina, India, occidente se la contendono


Piergiorgio Pescali


«Una rivoluzione gandhiana». Così, un esponente della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld con la sua sigla in inglese) contattato per telefono a Bangkok, ha voluto definire la lunga serie di manifestazioni che stanno sconvolgendo la vita sociale e politica del Myanmar.

La rivoluzione delle toghe porpora, bisognerebbe aggiungere. Perché a differenza delle rivolte avvenute nel 1988 in quella che allora si chiamava ancora Rangoon, in cui studenti e membri politici della Nld presero parte attiva, quelle odierne sono organizzate da monaci buddisti.

E' anche per questo che il massacro di civili non ha ancora toccato i livelli di massa paventato da molti mass media, lo stesso che aveva posto fine alle rivolte di vent'anni fa, quando con la complice indifferenza dell'occidente, migliaia di dimostranti vennero uccisi e altrettanti infossati nelle carceri birmane.


Ma come è possibile che in pochi giorni, si possa organizzare e radunare una così grande massa di persone e, in particolare di monaci? Viaggiare nel Myanmar non è né facile né economico per la gente comune, specialmente nella stagione delle piogge. E' inoltre impossibile che militari e amministratori locali non si siano accorti di trasferimenti così massicci in un Paese dove tutto è controllato minuziosamente e dove le spie del regime sono infiltrate in ogni antro della vita sociale e religiosa.


Ciò che sta accadendo oggi sembra invece essere il risultato di una lunga e minuziosa opera di preparazione durata diversi mesi con la partecipazione attiva di diverse organizzazioni internazionali. Paradossalmente aveva ragione The New Light of Myanmar, il giornale dei generali, quando, ancora alla metà di agosto, affermava che le manifestazioni erano opera di «elementi esterni che vogliono destabilizzare il Paese».


Perché biasimare una delle pochissime cose sensate e veritiere che si sono mai lette su questo giornale? Non è un mistero per nessuno che tra i vertici del sangha (la comunità buddista) thailandese e birmana non scorra buon sangue. I leaders del clero birmano sono stati accuratamente scelti dai militari e sin dall'inizio si sono sempre schierati contro le dimostrazioni chiedendo più volte ai monaci di rientrare nelle pagode. Viceversa, nei monasteri thailandesi si sono svolte giornate di preghiera per i fratelli birmani.


Inoltre chi si fosse recato in Birmania nei mesi immediatamente precedenti le rivolte, non avrebbe potuto fare a meno di notare il vertiginoso aumento delle delegazioni di monaci delle due nazioni che andavano e venivano tra i due Paesi.


E' chiaro, anche, che la rivolta delle toghe porpora, non è fine a se stessa.

Ci sono molti governi, in particolare occidentali, che aspettano con ansia che venga aperta una porta per poter entrare nel paese senza destare un turbinio di polemiche e fare man bassa delle sue enormi ricchezze naturali. I monaci, dopo il fallimento delle rivolte politiche del 1988, rappresentavano la componente sociale più sicura affinché non si ripetesse quella stessa carneficina.

In questo campo Cina e occidente si sono trovati dalla stessa parte. Pechino non vede di buon occhio il generale Than Shwe, il leader della giunta militare birmana, considerato filo-indiano, preferendo un generale moderato e filo-cinese, che garantisse l'avvio del processo democratico e il dialogo con la leader riconosciuta del dissenso, Aung San Suu Kyi, per rendere il regime accettabile anche all'occidente e dare prova, alla vigilia delle olimpiadi di Pechino del prossimo anno, della buona volontà dei cinesi di proseguire nella via della liberalizzazione.


La democratizzazione del Myanmar porrebbe anche fine all'imbarazzante situazione di numerosi Paesi europei che, pur invocando il boicotaggio, continuano ad avere enormi interessi nella nazione asiatica. Sono oramai decine le multinazionali che hanno sfidato l'embargo investendo nel Paese: la francese Total, insieme alla malese Petronas, garantisce un miliardo di dollari l'anno, mentre Singapore ha insufflato un miliardo e seicento milioni di dollari in settantadue progetti turistici d'élite in cui l'Italia partecipa massicciamente con diversi tour operator.


E' grazie a tutti questi progetti che le riserve monetarie birmane sono state rimpinguate: secondo il Fondo mometario internazionale ammonterebbero ora a un milione di dollari (nel 1988 erano solo ottantanove milioni).


