No Tav, il rito funebre dell'autorità dello Stato
di
Michela
Murgia - 1 Marzo 2012
Mandare le forze dell'ordine in tenuta anti-sommossa a manganellare chi esprime il suo dissenso non è un esercizio di autorità, ma l'ammissione pubblica di averla definitivamente perduta insieme al diritto di pretenderla. I fatti della Val di Susa, in questo senso, segnano uno spartiacque.
Riporto
anche qui un editoriale scritto per il numero di marzo di E-il
mensile di Emergency,
da qualche giorno in edicola. Alla luce dei fatti di questi ultimi
giorni, ribadisce quello che penso del modo in cui lo Stato italiano
ha scelto di affrontare la sacrosanta protesta popolare contro
l'inutile opera della TAV. Solidarietà totale ai valsusini in lotta
per difendere il loro territorio.
L'estate
scorsa lo Stato - non il governo, ma proprio lo Stato - ha permesso
che in Val di Susa si celebrasse a suon di manganelli il
rito funebre della propria autorità.
Si è sbagliato tre volte. Il
primo errore
è stato credere che si potesse rubricare come cronaca locale la
protesta della gente del movimento NoTav, in prevalenza giovani,
anziani e famiglie che con i loro sindaci quel giorno marciavano in
pace contro le ruspe. Il
secondo errore
è la modalità
violenta
con cui le forze dell'ordine hanno scelto di relazionarsi con quel
dissenso, segnando una svolta definitiva nel registro di gestione dei
rapporti tra le istituzioni governative e le proteste popolari in
Italia, tutte. Il
terzo errore
si è compiuto nelle scorse settimane, quando le conseguenze di quei
fatti sono proseguite fino all'arresto
di 23 attivisti del movimento, con capi di imputazione che vanno
dalla violenza alla resistenza a pubblico ufficiale. Si tratta di un
atto giudiziario che, al di là delle appurabili responsabilità
personali, è stato interpretato dalla popolazione resistente della
Val di Susa come una risposta formale delle istituzioni all'intero
movimento NoTav, che suona alle loro orecchie più o meno così:
"badate
che, se si arriva allo scontro definitivo, noi abbiamo i mezzi per
imporci e voi non avete quelli per opporvi senza rinunciare alla
legalità".
La
percezione di questo messaggio ha trasformato la lotta dei NoTav in
una
battaglia simbolica
che interessa tutte le forme di resistenza popolare che in Italia
stanno agendo in forma organizzata contro decisioni statali ritenute
lesive per i territori e chi li abita. I manganelli in Val di Susa
hanno reso chiaro che non è più possibile ignorare la
frattura tra la volontà dello Stato e le volontà della popolazione,
non fosse altro perché - dagli studenti alle partite iva, dai
forconi
siciliani ai pastori sardi - quella frattura sta portando in
strada sempre più persone, sebbene con diversa fondatezza, chiarezza
e talvolta anche legittimità.
La
questione della Val di Susa in questo scenario magmatico è un
paradigma,
perché è il solo caso in cui la violenza sia emersa forzatamente
dopo anni di resistenza - per quanto inflessibile, comunque pacifica.
I NoTav non possono rinunciare alla legalità per far valere le
proprie ragioni, perché significherebbe perdere quell'autorevolezza
etica
che sin dall'inizio ha smosso il consenso popolare intorno alle
ragioni del movimento, facendo sorgere solidarietà anche da molto
oltre i confini territoriali del futuribile tracciato ferroviario
dell'alta velocità. Ma la forza dei NoTav sta tutta dentro a un
paradosso: nei sistemi democratici il tipo di autorevolezza sociale
di cui il movimento dispone dovrebbe in realtà essere un
patrimonio morale dello Stato,
in quanto incarnazione strutturale dell'autorità collettiva; ma cosa
può succedere quando quel deposito di consenso tacito comincia ad
appartenere proprio a chi contesta le decisioni dello
Stato?
L'esercizio di dell'autorità etica funziona solo se è
retto da una
relazione di reciproco riconoscimento
tra due soggetti con ruoli chiari: questa è la base della pace
sociale ed è in virtù di questo che gli atti di autorità per loro
stessa natura non dovrebbero incontrare alcuna opposizione da parte
di coloro ai quali sono diretti. Dato per buono il fatto che in una
democrazia
c'è sempre la possibilità teorica di opporsi, deve esistere da
parte della popolazione la rinuncia cosciente e volontaria a
servirsene: è solo questa rinuncia che consente allo Stato di essere
normativo. In questa dialettica l'uso
della forza non solo non è previsto, ma è proprio escluso,
perché contraddittorio.
Quando
uno Stato deve usare la forza contro i suoi stessi cittadini - come è
accaduto con le proteste popolari NoTav - significa che questo
meccanismo è andato in frantumi.
Mandare le forze dell'ordine in tenuta anti-sommossa a manganellare
chi esprime il suo dissenso non è un esercizio di autorità, ma
l'ammissione pubblica di averla definitivamente perduta insieme al
diritto di pretenderla. I fatti della Val di Susa segnano uno
spartiacque
proprio perché rivelano con chiarezza come in questo paese il patto
di riconoscimento reciproco tra il diritto dello Stato a imporsi e la
rinuncia delle popolazioni a opporsi sia venuto meno in maniera
clamorosa, insinuando in un numero sempre maggiore di persone la
certezza che la difesa del bene comune non possa passare, né ora né
mai più, dalle mani che stringono il manico di un manganello.
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