Il punto è che la parola “guerra” andrebbe espunta dal vocabolario, dalle conversazioni, dalle strategie, dalle prospettive future che, anzi, una guerra rende ancora più fragili e precarie. Cancellata anche dalle mappe del mondo globalizzato che, per un perverso e insano corto circuito mentale, è arretrato all’epoca del sasso e della fionda. Dovrebbe diventare un termine osceno, tabù, di quelli che provocano repulsione e fanno vomitare. Perché la guerra è una realtà che procura nausea e vomito.
Basti sentire uno degli ultimi grandi e saggi vecchi come Pietro Ingrao, intervistato da “l’Unità” il 18 settembre.
(…)Ma perché siamo arrivati a questo punto?
«Perché la pace non è e non è mai stata un fatto spontaneo. Anzi se ripercorro con la mente il secolo amaro e terribile in cui sono vissuto vedo che mi sono trovato subito in compagnia della guerra, anche quando erano appena finite le carneficine umane».
Allora, la pace è impossibile?
«Se guardo all’esperienza di tanti popoli e di tante generazioni starei per rispondere: sì. Però poi mi ricordo anche che in pagine vincolanti delle nostre leggi abbiamo dichiarato il contrario. Ricordi l’articolo 11 della Costituzione? Lì sta scritto che è consentita al nostro Paese solo la guerra di difesa. Io dico con grande amarezza: non mi pare che l’impresa di quei soldati italiani in Afghanistan possa essere definita guerra di difesa». (…)
Oppure Gino Strada, sempre sullo stesso giornale e nel medesimo giorno (a proposito: come mai “Emergency” non viene mai attaccata ed è senza armi che non siano gli attrezzi chirurgici? Non sarà che la percezione di “non aggressore” è nitida? Che è veramente un’organizzazione operatrice di pace?).
Gino Strada: «In Afghanistan è vera guerra. Dobbiamo ritirarci subito»
Per Gino Strada il sangue non ha un colore diverso a seconda della bandiera e il dispiacere è lo stesso per i soldati italiani uccisi ieri e per tutte le altre vittime della guerra. Non riesce neppure a capire perchè
Il lascito di una casta, lo chiama. «I politici di 30 anni fa non lo avrebbero fatto in spregio della Costituzione ». Il 7 novembre del 2001: «l’entrata in guerra dell’Italia decisa dal 92 percento del Parlamento italiano, il voto più bipartisan della storia della Repubblica», per puro «servilismo verso gli Stati Uniti». «Che cosa ci avevano fatto i talebani? Niente. E poi cosa avevano fatto anche agli americani?». Forse non è troppo semplice, recentemente anche negli Usa gli analisti cominciano a porsi la stessa domanda: perchè siamo lì, cosa ci stiamo a fare?.Non c’erano afghani nel commando dei terroristi delle Torri gemelle. Ma la rappresaglia di Bush scattò lì, con Enduring Freedom, il 7 ottobre. Per colpire le basi di Bin Laden, si disse. Otto anni dopo più del l’80 percento dell’Afghanistan è tornato sotto il controllo dei talebani, di Bin Laden non c’è traccia, sono morti 1.403 militari stranieri, spesi centinaia di milioni di euro e il Paese è più povero e più criminale, produce il 90 percento dell’oppio del mondo. Dopo otto anni l’unico centro di rianimazione è quello di Emergency a Kabul, sei letti di terapia intensiva per 25 milioni di persone. Spendiamo 3 milioni di euro al giorno per la guerra. Sai cosa avremmo potuto con questi soldi in Italia per i poveri, gli emarginati, chi ha bisogno. In moneta afghana invece avremmo potuto aprire 600 ospedali e 10 mila scuole ». A Khost gli americani hanno costruito una strada, a Kajaki una diga,
Quanto ai soldi della cooperazione internazionale, «noi non abbiamo ricevuto una lira quindi non so - dice il fondatore di Emergency - ma gli afghani che si lamentano, anche ora alle presidenziali, dicono che i soldi sono serviti soprattutto a ingrassare funzionari ministeriali e signorotti della guerra». Lasciare il Paese, allora, andarsene unilateralmente o tutti insieme, e lasciare ai fanatici mujaeddin partita vinta? Non una bella prospettiva anche fosse realizzabile. «Finché c’è l’occupazione militare ci sarà la guerra. Emergency lavora in Afghanistan da 10 anni, da tempi non sospetti. Abbiamo curato 2 milioni e 200 mila afghani, il 10 per cento della popolazione. In pratica una famiglia su due, sono famiglie con centinaia di persone, ha ricevuto nostre cure. Per questo a Laskhargah non è mai stato torto un capello al nostro personale internazionale. Tutti dovrebbero porre fine a questa guerra e lasciare che gli afghani trovino la loro soluzione attraverso il dialogo, che per la verità non si è mai interrotto, tra le varie fazioni di talebani, mujaeddin e questo governo. Qual è l’obbiettivo di questa guerra?». Domanda che torna. «Le ultime due guerre internazionali - è la spiegazione di Strada - sono legate ai giacimenti di gas e petrolio. In Iraq perchè ci sono, l’Afghanistan invece è sulla via di transito dal Kazakistan e dalle altre ex repubbliche sovietiche». Pipeline di sangue. La nuova strategia McChrystal o la conferenza sull’Afghanistan, inutile parlarne con un chirurgo. Ad inquietarlo è che dei 35 feriti civili dell’attentato all’ospedale di Emergency a Kabul ne sono arrivati solo tre. Gli altri sono stati dirottati all’ospedale militare detto “dei 400 letti”, «struttura del tutto inadeguata, ma lì possono essere interrogati senza paroline dolci».
l’Unità (18 settembre 2009)
In questa rassegna stampa domenicale, che non mi sento di definire “bouquet” se non di crisantemi, ci sono molti pezzi interessanti, tra cui il commento domenicale di Barbara Spinelli ed un racconto di vera missione di pace, che non riuscirebbe a farsi largo in tv, perché “buonista” e dunque anacronistico. La storia di Selene Biffi che inorgoglisce e disegna un sottile arcobaleno nel cielo nerissimo della Storia.
