In un agile libretto allegato all’ “l’Unità” di oggi si rievoca l’alluvione di Firenze. Ne ho tratto ampi stralci dal racconto che ne fa il giornalista Wladimiro Settimelli.
Il mio ricordo di questo evento è assai confuso, assomiglia molto alle sbiadite immagini in bianco e nero trasmesse dalla tv in questi giorni, resta nitida invece una domanda, anche maliziosa assai, ma come è noto “a pensar male si farà pure peccato” (per chi crede che lo sia), però ci s’indovina sovente.
E allora mi chiedo: se accadesse domani una simile tragedia ci sarebbero nuovi “angeli del fango” italiani, così numerosi come in quei giorni? Le ultime generazioni allevate e lobotomizzate dalla tv, anestetizzate dall’ ipod, con l’ignoranza elevata a valore, la “velina” come mito e un provino per “igrandifratelli” di ogni genere quale aspirazione, si riverserebbero in una città allagata, immergendosi nel fango in nome della cultura? Oppure non si porrebbero per nulla il problema, perché per una parte di loro è meglio restare “pupe e pupi” chè capita pure che ti pagano per questo?
E l’Arno entrò nelle case
Sono passati quarant’anni, ma quel rombo terrificante del fiume lo ricordano ancora tutti. Così come ricordano i terribili sbuffi d’aria che arrivavano dall’Arno e sapevano di fango, foglie marce e sporcizia. Era come un potente soffio cattivo che scorreva a pelo d’acqua e si insinuava tra le case, a mettere paura e angoscia, Era la sera del 3 novembre 1966 e avrebbe dovuto essere una sera come le altre. Invece, fin dal 25 ottobre, la pioggia non aveva mai smesso un momento di scendere dalle nuvole, salvo qualche breve interruzione. La solita pioggia? Non era questa l’impressione di quelli che, in silenzio, si affacciavano alle spallette dell’ Arno per dare una occhiata. Pareva proprio il diluvio universale. Il pomeriggio era andato avanti così e alle 22 l’acqua aveva preso a salire a rotta di collo, mentre arrivavano, tra gorghi e mulinelli, grossi tronchi d’albero con l’edera ancora attaccata alla corteccia e un po’ di rami. Ogni tanto, in qualche insenatura del fiume già coperta dal fango, andava a infilarsi qualche animale morto: un cane, tre galline e addirittura un piccolo asinello. Brutti, bruttissimi segnali per chi guardava dalla Nave di Rovezzano, dalle Sieci, da Compiobbi e in città verso via Villamagna. Anche in questo caso, i racconti sono precisi e inequivocabili. I giornali, dopo, ricorderanno un vecchio signore che cercava di fare battute spiritose per esorcizzare la paura, citando “padre Dante” e la sua Beatrice che si incontravano sul Ponte a Santa Trinita con il fiume che scorreva tranquillo. Ma non rideva proprio nessuno. Neanche lui.
Poi, la situazione era precipitata. Saranno state le 23, ricordano in tanti. Ma era alle 2,30 che l’acqua aveva scavalcato gli argini e si era avventata sulle case allagando cantine, garage, strade e straduzze. Il trabocco era avvenuto prima di tutto, alla Nave a Rovezzano, a Reggello, alle Sieci, Compiobbi e al Girone. La lotta tra gli uomini e il fiume era già cominciata.
Non sono pochi ad aver capito quello che sta per succedere. Ma in città, quasi tutti dormivano, dopo una giornata umidiccia e fredda. Ed ecco altre testimonianze dirette. L’acqua ora scende per via Villamagna e infila tutte le strade intorno a Piazza Gavinana: Via Giovanni delle Bande Nere, via Giampaolo Orsini, Piazza Gualfredotto da Milano e via Poggio Bracciolini. Acqua e melma salgono a rotta di collo e hanno raggiunto già i due metri di altezza. Poi, si arriverà fin quasi a cinque metri. Verso il centro c’è chi continua a rimanere a letto, ma, ogni tanto, si sentono dei tonfi terribili. Sono i bidoni di ferro che vanno a sbattere contro i piloni dei ponti, mentre i tronchi sfondano le casette del Ponte Vecchio. Ma chi ha il sonno pesante continua a non capire. I telefoni non funzionano già più. Prima sono arrivate centinaia di chiamate ai vigili del fuoco. Parte la luce, un rione dopo l’altro.
