martedì 16 ottobre 2007

Danzando tra i fili d’erba di un prato


15 ottobre 1967, una domenica. A Torino fu il giorno in cui la “farfalla granata” smise di volare per sempre. Il suo nome era Gigi Meroni. A quel tempo il calcio era una cosa seria, cioè un gioco e la giornata festiva aveva celebrato il quarto turno di campionato. La tragedia si consumò a poche ore dalle partite che, nel pomeriggio avevano consegnato all’archivio 22 gol complessivi, uno 0-0 e una vittoria in trasferta (della Spal a Brescia) per una classifica dove la Roma (2-1 alla Fiorentina) si ritrovava solitaria capolista a 7 punti, uno in più di Bologna e Juventus che avevano concluso senza reti il loro confronto e uno in più anche del Milan (alla fine vincitore del torneo con quattro giornate di anticipo) che quel giorno aveva superato facilmente il Mantova (poi retrocesso in serie B) per 3-1 (3-0 il primo tempo). Nel capoluogo piemontese i granata si erano imposti alla Sampdoria per 4-2, risalendo al quinto posto in graduatoria. Si era giocato in “una Torino di classico stampo autunnale, di mezzo ottobre, con le foglie dei platani che si staccano dai rami appesantiti dalla nebbia, dall’acquerugiola, e finiscono sulle rotaie dei tram. Corso Umberto, Corso Ferraris, Corso Vinzaglio, dalle parti della Crocetta che era, ed è, ma soprattutto era, il più classico dei quartieri residenziali. Di sera i lampioni dell’illuminazione pubblica stendono ombre lunghe su chi transita, l’asfalto umido riflette mille luci, i fanalini di chi va, i fari di chi sopraggiunge. Un auto. Un uomo che attraversa la strada.” Quella sera del 15 ottobre 1967, dopo la partita contro la Sampdoria, Meroni fu convinto dal suo grande amico Poletti, terzino roccioso e giocatore nella stessa squadra, ad abbandonare il ritiro post-partita prima del suo termine.


Dirigendosi verso il bar che di solito frequentava, attraversò avventatamente, nei pressi del civico 46, il corso Re Umberto: percorse la prima metà della carreggiata, fermandosi in mezzo alla strada cercando un momento buono per passare nell'intenso traffico. Dalla sua destra arrivò rapidamente un'auto troppo vicina. Meroni e Poletti fecero un passo indietro. Poletti fu urtato di striscio da una Fiat 124 Coupè proveniente dal lato opposto, e Meroni invece fu colpito in pieno alla gamba sinistra; fu sollevato in aria dall'impatto e cadde a terra dall'altra parte della carreggiata, per poi venire travolto da una Lancia Aprilia, che ne agganciò il corpo trascinandolo per 50 metri, mentre la Fiat 124 Coupè si fermava a bordo strada. Meroni morì poche ore dopo, alle 22.40, all'ospedale Mauriziano, dove venne portato da un passante, tal Giuseppe Messina, poiché l'ambulanza rimase imbottigliata nel traffico post-partita. Arrivò al nosocomio con le gambe e il bacino fratturati, e con un grave trauma cranico.


La Fiat era guidata da Attilio Romero, un diciannovenne neopatentato, di buona famiglia e figlio di un medico agiato, tifosissimo del Torino e grande fan di Meroni di cui aveva copiato anche la capigliatura e con cui aveva una lieve somiglianza fisica. Romero, che al momento dell'incidente stava tornando dopo aver visto la partita torinese, sarebbe nel 2000 diventato presidente del Torino e nel 2005 l'avrebbe portato al fallimento.