L'avvio della «road to democracy» potrebbe eliminare tutte queste incongruenze, consegnando all'economia di mercato un altro Paese da sfruttare.


il manifesto (28 settembre 2007)



Sanzioni, la timidezza europea è Total


Gli interessi della multinazionale francese dell'energia dietro la riluttanza di Sarkozy e dell'Unione a prendere seri provvedimenti contro i generali


A. D'A. (Bruxelles)


L'Europa, al pari del mondo, ha ri-scoperto la repressione in Birmania, vecchia di 45 anni. Il problema è che la stessa Ue, al pari degli Usa, continua a dimenticare che anche le sue imprese aggirano l'embargo imposto al paese. Ieri, praticamente all'unanimità, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che condanna l'operato del governo militare di Yangon, mentre sostiene con forza l'azione dei dimostranti. Strasburgo, si legge nel testo, «plaude alla coraggiosa azione dei monaci birmani e di decine di migliaia di altri manifestanti pacifici contro il regime antidemocratico e repressivo al potere in Birmania».

Il testo, rivisto poco prima del voto per raccogliere anche gli ultimissimi avvenimenti, riprende «l'orrore per l'uccisione di manifestanti pacifici, insiste affinché le forze di sicurezze rientrino nelle caserme e chiede che sia riconosciuta la legittimità delle richieste che vengono avanzate e che siano rilasciati i manifestanti arrestati ed altri prigionieri politici».


Con i monaci ed il popolo birmano si schierano anche la Commissione e i 27. Gli ambasciatori dei governi europei ieri mattina hanno dato mandato alla Presidenza portoghese e ai gruppi competenti di studiare come rafforzare il sistema sanzionatorio già in vigore da anni contro il regime militare di Rangoon. Quello delle sanzioni è un punto sottolineato anche dal Parlamento, ma è anche il punto debole dell'Europa. Da Bruxelles e Strasburgo si sottolineano i traffici di Cina ed India con il regime, che hanno reso inefficace il decennale embargo, ma si dimenticano le titubanze e le ipocrisie Made in Eu, soprattutto Made in France.


Secondo la Fidh, la Federazione internazionale dei diritti umani, la francese Total, in cooperazione con la statunitense Chevron Texaco, è il principale partner commerciale della giunta militare. L'impresa francese apporta il 7% del bilancio del regime in cambio dell'accordo per lo sfruttamento esclusivo del giacimento di gas di Yadana e del gasdotto che trasporta il gas fino in Tailandia. E proprio per questo gasdotto che la Total e l'Unocal, acquisita poi dalla Chevron, sono finite sotto giudizio per lavoro forzato: gli appalti venivano gestiti in loco da imprese di familiari dei generali che obbligavano la popolazione a lavorare ricorrendo alla forza. Per fugare le accuse, la Total nel 2003 chiede un rapporto sulla sua filiale birmana ad un ufficio di consulenze dal nome curioso Bk Conseil.

Il lavoro, ricambiato con 25.000 euro, arriva ad affermare in maniera chiara e forte che le accuse di schiavitù erano delle «fantasie». Delle fantasie che hanno però un prezzo, visto che nel novembre 2005 la Total si affretta ad indennizzare otto birmani ed a finanziare una pseudo Ong, il tutto in cambio del ritiro della denuncia.


La cosa più curiosa è che dietro alla Bk Conseil si nasconde Bernard Kouchner, attuale ministro degli esteri di Francia, paese che presiede attualmente il Consiglio di sicurezza dell'Onu. E non è quindi un caso che Parigi stia mantenendo in questi giorni una posizione quanto meno ambigua. Mercoledì Sarkozy aveva lanciato un appello alle imprese francesi, ed in particolare alla Total, perché evitino nuovi investimenti in Birmania.


La Total rispondeva picche, che non se ne parlava. Di fronte al rifiuto, era il governo ad abbassare i toni. Ieri il segretario di Stato ai diritti umani Rama Yade ha infatti addolcito quanto detto dal suo Presidente: «Il fatto che Total sia presente in Birmania non ha mai impedito all'Ue di proporre e rendere effettive le sue sanzioni».


Difatti non hanno mai funzionato, tanto che ora i 27 pensano «a rafforzarle e renderle più efficaci». Già prima di lei era però intervenuto Kouchner, assicurando che le attività della Total non sono «contrarie» alle misure decretate dalla Ue contro la Birmania. E dire che il gas non rappresenta solo la principale entrata per il regime, ma anche la sua base di potere. Un sistema di oppressione oliato con la complicità economica di Total, Chevron Texaco, della tailandese Pttep, della malese Petronas, della giapponese Nippon Oil mentre Cina ed India sono interessate alle riserve inesplorate, su cui punta anche la coreana Daewoo.


il manifesto (28 settembre 2007)


Foto: www.lastampa.it


 

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