NUOVE STRATEGIE USA
Non c'è la svolta di Obama: civili sempre nel mirino
di Emanuele Giordana*
Quanto vale in Afghanistan la vita di un uomo? Dipende come sempre dal colore della sua pelle e dal passaporto. Ma anche dall'abito.
In Afghanistan si muore ogni giorno anche se in modo diverso. E non è consolante sapere che la fetta più grossa è da imputare ai talebani. Si muore di raid aerei, di mine disseminate sul terreno, di «errori» come quando una sventagliata di mitra uccise una bambina - era primavera - che viaggiava su una macchina che non si era fermata allo stop dei soldati italiani. Incidenti. Così tanti da far dire al nuovo responsabile della Nato in Afghanistan, l'americano Stanley McChrystal, che la «priorità» sarà - da Obama in poi - la protezione dei civili.
Ma paradossalmente è proprio l'era McChrystal quella maggiormente segnata da nuove stragi di innocenti. La prima si consuma agli inizi di maggio a Farah: McChrystal non è affettivamente ancora a capo di Isaf e anzi, proprio quel giorno, il presidente Obama deve incontrare negli Usa Karzai e il suo omologo pachistano Zardari.
Il raid aereo americano colpisce indiscriminatamente l'area di Bala Bolok. Il numero preciso dei morti non si riesce a sapere: 90-100-130? L'unica cosa certa è che sono civili, sepolti sotto il peso delle bombe.
Infine la strage di Kunduz, agli inizi di settembre. I tedeschi chiedono l'aiuto dell'aviazione per colpire gli autori di un furto di autocisterne di gasolio della Nato. Arrivano i caccia e colpiscono nel mucchio. Mc Chrystal - è la prima volta che accade - si reca subito sul posto e striglia i tedeschi.
Le vittime? Forse 40. Un'altra stima dice 70. Ancora una volta civili.
Solo nella prima settimana dello scorso mese di agosto nel sud del paese le Nazioni unite registrano 64 vittime civili (uccise soprattutto da ordigni artigianali) e, nella stessa area, vengono certificati 79 diversi «incidenti», il 14% in più rispetto alla settimana precedente. Il rapporto dell'Onu diffuso negli stessi giorni a Kabul dice che il numero delle vittime civili nei primi mesi del 2009 è aumentato del 24% rispetto allo stesso periodo del 2008, con un bilancio di oltre mille innocenti uccisi.
A far la parte del leone sono i talebani (400 vittime) ma il dato non è consolante visto che 200 morti sono imputabili a raid aerei occidentali e 289 sono stati i civili uccisi negli scontri tra forze anti governative ed eserciti (afgano e occidentali). È un trend in ascesa.
Human Rights Watch denuncia nel 2008 che nei primi sette mesi di quell'anno sono almeno 540 i civili afgani uccisi dal conflitto: 367 per via degli attentati guerriglieri e 173 per attacchi Nato o americani; di questi 116 sono imputabili ai soli bombardamenti aerei. Un'arma, dice Hrw, scelta perché consente di non esporre i nostri eserciti. Ma paragonando questi dati al passato più remoto, le stragi di civili per operazioni dell'aviazione sarebbero addirittura triplicate (nel 2006 almeno 929 civili furono uccisi di cui 699 per attacchi talebani e circa 230 per attacchi delle coalizioni; nel 2007, 1633 afgani persero la vita, di cui 950 per mano della guerriglia e 321 uccisi dai bombardamenti).
Una situazione che, ben lungi dall'indicare la famosa «svolta politica» da più parti invocata, continua a portare il conflitto - ieri come oggi - su un pericolosissimo crinale: quello di un sempre più debole consenso sociale al governo Karzai e ai suoi alleati occidentali.
Il conto sembra sempre per difetto e la somma totale è a tre zeri soprattutto se si sommano anche le vittime dei bombardamenti del 2001 e quelle straziate, subito dopo, dalle micidiali cluster bomb, le bombette che escono da una bomba madre e che, inesplose, uccidono come mine.
*Lettera22
il manifesto (18 settembre 2009)
APERTURA | di Franco Cardini
Lettera a un amico di sinistra
«Caro amico, ti scrivo», tanto per citare uno che entrambi amiamo, non farò il tuo nome, perché sei uno famoso. Ma anche se tu non lo fossi, sarebbe uguale: viviamo un momento difficile con molti aspetti grotteschi, il che è un aggravante. Ma proprio per questo bisogna essere vigili e coraggiosi: combattere le nostre contraddizioni e le nostre viltà. Tutti: quelli che hanno un nome e quelli che «non sono nessuno».
