venerdì 31 agosto 2007

Bushemo

Vignetta: Mauro Biani



Bush in Iraq: la politica Usa e getta


Robert Fisk


Li abbiamo traditi, sempre. Abbiamo sostenuto «Flossy» nello Yemen. I francesi, in Algeria, hanno appoggiato i loro «Harki»; che poi, prima di essere gettati in fosse comuni dall'Fln, sono stati costretti a ingoiare le medaglie guadagnate con i francesi. In Vietnam, gli americani volevano a tutti i costi regnasse la democrazia; ma dopo aver lodato i vietnamiti per essere andati alle urne pur sotto il fuoco incrociato, hanno fatto fuori i vari primi ministri eletti perché non stavano agli ordini dell'America. Ora il nostro impegno è in Iraq. Ma, a quanto pare, gli iracheni non meritano i nostri sacrifici: i loro leader eletti, infatti, non si adeguano al nostro volere. Che dite, ci richiama alla mente una certa organizzazione palestinese chiamata Hamas?

Partiamo dall'inizio: gli americani hanno avuto una simpatia sconfinata per Ahmed Chalabi, l'uomo che ha «fabbricato» per Washington le famose armi di distruzione di massa, e sulla cui testa gravava una pesante accusa di frode bancaria. Una mano, a Chalabi, gliel'avevano data anche il New York Times con Judith Miller; e in Iraq c'è andato con un aereo militare, americano ovviamente. Poi la simpatia si è spostata su Ayad Allawi, un infido figuro stile Vietnam, che aveva ammesso apertamente di lavorare per ben 26 organizzazioni di intelligence, tra cui la Cia e il britannico M16.

A quel tempo, la scelta fu salutata con risatine beffarde da buona parte della stampa occidentale; salvo qualche caso isolato, tipicamente mediorientale, della specie che a noi fa comodo. Comunque sia, non ce ne importava un granché del fatto che agli iracheni non piacesse questo sciita tutto azzimato. Quindi è stato il turno di Ibrahim al-Jafaari, simbolo vivente della legge elettorale, che gli americani hanno amato, sostenuto, prediletto - e poi distrutto. Se si erigesse una lapide per celebrare la sua avventura politica, bisognerebbe scolpirci le date 7 aprile 2005 - 20 maggio 2006. La tardiva conversione di Washington alla democrazia (il suo secondo proconsole, Paul Bremer III, era stato più astuto in fatto di commissioni autoctone) si è rivelata troppo morbida sulla questione terrorismo, troppo morbida sulla questione Iran, troppo morbida su tutto. Inconcludente, in sostanza. Toccava agli iracheni, dopo tutto; e comunque gli americani volevano togliersi Bremer di torno. Quindi, addio Ibrahim.


Poi è toccato a Nour al-Maliki, uno con cui Bush «poteva trattare affari». Amato, sostenuto, prediletto anche lui, fino a quando Carl Levin e gli altri della Commissione del Senato Usa per le forze Armate - e senza ombra di dubbio, Bush - hanno deciso che non era in grado di rispondere alle aspettative dell'America. Non riusciva a tenere l'esercito coeso, non riuscita a dare una struttura alle forze di polizia - una bella pretesa, d'altronde, quando invece le forze americane finanziavano e armavano alcune delle più brutali formazioni sunnite di Baghdad - e si dimostrava troppo vicino a Teheran. E allora, eccoti servito. Abbiamo tolto di mezzo la minoranza sunnita di Saddam, e gli iracheni hanno portato al potere gli sciiti e tutti quei vecchi simpatizzanti dell'Iran, cresciuti ai tempi della Rivoluzione Islamica e fuggiti dalla guerra Iraq-Iran.


Al-Jafaari era membro di primo piano di quel partito Dawaa che negli anni '80 si dava da fare sequestrando ostaggi occidentali a Beirut e tentava di far saltare l'Emiro del Kuwait, nostro amico. Quindi, la colpa è degli iraniani con le loro «interferenze» nelle questioni irachene, se si sono elette e portate al potere creature dell'Iran. Tocca liberarsi di al-Maliki: accidenti, non è neanche capace di unificare il proprio popolo. Noi non c'entriamo, ovviamente. Se la devono sbrigare gli iracheni. Per dirla meglio, gli iracheni che sono sotto protezione degli americani nella «green zone». In Medio Oriente, dove la «trama» («al-moammarer») ha i connotati della realtà, si dice che le brevi visite che al-Maliki ha fatto a Teheran e Damasco in queste ultime due settimane sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso a Washington. Posto che Iran e Siria appartengano all'asse del male, o forse sono addirittura la culla del male (va a vedere quale altra fantasiosa scemenza tireranno fuori Bush e i suoi sodali, per non parlare degli israeliani), nel prossimo decennio ci toccherà assistere al confluire di ben 30 miliardi di dollari in armi alla volta di Israele - a tutela della «pace».


