giovedì 15 marzo 2012

Articolo 18 - Tre storie da raccontare

22 marzo 2002

Tre storie di lavoratori che, grazie all’articolo 18, non si sono rovinati la vita. Foto ricordo, da tenere in archivio...

Rimborsati e soddisfatti
di Filippo Golia

Foto ricordo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in tre scatti. Il giorno della nascita, il 20 maggio 1970, lo Statuto è legge. Sullo sfondo sorridono l’allora ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin e il suo collaboratore Gino Giugni. Al centro, naturalmente, l’articolo 18: il giudice ordina al datore di lavoro di «reintegrare il lavoratore» licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. La legge riguarda solo le imprese che, a livello locale, occupano almeno 15 dipendenti (cinque per quelle agricole).
Secondo scatto, maggio del 1990, i dieci giorni dopo la Festa del lavoro. L’articolo 18 cresce e prende la forma odierna. La norma diventa applicabile anche alle imprese che non raggiungono i 15 dipendenti a livello locale, ma che complessivamente ne occupano più di 60. E il lavoratore può rinunciare alla reintegrazione in favore di un’indennità pari a 15 mensilità, se preferisce non tornare sul posto di lavoro.
Secondo i dati dell’Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali), su 2 mila cause di reintegrazione, in media solo 88, meno del 5 per cento, superano il primo grado di giudizio e arrivano in appello. Le altre, nella maggior parte, non si concludono con la reintegrazione ma con un accordo tra il datore di lavoro e il lavoratore, che accetta la liquidazione in denaro.
Il meccanismo funziona. Il maggior numero di ricorsi al pretore del lavoro è al Sud. Sempre tra il 1994 e il 1998, a Napoli sono stati presentati quasi 70 mila ricorsi, a Bari quasi 30 mila, a Bolzano solo 715. Ma i più coerenti nel cercare la reintegrazione sono stati proprio i lavoratori di Bolzano: il 12 per cento, contro lo 0,25 per cento di Taranto, l’1,5 per cento di Bari, il 4,5 per cento di Napoli.
Ultimo scatto, oggi. Dense nubi riempiono il cielo, nonostante l’imminente arrivo della primavera. Un’indennità, non più a discrezione del lavoratore, potrebbe sostituire il diritto alla reintegrazione in tre casi: nelle imprese che decidono di lasciare il mercato nero e di mettersi in regola; in quelle che superano i 15 dipendenti grazie a nuove assunzioni; infine per i lavoratori assunti al Sud dopo un contratto a tempo determinato (i giovani). Oltre alle nubi la foto mostra migliaia di persone che sfilano in strada. Ma ecco tre storie.