Oggi (ieri, ndr.) è il 17 settembre 2009: un giorno triste per il nostro paese. In Afghanistan sono caduti sei nostri concittadini, sei soldati delle nostre forze armate: e forse il bilancio è destinato da appesantirsi con il passar delle ore. Non possiamo esserne che profondamente addolorati: perché erano esseri umani, perché erano giovani e lasciano famiglie nel dolore, perché erano connazionali. Ma tutto ciò pone a tutti noi - e soprattutto a voialtri di sinistra - un grave e inderogabile interrogativo in più.
Abbiamo sentito le dichiarazioni dei politici: addolorate tutte, e questo va da sé (che il dolore sia sincero, è un altro paio di maniche). Ma al di là di ciò, e con pochissime eccezioni, uno squallore. Tambureggiar di retorica da «armiamoci-e-partite» nel centrodestra, fra quei politici che di quei morti sono i veri responsabili perché hanno sempre con retorica pelosa difeso l'indifendibile occupazione dell'Afghanistan; fra quelli per i quali «la patria si difende anche facendo la guardia a un bidone di benzina» (anche quando si tratti di benzina altrui: di quella della californiana Unocal, per esempio). Ma è comprensibile che nel centrodestra si parli così: difesa della pace, della sicurezza e della democrazia contro il terrorismo, per mascherare un'operazione postcolonialista ispirata a un disegno geopolitico idiota e criminale, un'aggressione degli Usa e della Nato travestita da «liberazione». Liberazione di chi, da chi e da che cosa? Dinanzi alla Resistenza degli afghani (perché, caro amico, quella è una Resistenza), il motto dei sostenitori dell'occupazione potrebb'essere solo uno: «Fuori gli afghani dall'Afghanistan!». Ma siamo tutti d'accordo, spero, che sarebbe pretesa eccessiva quella di chiedere solo di subire a chi deve sopportare un'aggressione in casa sua. Eppure, mi duole dirlo, ma la destra è nonostante tutto in questa circostanza più decorosa di parte della sinistra. Quando sento La Russa parlare di «vile attentato» e di «eroici combattenti», so perfettamente a che cosa pensa e a quale analogia storica allude. Perché, lo si voglia o no, l'Afghanistan 2009 somiglia in modo impressionante all'Italia e all'Europa 1944: da una parte un esercito invasore spalleggiato da alcuni collaborazionisti, dall'altra una variopinta e discorde armata che litigava quasi su tutto, ma che su una cosa era d'accordo. Che gl'invasori andavano cacciati. E a loro volta, per gli invasori e i loro alleati, i patrioti erano «banditi», «terroristi», «ribelli», «assassini», «vili». E gli invasori, mentre si comportavano con durezza e spietatezza, pretendevano d'essere nel giusto e di operare nello stesso bene delle popolazioni che opprimevano; e tra loro non mancavano (al contrario!) tante persone buone e in buona fede, mentre dall'altra parte non mancavano episodi di crudeltà e di ferocia. Mentre La Russa parla, egli traccia probabilmente un'equazione mentale tra Wehrmacht e Salò da una parte, corpo di spedizione Nato dall'altra: e si sente a suo agio e perfino a posto con la coscienza.
Caro amico, abbiamo litigato tante volte sui temi della guerra civile e della Resistenza: e sai bene che io ho tante volte difeso le ragioni dei tedeschi e dei fascisti. I paragoni zoppicano sempre: ed è evidente che quando c'è una guerra non c'è mai nessuno che abbia del tutto torto o del tutto ragione, e che comunque l'Europa del '44 non è esattamente l'Afghanistan del 2009. Eppure, alla fine di tutto bisogna pur sempre avere il coraggio di giudicare e di decidere da che parte stare.
Proprio alla luce di ciò, un afghano che lotti per cacciare un esercito straniero armato dal suo paese può anche essere un fanatico religioso (come ieri poteva anche essere un maledetto stalinista): ma non si possono negare le sue ragioni, né derubricare a «terrorismo» la sua testimonianza e il suo sacrificio.
Eppure, le dichiarazioni di buona parte dei rappresentanti della sinistra hanno finito col dar quasi ragione al patriottardismo della destra asservita alla volontà degli Usa e della Nato. Ora, se le destre fingono di non accorgersi che in Iraq come in Afghanistan i nostri soldati sono ridotti a far da ascari (con tutto il rispetto per i soldati: e naturalmente anche per gli ascari), sono affari loro. Ma è mai possibile che pochissimi, a sinistra, trovino il coraggio di dire alto e chiaro che il nostro esercito è stato coinvolto in spedizioni infami e senza via d'uscita e che i militari che sono andati là vi sono stati attratti non solo dal senso del dovere (là dove esso sia sentito), ma anche dall'avventura e magari dalle prospettive di alti ingaggi e di promozioni, quando non addirittura da malsane opzioni ideologiche come qua e là invece affiorato da certe pur isolate dichiarazioni? È mai possibile che nessuno additi nel servilismo cinico dei nostri governanti di oggi il vero responsabile della morte dei nostri ragazzi in uniforme, sacrificati a un calcolo politico-diplomatico e a qualche prospettiva di interesse non già «nazionale», bensì lobbistico?
Ed è infine possibile, mio caro amico, che TU inghiotta tutto questo? Se continui a tacere, ti giuro che la prossima volta che mi parli di Resistenza ti mando affanculo.