Le ricostruzioni e i racconti sono omogenei nel descrivere l’arrivo dell’inferno. Tocca subito alla zona di S. Niccolò, a via dei Bardi, Piazza Demidoff, via dei
Renai, Piazza dei Mozzi. E poi Borgo S. Jacopo, via Maggio, Via S. Spirito. Punto d’arrivo della piena, il popolare quartiere di S. Frediano. Ora si affacciano in centinaia alle finestre. Non dorme davvero più nessuno. Guardano per le strade, in basso con un silenzio pieno di paura. C’è già chi corre per portare in alto la roba delle cantine e poi quella degli appartamenti a pianterreno. Poi ancora, nuovo trasferimento dal primo al secondo piano. Si sentono richiami sommessi e poi urlati e c’è chi, nel buio, tentando di uscire fuori, finisce nei vortici d’acqua e nel fango e viene portato via di peso. Anche per le macchine in sosta è un pandemonio. Paiono ormai in mano ai fantasmi: vengono spinte via prima lentamente e poi a gran velocità. Rotolano, si fermano contro un muro o un palo della segnaletica e schizzano di nuovo via. Se tutto non fosse così tragico, ci sarebbe da sorridere perché quando l’acqua raggiunge gli impianti elettrici, l’improvvisa serie di contatti provoca l’accensione dei fari, l’accensione di una freccia o dello stop, il suono dei clacson. In mezzo alla melma, ora dilaga anche il gasolio delle caldaie e tutto diventa schifosamente oleoso, sporco, nerastro. (...)
(...) I fiorentini sono umiliati, feriti e si sentono traditi dal loro fiume. Corrono tante voci: dicono che vicino al Ponte alle Grazie, in un ìstituto per i vecchi, tanti poveracci sono annegati nei sonno. Altri hanno sentito dire che sono state le dighe di Levane ad aver ceduto. Ma non è vero. Si sa di certo e si capisce dalla radio, che Firenze è incredibilmente e assurdamente isolata dal mondo. La ferrovia è interrotta, l’autostrada del Sole è percorribile fino ad un certo punto, ma non serve certo per arrivare in città. Non funzionano le telescriventi né i telefoni. La corrente elettrica non torna e ci si può muovere soltanto con gli stivaloni di gomma alle gambe. Di quelli grandi da pesca. Per mangiare e bere, il problema è immenso. (...)
(...) Intanto sono già arrivati i primi soldati e i volontari da Perugia e dall’Emilia. A quel che si sa è mezza Italia sott’acqua, colpita dal maltempo e dall’alluvione. Si ascoltano, allibiti, le notizie sul dramma di Venezia e di Grosseto, di Empoli e di centinaia di piccoli e grandi paesi della provincia di Firenze. Questa volta, l’Arno, fino alla foce, non ha proprio risparmiato nessuno. C’è chi racconta che nelle campagne intorno alla città, nella notte dell’acqua grande che arrivava fino ai tetti delle case coloniche, c’erano intere famiglie proprio sui tetti. E i contadini sparavano fucilate con gli schioppi da caccia per farsi sentire dagli elicotteristi ed essere salvati. Una donna era morta proprio mentre veniva portata via appesa ad una fune: non ce l’aveva fatta a reggersi.
A Roma, il governo e i ministri tentennano. Come al solito, nelle tragedie italiane, le “autorità” sono sempre le ultime a capire e a provvedere. Che aspettano a correre, ad aiutare? Così quando il presidente Saragat arriva in S. Croce accompagnato dal solito codazzo di tirapiedi, dalla gente che spala il fango, si levano urla con la strozza in gola: “Non portateci Saragat, mandateci da mangiare, portateci da bere”. Quando, più tardi, verrà il Papa, il buon Paolo VI, non ci saranno urla, ma un continuo borbottio di scontento e di dolore. (...)