Però, nel frattempo, ad al-Maliki con le sue visite di Stato al folle Ahmadinejad e all'ancora più pericoloso Bashar al-Assad gridiamo, ricordando l'invettiva di Enrico VIII, «traditore, tradimento, tradimento»! Vale ricordare che, dove c'era odore di tradimento, Enrico VIII faceva piazza pulita. Al-Maliki sta dando prova di lealtà nei confronti dei suoi ex padroni iraniani e dei loro alleati siriani alawiti (peraltro con forti legami di dipendenza nei confronti degli sciiti). Non è tanto la cupidigia dei leader arabi che ci irrita: pensiamo, per esempio al sostegno che per lungo tempo abbiamo dato - imbarazzante a dirsi - al nostro fedele alleato Saddam Hussein. No, è la loro ignoranza della storia che ci turba.


In origine abbiamo sostenuto Nasser, felici che avesse tolto di mezzo il grasso, inutile Re Farouk; lo abbiamo fatto fino a che non ha nazionalizzato il canale di Suez - e allora ci è toccato bombardarlo. Dopo di che abbiamo aiutato il Colonnello Gheddafi a rovesciare l'altrettanto corrotto Re Idriss; lo abbiamo appoggiato fino a che non ha offerto il proprio appoggio all'Ira e ha organizzato l'attentato al nightclub di Berlino - e allora ci è toccato bombardarlo. Ora Gheddafi (uno «statista», badate, nelle parole di quel servile di Jack Straw) raccoglie gli utili di un accordo con i francesi per la fornitura di armi, accordo raggiunto forse addirittura con le grazie della splendida Cecilia! Se solo al-Maliki sapesse che occasione si è lasciato sfuggire. Sa benissimo, inutile dirlo, quali vantaggi ha tratto Saddam dalla sua obbediente condiscendenza verso i capricci dell'America - tanto per dire, la possibilità di invadere l'Iran dell'Ayatollah Khomeini. Un milione e mezzo di vittime. E quando ha colpito una nave da guerra Usa, gli americani - predecessori di quelli che avrebbero scatenato la «guerra al terrorismo» - lo hanno persino ringraziato per il risarcimento versato alle famiglie delle vittime (non è una barzelletta, credetemi). C'è un limite all'ipocrisia? Vi ricordate quando avremmo voluto veder morti tutti i capi dell'Ira? Ebbene, ora prendono il tè con la Regina. Chi si adegua ai nostri desideri, avrà la sua ricompensa. Chi non lo fa, andrà alla forca. Vedi Saddam.


Sono creature - quale termine più appropriato - queste, che ci appartengono, che possiamo quindi calpestare a nostro piacimento. Dimentichiamoci le libere elezioni («un grande giorno per l'Iraq», aveva detto Tony Blair), la chiave di volta per questo paese: noi non impariamo, a quanto pare non impareremo mai. Gli iracheni sono in maggioranza musulmani sciiti; gran parte dei loro leader, tra cui il «violento» Moqtada al-Sadr (tipico della Bbc e della Cnn fornirci le giuste definizioni), sono stati addestrati, curati, coccolati, amati, istruiti in Iran. Ora, tutto ad un tratto, li odiamo! Davvero gli iracheni non ci meritano. Sarà questo il graticolato che consentirà ai carri armati insabbiati di ripartire e abbandonare l'Iraq.


Ed ora... i clown! Chissà che non ci tornino utili pure loro!


l’Unità (24 Agosto 2007)


Ritengo che una delle ragioni per giustificare l’esistenza di un blog sia anche quella di fornire strumenti per allargare conoscenze e formarsi opinioni. Per tale motivo gli articoli che posto sono sempre integrali, spesso anche lunghi. Preferisco la completezza dell’informazione e, visto che è sempre più un desiderio peregrino ottenerla, mi faccio parte diligente e, per quanto possibile, contribuisco.

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