Con affetto.
il manifesto (18 settembre 2009)
Il costo dell'ambiguità
Sergio Romano
La caccia ai responsabili, in una vicenda come quella di Kabul, è un esercizio che non rende omaggio ai morti e diventa spesso occasione di interessati bisticci politici. Non è inutile, invece, chiedersi se la presenza italiana in Afghanistan risponda a una ragionevole politica nazionale. È giusto inviare «truppe di pace» in un Paese dove si combatte? È giusto esporre i propri soldati alle insidie del nemico, ma evitare al tempo stesso che si comportino, in tutto e per tutto, come forze combattenti?
L’invio di truppe in un Paese straniero per creare o mantenere condizioni di pace appartiene alla logica dell’Onu e ai principi della comunità internazionale. E’ stata questa la ragione per cui abbiamo inviato militari in Congo, Libano, Somalia, Bosnia e Kosovo. Attenzione. Nessuna di queste operazioni è stata totalmente disinteressata. Siamo andati in Iraq, dopo l’occupazione americana, perché il governo Berlusconi riteneva utile, in quelle circostanze, essere al fianco degli Stati Uniti. Siamo andati in Libano perché il governo Prodi riteneva che la nostra presenza militare, dopo la guerra israeliana, avrebbe conferito maggiore credibilità alla nostra politica medio- orientale. Siamo in Afghanistan perché gli Stati Uniti hanno chiesto alla Nato di essere aiutati a sbrogliare una matassa che la frettolosa guerra di Bush aveva reso particolarmente imbrogliata. Viviamo tempi tumultuosi in cui il prestigio internazionale di un Paese si misura dalla sua capacità di partecipare a un’operazione militare. Un contingente di truppe è stato molto spesso, in questi anni, il prezzo che il Paese doveva pagare per avere un rango internazionale corrispondente alle sue ambizioni. Ciò che ha fatto l’Italia non è sostanzialmente diverso da ciò che hanno fatto, tra gli altri,
Ma nel caso dell’Italia, come per certi aspetti in quello della Germania, esistono peculiarità che hanno condizionato la politica dei governi. Il Paese è stato malamente sconfitto durante
Corriere della Sera (19 settembre 2009)
EDITORIALE
IPOCRISIA NAZIONALE
di Tommaso Di Francesco
Si richiamino le truppe italiane dall'Afghanistan: questo dicono i corpi dilaniati dei civili e dei militari italiani caduti nell'attentato a Kabul. È l'unica exit strategy reale, o transition, etimo eloquente nel suo significato di morte, ora di moda. Perché la guerra e l'occupazione scattate nell'ottobre 2001 come vendetta per l'11 settembre, poi infaustamente coperte dall'Onu e infine prese in mano dalla Nato nel 2003, hanno provocato un guasto più profondo di quello in Iraq.
Ogni raid aereo è terra bruciata, ogni battaglia è massacro di civili per i quali nessuno in Italia piange o mette a mezz'asta la bandiera. Così hanno moltiplicato la forza dei talebani, rafforzando e costruendo il nemico, tanto che ora i generali americani riconoscono che la guerra «non è vinta e la strategia non funziona». Nel 2002 i talebani erano in un angolo, vinti. Con l'occupazione militare e la corruzione del «democratico» Hamid Karzai, sono tornati popolari. Solo la netta consapevolezza della distruzione provocata con otto anni di «duratura insensatezza» - doveva essere la «duratura libertà» di Bush - può aiutare a voltare pagina. Solo l'annuncio che i soldati del nostro contingente Nato non partecipano più alla guerra - della quale il governo attuale si è tanto vantato finché i morti erano altrui - è la condizione per influire in una trattativa sul campo. Dando possibilità alla ricerca di interlocutori «combattenti» e ostili all'attuale leadership afghana, la sola che può preparare una svolta credibile.
Cioè la trasformazione dell'intervento di guerra in una presenza reale di ricostruzione a guida delle Nazioni unite. È l'unica opportunità di pace di fronte alle stragi affluenti.
Eppure sono bastate solo ventiquattro ore perché il governo ritrovasse la compattezza. Solo il giorno prima era diviso,
La destra lo sa. A non saperlo sembra il Pd che rischia di rimanere con il cerino afghano in mano, da solo a gridare no al ritiro, come fa in modo insensato Piero Fassino. Eppure, se è vero e sacrosanto quello che Massimo D'Alema dichiara, e cioè che la missione italiana «non ha prodotto gli effetti sperati», che la «strategia militare ha reso tutto più difficile...con la logica dei blitz aerei» e che le elezioni «contestate» alla fine hanno radicalizzato il conflitto, come non assumere il ritiro, ora e subito, dalla guerra? Ma D'Alema in tutti questi anni, dov'è stato? Non ha forse una parte di responsabilità per questo fallimento dal quale è ancora possibile uscire?
il manifesto (19 settembre 2009)
AFGHANISTAN
La galassia taleban
Il vecchio mullah Omar è sempre al comando
di Emanuele Giordana*
Come funziona la galassia taleban e dunque la parte del potere armato che controlla l'Afghanistan? Nel 2006 un autorevole istituto di ricerca stimava che nell'Helmand solo il 20% dei guerriglieri fosse «ideologicamente» talebano. Secondo diverse fonti questi soldati della fede a cottimo riceverebbero una buona paga diaria (superiore a quella dei militari dell'esercito afgano) e combatterebbero la notte per tornare, al mattino, al lavoro nei campi.