Storia numero uno. Dieci anni dal licenziamento alla reintegrazione, una strada senza fine. La vicenda di Massimo Eulogi Cristallini corre su un striscia di asfalto nero. Dipendente della Società Autostrade, nel 1984 lavorava al casello di Roma Sud. Turni di otto ore al giorno, migliaia di pedaggi da riscuotere a ogni turno.
Fu un autista passato per Roma Sud il 22 ottobre, verso le 17.00, a presentare una denuncia. Il casellante gli avrebbe fatto pagare il pedaggio esatto: 7 mila lire, poi avrebbe registrato un pagamento di sole 4.800 lire, intascando la differenza e truffando il proprio datore di lavoro. L’automobilista, un geometra che all’epoca collaborava con le Autostrade, aveva agito per zelo. È probabilmente solo un caso che l’anno seguente sia stato assunto dalla stessa Società Autostrade.
Per un punto Martin perse la cappa. Per 2.200 lire (1 euro e 13 centesimi) iniziò la brutta avventura di Massimo Eulogi Cristallini. Il 24 dicembre dello stesso anno stava per festeggiare il Natale con la moglie e la figlia di 13 anni quando gli arrivò una lettera di contestazione dalla sua azienda. Negli ultimi due mesi l’ente aveva svolto un’indagine sommaria e segreta, arrivando alla convinzione che fosse lui il casellante reo di aver intascato la piccola somma. Gli davano cinque giorni per presentare una difesa altrimenti sarebbe arrivato il licenziamento.
«In quel periodo», racconta lui, «l’atmosfera sul posto di lavoro era abbastanza pesante. Noi esattori dei caselli ci sentivamo perennemente sospettati di rubare dei soldi. Il controllo sul nostro operato era affidato a una società esterna, la Logservice. Sapevamo che sulle autostrade viaggiavano macchine civetta con a bordo pubblici ufficiali per registrare le nostre eventuali scorrettezze. Pensai di aver fatto un errore e di essere incappato in un controllo. Già altri colleghi erano stati mandati via nello stesso modo. Del resto non potevo ricordarmi cosa era successo a una certa ora di un turno svolto due mesi prima. Non sapevo come difendermi, ero furioso con l’azienda e deciso a lasciare il posto di lavoro per trovarne un altro».
A fargli cambiare idea fu l’ultima visita alla direzione generale della società, dove doveva riconsegnare le chiavi della postazione e altro materiale di lavoro. Incontrò un ex collega, da poco promosso a funzionario, che gli raccontò come stavano le cose davvero: non era incappato in nessun controllo ufficiale. All’origine del licenziamento c’era un’accusa vaga. L’automobilista ricordava di essere passato per uno dei caselli sul lato sinistro della barriera Roma Sud e di aver notato la scorrettezza, nulla di più.
Erano i primi giorni del 1985 e Massimo cercava già un buon avvocato. Grazie ad amici sindacalisti ne trovò uno abile che subito organizzò il contrattacco. Si doveva passare per i cavilli. La mancata affissione da parte della Società Autostrade del codice di comportamento sul posto di lavoro, per esempio, era una mancanza rilevante. Massimo aveva diritto alla reintegrazione d’urgenza. Ricominciò a prendere lo stipendio ma non a lavorare. Infatti, insieme al licenziamento era scattata automaticamente una denuncia alla magistratura per truffa e in pendenza di un procedimento penale non è possibile rivestire pubbliche funzioni (come quella dell’esattore a un casello autostradale) o almeno così andavano le cose nel lontano 1985. Neanche la causa civile di reintegrazione poteva procedere prima che quella penale fosse risolta.
Per cinque anni e quattro mesi Massimo non poté tornare al suo posto ma ricevette la busta paga. E tanto tempo passato in casa non passa senza conseguenze nella vita. Nel 1988 nasce il suo secondo figlio, Flavio. Il padre può accudirlo, dedicargli molte ore. Oggi sembrano giorni felici rivisti nei filmini girati allora, eppure incalzava un giudizio penale.
Nel 1990, in corrispondenza con l’approvazione del nuovo codice di procedura penale in Italia, le piccole truffe vengono ricomprese in un’amnistia destinata a sfoltire il carico di lavoro di tribunali e preture. Massimo si vede dichiarare estinto il reato di cui è sospettato e nel maggio dello stesso anno viene richiamato al lavoro. Non contento, ricorre in appello e cassazione ma ottiene ancora la stessa constatazione di estinzione del reato. Rimane un amnistiato.
È il 1994 ed è arrivato il momento del giudizio civile sulla sua reintegrazione. Ormai lavora di nuovo da quattro anni, non più alla barriera di Roma Sud ma al casello di Roma Torreimpietra. Si sente sicuro che tutto andrà bene. «Per me fu una doccia fredda», ricorda, «persi la causa perché l’amnistia non mi avrebbe scagionato dal sospetto di aver frodato, di 2.200 lire, la Società Autostrade. Forse anche perché in tribunale mi trovai contro un famoso civilista, un professore universitario davanti a cui tutti si levavano il cappello, quando arrivava. Prima di pronunciare il giudizio, per giunta, il pretore se la prese con me perché avevo rifiutato l’indennità di 20 mensilità offertami al posto della riassunzione».
Per la seconda volta in dieci anni ripone la divisa, restituisce le chiavi del casello, deve restare a casa. Adesso ha una figlia adulta, un figlio di 6 anni, e molte meno possibilità di trovare un nuovo lavoro. Lo salva il ricorso in appello. Questa volta i tempi sono brevi. Entro otto mesi un nuovo giudizio fa piazza pulita della precedente sentenza, stabilendo che le prove raccolte non sono mai state sufficienti per configurare una giusta causa di licenziamento.
Oggi Massimo Eulogi Cristallini lavora ancora per la Società Autostrade. Non più in un casello, non sarebbe possibile dopo le recenti innovazioni tecnologiche, ma in un ufficio, a Roma Torreimpietra. Dice che è meglio. Il rapporto con i clienti è più umano e vivo. I clienti sono sempre gli automobilisti. Per loro è vero il contrario. Ai caselli non c’è più una persona in divisa, sullo sfondo un piccolo televisore o una radio accesi nella notte. Li accoglie e li lascia passare una voce metallica, pulita, gentile, alza la sbarra e gli augura buon viaggio. Per quel che gliene importa.

Storia due. La storia di F. la racconta il suo avvocato, Paola Esposito. Lui vuole rimanere anonimo. Ci sono posti in Italia dove il lavoratore può sentirsi all’inferno e avere paura. L’avellinese, per certi aspetti, può essere uno di questi. F. è di Napoli, lavorava come magazziniere in un’industria alimentare nella zona di Avellino. La sua vicenda ricorda il titolo di un romanzo: Due di due. Licenziato due volte, reintegrato d’urgenza due volte, con due cause di reintegrazione per articolo 18 attualmente in corso. E una sottile accusa giunta al suo avvocato dalla controparte: si starebbe macchiando di «accanimento difensivo».
La prima volta F. è stato licenziato nel 2000. La sua industria vantava un giustificato motivo, riordino dei cicli produttivi e soppressione del suo posto di lavoro. In realtà lo avevano distaccato al magazzino di un’azienda esterna, che è fallita dopo pochi
giorni. F. è sfiduciato, «tanto chille s’accattano o’ magistrato» (tanto si comprano il magistrato), dice all’avvocato. Lei, comunque, ottiene una reintegrazione d’urgenza (l’articolo 700 del codice civile la prevede quando il licenziamento è avvenuto in maniera palesemente illegittima). Il datore di lavoro non ricomincia a pagare gli stipendi ed è necessario agire in via esecutiva, effettuare dei pignoramenti sul suo conto corrente. F. si presenta ogni giorno al lavoro, e ogni giorno gli viene chiusa la porta in faccia. Dura così per alcuni mesi finché, a marzo dell’anno scorso l’azienda non cede e decide di riassumerlo. Per cinque giorni. Ci mette lo zampino la sfortuna: F. ha una colica renale, presenta il certificato medico ma viene licenziato in tronco. Per giusta causa, questa volta, dice l’azienda. L’avvocato deve intervenire di nuovo e ottiene un’altra reintegrazione d’urgenza. Questa volta di tornare al lavoro per F. non se ne parla. «Adesso ci troviamo in una situazione singolare», spiega Paola Esposito, «il mio cliente è in causa per due reintegrazioni secondo l’articolo 18. Sto anche valutando l’ipotesi che una possa concludersi con la liquidazione di un’indennità in denaro, l’altra con la riassunzione». Accanimento difensivo, lo chiamano gli avvocati dell’altra parte. Ma forse cominciano a essere preoccupati.