(...) Ma non è tutto finito: le notizie dell’alluvione di Firenze hanno fatto il giro del mondo e sono in migliaia ad accorrere da ogni angolo per salvare le opere d'arte, i libri, i quadri, i monumenti. Dormono nei carri ferroviari alla stazione, dentro i sacchi a pelo. Sono capelloni e "figli dei fiori", come vengono chiamati, americani, cinesi, francesi, inglesi, giapponesi, tedeschi, sovietici, olandesi, spagnoli, turchi, portoghesi, svedesi, australiani, canadesi e persino senegalesi. Gli italiani sono arrivati da ogni piccola e grande città e da ogni paesello. Che stupore, che incredibile sorpresa. Si allarga il cuore a vedere come lavorano. Col trascorrere dei giorni diventano migliaia e, armati di pale, di scope, di disinfettante (la paura del tifo è ancora grande) girano nelle case e nelle più piccole stradine per pulire, lavare, mettere ordine.
Giù negli scantinati e nei depositi della Biblioteca nazionale, quei ragazzi lavorano per ore e ore, per giorni interi, nel silenzio più assoluto. Quasi avessero paura di danneggiare i libri recuperati con la voce. Sono molti i professori e gli uomini di cultura della città, che vanno con loro nell'acqua e nel fango e quando escono tengono la testa bassa per nascondere le lacrime. Nessuno si sarebbe aspettato mai meno che niente da quei ragazzi. Invece, invece...
Raccontano le cronache che molti di loro faranno amicizia e istaureranno rapporti che durano ancora. Molti altri, in nome del fango, della solidarietà e dell'arte, si sono innamorati e persino sposati.
Ma l'alluvione di Firenze ha spazzato via anche molte vite. Quante? Le cifre ufficiali dicono quaranta. Ma qualcuno giura che c'è stata gente che viveva da sola e che nessuno ha più rivisto dopo i giorni dell'inferno. (...)
io, alla domanda che ti poni all'inizio del post, mi azzardo a rispondere di no.
RispondiEliminaMa spero di sbagliarmi.
Molto bello l'articolo, ma vorrei spezzare una lancia a favore delle "nuove generazioni" nella maggior parte dei casi affatto allevate e lobotomizzare dalla tv ipod ecc.
RispondiEliminaSpesso trovo piu' menefreghismo in persone della mia generazione.
Certo veline e grandifratelli ci sono, ma anche perche' ci sono persone
"adulte" che guardano.
Insomma sono convinta che uscirebbero tanti angeli dal fango anche ora.
Io non ricordo l'alluvione di Firenze se non nelle successive rievocazioni ma anche dalle mie parti il panaro ruppe gli argini e, pur non essendo stata una cosa grave, non ci furono vittime, i racconti li ho sentiti spesso.
un caro saluto festivo, Paola
Chissà se oggi la solidarietà nei confronti di una città ferita come lo fu Firenze quarant'anni fa, sarebbe altrettanto pronta e generosa.
RispondiEliminaAllora fu la nostra salvezza: senza gli angeli del fango non ce l'avremmo mai fatta, né materialmente né psicologicamente. Sentire accanto a noi l'affetto e l'aiuto di tutte quelle persone che abbandonarono le loro città e le loro famiglie per aiutarci fu fondamentale per trovare il coraggio di affrontare le terribili conseguenze dell'alluvione.
Grazie del bellissimo commento che mi hai lasciato.
Un abbraccio affettuoso da Fioredicampo:-)
Non penso che "veline" e "grandifratelli" siano degli ostacoli alle potenzialità dei giovani, che, in qualsiasi momento, e lo farebbero anche oggi, si sono sempre dimostrati pronti ad intervenire in aiuto di popolazioni in difficoltà, dando risalto ai veri valori della vità!
RispondiEliminaSergio (non più giovane)
Un suggerimento: non puoi far sì che la lettura dei commenti sia più facilitato con un maggior contrasto fra il carattere e lo sfondo?
RispondiEliminaCosì com'è, si legge malissimo.
Saluti
Sergio
lo sai sciaguratone che mi mancano i tuoi post
RispondiElimina5 novembre 1966 nasceva una stella 8stefano)
ciao stef
La sera del 3 Novembre andai con mia madre al cinema in centro a Firenze a vedere " La Bibbia". Uscendo, mamma, che era un gran bel tipo, esclamò: ci vorrebbe un bel diluvio ogni tanto! Il giorno dopo aveva due metri e mezzo d'acqua in casa...
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