La struttura della catena di comando strategico politico dei taleban fa sempre capo a mullah Omar che dirige il Consiglio dei leader (rahbari shura). Ma c'è una nuova variabile: l'Afghanistan, lo ha appena ammesso il rapporto dell'agenzia dell'Onu per la lotta alle droghe, si va popolando di cartelli mafiosi di stile «colombiano». La lotta armata è divenuta, da insostituibile (tangentizia) protezione dei trafficanti, una nuova casta guerriera che coniuga la mitraglietta al narcotraffico. E che forse strizza l'occhio più al commercio che ai dettami della fede. Un problema per mullah Omar.
Il vecchio leader guercio è ancora un'autorità morale e soprattutto è un combattente con molto carisma e una schiera di fedelissimi. Ma coordina le operazioni da oltre confine e non ha un diretto controllo sui comandi operativi di terreno, quindi nemmeno sui loro traffici.
Per certi versi la struttura del potere talebano è abbastanza nota. Il ricercatore Raspal Khosa sintetizza quella attuale elencando una divisione dei vari comandi che, muovendosi all'interno di Pakistan e Afghanistan, rispondono anche a logiche assai diverse: un fronte sud che fa capo appunto a mullah Omar e un network «vagamente coordinato» nell'Est che comprende i talebani pachistani, la rete di Jalaluddin Haqqani e l'Hezb di Gulbuddin Hekmatyar (che controlla anche il nordest e che lavora sul nuovo fronte da cui passano i rifornimento logistici della Nato e che si va trasformando in un piatto interessante).
A ovest, il settore controllato dagli italiani e che arriva al confine iraniano, le carte si mescolano in una nuova nebulosa: i gruppi puramente talebani cedono il passo a vere e proprie congreghe di criminali organizzati, contrabbandieri d'armi e di oppio, delinquenti per necessità o virtù prodotti da trent'anni di guerra e attivi in una zona etnicamente disomogenea. Così, la strategia insurrezionale tende a mescolarsi con la tattica spicciola del disturbo: azioni dimostrative per disincentivare
Tornando al fronte est, la famiglia Haqqani, padre e figlio, invece gioca in proprio. Sembra assai in sintonia con la strategia del terrore cara ad al Qaeda ed è meno «territorialista» dei taleban «puri» che operano nel Sud, dipendono da Omar e hanno sempre avuto un approccio più territoriale alla guerra allo straniero. Gli Haqqani sono per il «mordi e fuggi» e gli autori probabili dell'attentato al Serena di due anni or sono e di quello diretto a uccidere Karzai, un anno e mezzo fa. Vale per entrambi (Haqqani e Omar) l'appoggio più o meno diretto di una parte dei servizi segreti pachistani, l'affiliazione degli «stranieri» importati da bin Laden durante l'emirato di Kandahar e una ricca rete di relazioni finanziarie nei paesi del Golfo. Che sono le banche della guerriglia.
Se il potere guerrigliero è una nebulosa, quello istituzionale non lo è meno.
Per il momento comanda virtualmente Hamid Karzai. Ma è in una posizione fragile e pericolosa. Pare che lo stesso Richard Holbrooke, l'inviato di Obama per l'aerea afpachistana, lo abbia strigliato in privato, facendo pressioni perché almeno smetta gli annunci continui sulla sua personale vittoria. Ma anche Holbrooke, uomo pragmatico, sa benissimo che Hamid Karzai resta forse l'unica carta da giocare. Va certo ridimensionato e spinto ad accettare compromessi: ad offrire poltrone pesanti ai suoi avversari sconfitti nelle elezioni presidenziali. Cosa, per altro, che Karzai è disposto a fare senza alcun problema, essendo un maestro di consociativismo.
Ma è ancora lui - il reggente che fu indicato dall'ultimo re Zaher Shah e subito sponsorizzato da Europa e Stati uniti - l'unico protagonista di spessore, in grado di annodare la tela sottile delle alleanze tribali e di giocare il ruolo del grande mediatore tra le fazioni. Forse anche con gli stessi talebani, una necessità ormai ineludibile. È del resto lui, il «sindaco di Kabul», l'uomo per tutte le stagioni, il vero controllore di una rete di alleanze - da Dostum (nord turcofono) a Ismail Khan (signore di Herat) - che gli fa controllare quanto resta fuori dal dominio talebano. Col vantaggio che Karzai sa anche come muoversi a Washington, Roma o Bruxelles.
Lettera22*
il manifesto (19 settembre 2009)
INTERVISTA | di Massimo Recchia*
JOSEPH
«Aumentare le truppe non serve, finiremmo come i sovietici»
La via d'uscita dal pantano afghano non è l'aumento delle truppe. Joseph
Crede che la coalizione occidentale in Afghanistan sia compatta, nonostante i ripetuti attacchi?
La tenuta di una coalizione dovrebbe dipendere dal metodo di decisione. Ogni membro dovrebbe infatti avere un peso decisionale uguale agli altri in materia di strategie. Per affrontare i problemi e le crisi in modo unitario. È inevitabile chiedersi se questa coalizione sarà in grado di evitare che l'Afghanistan diventi ancora il cimitero di quanti cercano di conquistarlo e di renderlo democratico. In caso di successo, la coalizione farebbe registrare una notevole eccezione rispetto alla storia passata.
Ci sono quindi pesi diversi all'interno della coalizione? Quanto conta l'Italia?
Non partecipo alle discussioni tra alleati e non posso dare una risposta. In generale si segue il ragionamento per cui il peso dipende, tra l'altro, dal numero di soldati schierati sul campo. Non si tratta del metro giusto.
Analizziamo allora un paese che lei conosce bene: quanto pesano gli Usa? È Washington, in effetti, a prendere le decisioni che contano?