Storia tre. «Signorina sono già diversi giorni che lei arriva al lavoro e timbra il cartellino con circa dieci minuti di anticipo. Ci dispiace, ma se vuole restare da noi, in futuro dovrà fare più attenzione». Sono bizzarri i direttori di 118 albergo nel milanese e a una dipendente può capitare anche di sentirsi riprendere in questo modo.
È successo a Giovanna Vennari, 26 anni, cameriera in un grande hotel, quattro stelle, a Milano. Giovanna aveva messo piede nell’albergo per la prima volta otto anni fa. Aveva 18 anni ma già molta vita alle spalle, un bambino di un anno e un compagno. Non aveva fatto una scuola alberghiera, solo risposto a un annuncio su un giornale, e si era trovata catapultata in un mondo che le piaceva. «L’albergo era un luogo in cui mi trovavo bene», dice, «confortevole, accogliente, rassicurante e con i colleghi c’era un buon rapporto umano. Certo si trattava di un lavoro duro, a tempo pieno. Del resto è così anche oggi. Non ho mai un minuto libero». Lo dice con tono spensierato, sorridente. È così anche oggi, dopo che con quello stesso albergo ha dovuto scontrarsi duramente per vedere riconosciuti i propri diritti. Otto anni fa aveva cominciato come dipendente «extra». Veniva chiamata solo quando ce n’era bisogno, per brevi periodi. Ma era brava e ha iniziato a fare carriera, l’unica consentita a chi non ha neanche un rapporto di lavoro fisso: passare da contratti brevissimi a contratti meno brevi. Superati i primi quattro anni da «extra» hanno cominciato a chiamarla come lavoratrice stagionale, nei periodi di punta, che a Milano coincidono con l’inverno. Dopo alcuni contratti stagionali a Giovanna è stato proposto di sostituire una dipendente in maternità. Le hanno anche promesso che questo sarebbe stato l’ultimo lavoro a tempo determinato. Alla scadenza sarebbe stata assunta. Del resto il nuovo contratto iniziava a ridosso della fine dell’ultimo, senza i rituali 15 giorni di pausa, il che per legge equivale ad assumere un impegno a tempo indeterminato. Il lavoro procedeva bene e il momento della fine del precariato sembrava avvicinarsi. Ma a un mese dal termine del contratto sono arrivate a Giovanna delle lettere di richiamo da parte della direzione. Oltre ad alcuni errori le rimproveravano proprio di iniziare il lavoro in anticipo rispetto all’orario previsto, quindi senza copertura assicurativa, rischiando di arrecare gravi danni all’azienda. «Qui qualcosa non torna», si diceva Giovanna, «otto anni senza mai un rimprovero e all’improvviso, proprio ora, niente di quello che faccio va più bene». Ma sperava ancora nell’assunzione che le era stata promessa.
Al termine della sostituzione il direttore le ha detto che nell’ultimo periodo non si era comportata bene. Fine di ogni rapporto lavorativo con l’albergo. In futuro niente più contratti. Era giugno dell’anno scorso. «E così», commenta Giovanna, «dopo otto anni in cui ero sempre stata a disposizione, mi volevano lasciare con il sedere per terra. Con un bambino e a sedere per terra. Allora mi sono rivolta a un avvocato». L’avvocato ha impostato subito la causa come reintegrazione di un dipendente ingiustamente licenziato. In tribunale si è presentato il direttore dell’albergo che ha provato a sostenere l’ipotesi del licenziamento per giusta causa. Ha riproposto la storia dei cartellini timbrati con dieci minuti di anticipo. Non reggeva. La sentenza di reintegrazione è arrivata il primo settembre scorso e da allora Giovanna ha ripreso a lavorare regolarmente, assunta a tempo indeterminato. Ha trovato i colleghi solidali e contenti di rivederla. Così anche il suo caposervizio. Solo il direttore dell’albergo le riserva ancora una certa ostilità. Dice che non si sarebbe mai aspettato da lei un comportamento del genere.

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