Capelli lunghi, calzettoni arrotolati, la funambolica ala destra del Torino rappresentò un mito per i giovani di allora. Classico genio e sregolatezza fu la gioia dei tifosi e la disperazione degli allenatori. Eccellente agonista, capace di inventare gol impossibili e di devastare le difese avversarie con finte e slalom ubriacanti. Nel Torino disputò 122 partite (103 in campionato, 7 in Coppa Italia e 12 nelle coppe europee) realizzando 25 gol (22 in campionato e 3 nelle competizioni internazionali) alcuni dei quali da autentica cineteca calcistica. Con il Torino lega il suo nome alla Coppa Italia 1968. Gioca 6 volte (2 gol) con l'Italia A e in due occasioni (1 rete) con gli azzurrini della B. Il suo ultimo gol in maglia granata lo segnò, su rigore, al Brescia (superato per 2-0) il 1° ottobre 1967.


Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo italiano scrisse nel suo necrologio. “Era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti”. “Gigi non era soltanto carne, muscoli e nervi. Era genialità, coraggio, comprensione, altruismo” con queste parole lo celebrò dall’altare, nel giorno del suo funerale, a cui parteciparono 20mila persone, don Francesco Ferraudo. E la sua compagna Cristina Understadt, una ragazza che caricava i fucili ad aria compressa nei luna park, un amore scandaloso per quei tempi visto che la ragazza abbandonò il marito per seguire Meroni, lo ricorda con intenso e immutato affetto.Ci innamorammo dei nostri occhi, subito", è uno: bellissimo. Un altro: "Gigi era sempre pronto ad ascoltare tutti. Anche se era stanco, si sedeva e faceva un gesto. Forza, racconta. Regalava i premi partita agli orfanotrofi e ai ricoveri per anziani. Non lo diceva a nessuno, in compenso c'era sempre chi lo giudicava per i vestiti. Tutti i giorni mi regalava una rosa rossa. Tutti i 15 ottobre sette rose rosse mie, sulla sua tomba a Como. Sette come il suo numero”.


Così conclude Nando dalla Chiesa “La farfalla granata”, il commovente libro che racconta la storia del calciatore morto a 24 anni. “Solo i compagni di scuola sono immortali, nelle precise forme estetiche e mentali nelle quali li abbiamo conosciuti.


A Gigi Meroni, farfalla granata, è toccato in sorte di essere, per la grande, numerosa e inquieta generazione dei ragazzi che lo applaudirono, come un compagno di scuola. Un prodigio meraviglioso, a pensarci. Proprio lui che ha lasciato la scuola dopo la terza media, lui che non è potuto andare alle feste di classe degli anni cinquanta e sessanta, è diventato in realtà il compagno di scuola di centinaia di migliaia di adolescenti carichi di vita e di speranza. Un privilegio grandissimo, bisogna ammetterlo. Forse il più grande dei privilegi. Gli antichi greci erano convinti che coloro che morivano giovani fossero cari agli dei. Magari per il loro coraggio. O per il loro altruismo. O per la musa (la fantasia) che ispirava il loro genio. A Gigi Meroni, calciatore-artista vissuto il tempo di una farfalla, qualcuno sembra avere voluto bene per davvero”.  


Quel 15 ottobre di 40 anni fa accadde pure dell’altro: Fidel Castro annunciò la morte di Ernesto Che Guevara e così a migliaia di chilometri di distanza il mito politico si fuse con il mito calcistico. Il triste decesso comune rese entrambi immortali.


*Il corsivo è di Franco Piccinelli, tratto dalla “Storia del Calcio Italiano giornata per giornata”, volume 4, editore Newton Compton, da cui ho attinto la maggior parte dei dati statistici.


Per la ricostruzione dell’incidente mi sono avvalso di Wikipedia.


Il libro “La farfalla granata” è edito da Limina (1995).


 

1 commento:

  1. liveduel, allora ho proprio fatto bene a segnalarti questo post.

    Avevo 10 anni quando morì Meroni. Ricordo che davanti alla scuola elementare la notizia corse di bocca in bocca, tutti increduli e anche smarriti per quello che era per molti il primo incontro, seppure indiretto, con la morte.

    Sono stato a lungo incerto su quale foto pubblicare, perchè quella del libro di Dalla Chiesa è assai suggestiva. Ed è un'altra magia post mortem di Meroni quella di essere un idolo anche per le nuove generazioni.

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