Non c'è dubbio che siamo noi statunitensi, fondamentalmente, a determinare quale atteggiamento tenere in quel paese. Non solo. Abbiamo anche chiesto agli alleati di condividere il nostro approccio.
Ma lei è favorevole a un aumento delle truppe?
Assolutamente no. Guardiamo attentamente alla storia. In anni lontani, i soldati britannici hanno provato a governare quel territorio. In anni più recenti, sono stati i russi a trovare lì il loro cimitero. Dobbiamo renderci conto che i russi non riuscirono a conquistare quell'area. Anche perché gli Stati uniti fornirono ai taleban le armi. Nella situazione attuale, il presidente eletto non solo non sembra in grado di governare le diverse fazioni, ma è altamente probabile che non faccia tutto il possibile per governare. Come si spiega questo atteggiamento? Il presidente sa che non riuscirebbe a controllare il potere di certe tribù.
Ma allora qual è la strategia migliore? Come uscire dall'Afghanistan senza abbandonare il paese?
Non credo che si possa risolvere il problema. Dobbiamo farci una domanda semplice. Ipotizziamo che occorra aumentare di 3-400mila soldati la coalizione. I paesi interessati sono disposti a fare una mossa simile? A subire le perdite di vite che implicherebbe una guerra contro i taleban su vasta scala?
Il presidente Usa Barack Obama ha detto no allo scudo missilistico in Europa. Questa scelta può aprire una nuova frontiera di relazioni con
È possibile che dopo questa mossa, che giudico molto intelligente, si possa avviare un negoziato con i russi per verificare se sono disposti a collaborare con la coalizione in Afghanistan. Sarebbe un piccolo miracolo, data l'esperienza russa in quel paese.
Pensa che sarebbe possibile?
Non lo escludo, ma ho seri dubbi.
Lettera22*
il manifesto (19 settembre 2009)
di Barbara Spinelli
E’ stato detto, subito dopo l’attentato a Kabul che ha ucciso sei soldati italiani, che quando si vivono lutti così grandi non son decenti le polemiche e neppure le analisi politiche. Invece è proprio nell’ora del lutto e della pietà che urge il pensiero profondo, come è nelle tenebre che più si aspira alla luce. Neanche la polemica è fuor di posto, non fosse altro perché la guerra stessa è pólemos, controversia, e sulle controversie si dibatte, specie se sanguinose. Parlarne non è offendere i morti ma onorare una missione su cui certamente anch’essi si sono interrogati.
Molte guerre, a cominciare dal ‘14-18, avrebbero evitato il decadere in inutili stragi, se fossero state ridiscusse nel momento in cui cominciavano a divenire non solo sanguinarie - ogni guerra lo è - ma assurde e addirittura, come disse Benedetto XV nel 1917, inutili.
Iniziata nel 2001 come offensiva contro lo Stato talebano che ospitava Bin Laden, la guerra in Afghanistan è giunta a questa temperatura critica, dopo 8 anni. È una temperatura che non migliora estendendo la lotta al Pakistan o aumentando soldati, come nelle prime mosse di Obama. Migliora solo a condizione che la guerra non continui così: inerte, vuota di pensiero, indiscussa, indiscutibile. Non migliora se Obama continua a definirla «necessaria», dunque votata all’immutabilità perché da essa dipenderebbero le nostre vite. Se non ora che fa più morti e non dà frutti, quando metterla in discussione? Quando esaminare i suoi difetti maggiori, che sono la vista breve, la pigrizia mentale, l’occhio fisso su Kabul anziché su un’intera regione malata? Gli europei sanno per esperienza che le inutili stragi nascono dalla paura reciproca dei nazionalismi in un più vasto continente. Eppure, proprio l’Europa è singolarmente afasica sull’Afghanistan.
In Asia centrale accade qualcosa che gli europei conoscono. Il Pakistan ha un’enorme paura dell’India, il suo confine con l’Afghanistan ancora non è riconosciuto da Kabul, e l’alleanza afghano-indiana è per esso un incubo. Per questo Islamabad vuole non solo controllare Kabul, ma prolungare una guerra che tiene l’America in zona. L’Iran teme il ritorno dei talebani sunniti ma anche il perennizzarsi di basi Usa al proprio fianco Est.
Conoscere chi combattiamo significa meditare sugli avversari e su noi stessi: su come l’Occidente può sventare le minacce, sui mezzi - non obbligatoriamente militari - per promuovere una pace continentale che non si limiti all’area afghana. In particolare, significa capire chi sono gli insorti che si moltiplicano contro gli occupanti occidentali: cosa li muove, dopo l’iniziale benvenuto del 2001, e come oggi si dividono. Loro ci studiano, meticolosi. Noi ignoriamo abissalmente l’Afghanistan, persuasi di combattere un monolite nominato Al Qaeda. Sul terreno è da tempo che le cose non stanno così: gli insorti non sono tutti talebani, i talebani afghani e pakistani sono diversi, tutti hanno rapporti complessi o inesistenti con Al Qaeda. Non hanno agende politiche globali, ma nazionali se non tribali. Marc Sageman, ex agente Cia e studioso di terrorismo, è convinto: se la guerra è insensata, è perché Al Qaeda non è più lì e s’è indebolita: «Se Obama vuol tutelare l’America, non deve fare la guerra in Afghanistan. Gli insorti afghani e pakistani non viaggiano»: viaggia chi mette bombe in Occidente (intervista a Rémy Ourdan, Le Monde, 9 settembre 2009). Non è neppure detto che un governo con talebani ospiterebbe oggi Al Qaeda.
Esistono ormai studi minuziosi sull’insurrezione, che confermano queste analisi. Essi constatano invariabilmente un fatto: così come è stata condotta, la guerra fa solo danni perché il vero nemico non è più lì ma in Waziristan (Pakistan), e perché gli insorti non coincidono con Al Qaeda anche quando ricorrono a metodi terroristi. È un’insurrezione con molte radici, secondo Thomas Ruttig, consigliere dell’Onu e dell’Unione Europea, professore all’Università Humboldt di Berlino e all’Università di Kabul. Una serie di fattori spiega il suo dilatarsi negli anni: gli errori fatti all’inizio da Bush, che ha abbattuto Kabul lasciando un vuoto nelle aree rurali; l’omertosa complicità coi signori della guerra più corrotti e legati al traffico di droga; i ripetuti bombardamenti contro i civili; la corruzione infine del governo Karzai, divenuta più che palese nelle elezioni di agosto (Thomas Ruttig, The Other Side, Afghanistan Analysts Network, luglio 2009).
Irresponsabilmente ciechi, Washington e alleati hanno fatto propria la strategia di Karzai, e dei signori della guerra con cui Karzai si è alleato prima del voto: ogni insorto, ogni oppositore, è chiamato talebano terrorista. Ignorata è la sete di giustizia, tanto che nei territori controllati dai talebani le corti islamiche sono considerate più eque. Trascurate e minimizzate sono le sfaccettature dell’insurrezione, e la sua metamorfosi in guerra civile. Se si parla di Vietnam non è per il numero di morti (in Vietnam furono molti di più). È perché si ripete il fatale errore che consiste nell’entrare nelle guerre altrui. Perché resta del tutto inascoltata l’autocritica di McNamara, architetto della guerra vietnamita, che nel ’95 ammise in un’intervista: «Quella che combattemmo - e non ce ne rendemmo conto - era una guerra civile. Certo, esistevano influenze sovietiche e cinesi. Senza dubbio, i comunisti volevano controllare il Sud Vietnam. Ma fondamentalmente era una guerra civile. Non puoi vincere una guerra civile con truppe esterne, soprattutto quando la struttura politica del paese è dissolta». Il «problema non fu la stampa. Fu che l’America era nel posto sbagliato con la tattica sbagliata». Il male non fu discutere troppo la guerra, ma troppo poco.
La metamorfosi dell’insurrezione ha dato forza ai talebani, rilegittimandoli e diversificandoli. Oggi ci sono i radicali ma anche i cosiddetti talebani anti-corruzione, ostili a Karzai e ai suoi legami col crimine. Ci sono i talebani per necessità (forced Talebans), entrati in insurrezione quando i bombardamenti occidentali hanno colpito assiduamente i civili. Il nucleo centrale talebano è a sua volta eclettico, contraddittorio. I talebani moderati non sono inventati: l’ultima volta che si manifestarono (trenta dirigenti, nel 2005) proposero un piano in sette punti che nessun occidentale esaminò seriamente.
Il fronte anti-Karzai è per forza divenuto un possente fronte anti-occidentale, viste le cecità e acquiescenze Usa e Nato. Resta, nei più, il timore di un ritorno dei talebani e dell’abbandono di una costituzione che ha dato garanzie alle minoranze e alle donne. Ma i vincoli di un fronte variegato hanno attenuato l’integralismo religioso, pur non mutando le opinioni talebane sulla democrazia parlamentare. Non è vero dunque che in Afghanistan combattiamo in primis contro il fanatismo: l’ideologia religiosa non è attraente per la maggioranza degli insorti, specie fra non pashtun, sciiti, donne. Risultato: nel 2003 i talebani controllavano 30 distretti su 364. Alla fine del 2008 ne controllavano 164. Gli attacchi sono aumentati del 60 per cento tra ottobre 2008 e aprile 2009, e nuovi fronti si sono aperti a Nord-Ovest, in zone difficili per i talebani.
In Europa e nei rapporti con
Premiata dal Congresso come «giovane leader dell’anno»
Selene è timida, la sua voce si piega all’emozione, eppure questa ragazza, guai a chiamarla «presidente», da anni modera conferenze e ruggisce in faccia ai «ceo» strapagati. Lei che teneva immobile il microfono davanti al Congresso degli Stati Uniti. «Kabul è la tappa di un percorso iniziato cinque anni fa, quando ho fondato “Youth Action for Change”, un’associazione di giovani per giovani che, attraverso internet e le nuove tecnologie, raggiunge 150 Paesi del mondo». I programmi di “Yac” hanno ispirato una nuova politica giovanile in Pakistan, una campagna nazionale contro l’Aids in Kenya, una rete di controllo video per documentare gli abusi contro gli indigeni nelle Filippine. «E così sono stati premiata “giovane leader dell’anno” dal Congresso. Leader? Ci rido ancora». «Yac” non ha supporti finanziari, soltanto donazioni. Gestiamo circa 15 mila euro l’anno».
Primo Piano
L’ultima tragedia
Selene va ora a Kabul
«Insegnerò a convivere con i mali della guerra»
di Carlo Tecce
Ventisette anni, laureata alla Bocconi. Parte per scrivere un sussidiario dove si spiegherà anche come bonificare un pozzo, evitare le mine, limitare il colera «Abbiamo un traguardo, anche simbolico, dobbiamo arrivare in tempo e vincere»
Voleranno le bandiere italiane tra Roma e Kabul. In cielo, su due aerei diversi. Le salme dei militari ammazzati, la missione senz’armi e con un taccuino di Selene. I funerali e la speranza, lunedì, nelle stesse ore. C’è chi parte con entusiasmo. E c’è chi non torna più: «Ho saputo da mia nonna dei sei ragazzi uccisi. Aveva la voce tremante, sa che presto andrò laggiù. Ho chiuso gli occhi. Non è il momento di accusare o di pentirsi. Facciamo silenzio. Il mio lavoro di educatrice inizia nel giorno del lutto nazionale, del dolore, avrò un magone in gola. Ma è anche un segno: si deve continuare, non dobbiamo arrenderci, perché possiamo fare molto per gli altri.
La morte e la vita che si mescolano per la pace lì dov’è guerra. Selene Biffi è una ragazza brianzola di ventisette anni, una laurea in Economia alla Bocconi, occhi chiari e lucidi. Andrà in Afghanistan per sei mesi. L’Onu l’ha scelta per insegnare la vita, semmai la vita si possa insegnare dove si vive scappando alla morte: «Sarò la coordinatrice di un gruppo di lavoro internazionale, abbiamo un compito preciso e dovremo trovare l’ispirazione giusta per realizzarlo. Scriveremo un sussidiario per le scuole elementari, un manuale di regole e consigli che spieghi come bonificare un pozzo, evitare le mine, limitare il colera, curare le malattie. Abbiamo un traguardo, anche simbolico, dobbiamo arrivare in tempo e vincere. Perché i campi coltivati non producono ortaggi sani? Sono questioni serie che provocano povertà e fame. Risponderemo alle loro domande, proporremo metodi. Saremo in questa terra pericolosissima per lasciare un messaggio, tendere una mano e stringerne un’altra. E un progetto di un’agenzia umanitaria dell’Onu, in collaborazione con il ministero dell’Educazione afghano. La guerra è la quotidianità, dopo anni di bombe, stavolta questa guerra verrà contrastata anche con le parole da leggere». Non ha paura, il coraggio ha una ragione: «Per i bambini che vogliono un futuro normale, meno crudele. Per gli adulti che vogliono dimenticare un passato e un presente di sangue e orrore. Sono quelle motivazioni che ti risollevano quando stai per cadere giù». Dovrà viaggiare per le steppe che d’inverno si fanno ghiaccio, in auto e con l’interprete. Dovrà fuggire quando serve, dovrà fermarsi quando fuori impazziscono. «Sono preparata. Ci hanno illustrato qualsiasi scenario possibile. Saremo protetti. Non mi preoccupo della mia incolumità, spero soltanto di avere possibilità di movimento. Chiederò la massima libertà compatibile ad uno scenario di guerra. Per capire le comunità più arretrate e conservatrici dovrò andarci di persona. Sarà un’esperienza incredibile discutere con i mullah del posto. Anzi, dovremo discutere. Non si può risolvere un problema senza sentirlo sulla pelle». Nella valigia di Selene ci saranno maglioni di lana e scarpe di gomma. «Dobbiamo sbrigarci perché tra poco arriva il freddo e sarà dura per tutti. Raccoglieremo il materiale in giro, entro un paio di mesi, e infine lavoreremo a Kabul. A marzo ricomincerà l’anno scolastico, e il nostro testo dovrà raggiungere le cattedre di ogni villaggio».
A fianco della matematica e della grammatica, ci sarà un libro per la sopravvivenza. Foto, didascalie, disegni, capitoli. Sarà il racconto di un viaggio nelle province più sperdute dell’Afghanistan. Selene dovrà studiare le tradizioni locali, assorbire abitudini, vizi e virtù. Sezionare il variegato popolo afgano, riflettere un paese così complesso in semplici righe di un quaderno: «Il testo dovrà “contenere” la gente, evidenziare le differenze e le affinità. Sarà tradotto nei vari dialetti locali, sarà a disposizione dei bambini e degli adulti, di chiunque sappia leggere e, soprattutto, di chiunque abbia voglia, anche un pochino, di cambiare la realtà.
Da un capo all’altro del paese ci sono mentalità opposte, persino una vignetta sarà utile
per interpretarle. Dovremo sollecitare la fantasia e la curiosità». Il segreto sono i bambini, l’ingenuità e il domani: «Chi ha dai sei ai tredici anni sarà il popolo afghano del futuro, quei ragazzi che dovranno sostenere la pace e contenere la collera. I bambini non hanno pregiudizi. E quelli afgani, che soffrono tanto, meritano che qualcuno si occupi di loro. Noi gli affidiamo una grossa responsabilità: imparare, seguire le lezioni e contagiare gli adulti con il sapere». Poi altri sei mesi, se non finiscono i soldi, se il capo non cambia, se la scuola avrà un senso: «Potrei restare per incontrare i docenti del posto e istruirli secondo le tecniche occidentali. Crediamo che la cultura sia uno strumento prezioso per scalfire l’indifferenza e i timori dei villaggi più nascosti e dimenticati.
Noi offriremo un aiutino, qualcosa che ha il sapore della ricostruzione».
La morte che atterra, la vita che decolla. Nello stesso giorno. Un altro giorno dedicato all’Afghanistan.
carlotecce@gmail.com
l’Unità (19 settembre 2009)
Nell'ordine:prime pagine del 18 settembre, 19 settembre, 20 settembre (il manifesto), 19 settembre (l'Unità).
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