22 marzo 2002 |
Tre
storie di lavoratori che, grazie all’articolo 18, non si sono
rovinati la vita. Foto ricordo, da tenere in archivio...
Rimborsati
e soddisfatti
di
Filippo Golia
Foto
ricordo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, in tre
scatti. Il giorno della nascita, il 20 maggio 1970, lo Statuto è
legge. Sullo sfondo sorridono l’allora ministro del Lavoro Carlo
Donat Cattin e il suo collaboratore Gino Giugni. Al centro,
naturalmente, l’articolo 18: il giudice ordina al datore di lavoro
di «reintegrare il lavoratore» licenziato senza giusta causa o
giustificato motivo. La legge riguarda solo le imprese che, a livello
locale, occupano almeno 15 dipendenti (cinque per quelle agricole).
Secondo
scatto, maggio del 1990, i dieci giorni dopo la Festa del lavoro.
L’articolo 18 cresce e prende la forma odierna. La norma diventa
applicabile anche alle imprese che non raggiungono i 15 dipendenti a
livello locale, ma che complessivamente ne occupano più di 60. E il
lavoratore può rinunciare alla reintegrazione in favore di
un’indennità pari a 15 mensilità, se preferisce non tornare sul
posto di lavoro.
Secondo
i dati dell’Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali), su 2
mila cause di reintegrazione, in media solo 88, meno del 5 per cento,
superano il primo grado di giudizio e arrivano in appello. Le altre,
nella maggior parte, non si concludono con la reintegrazione ma con
un accordo tra il datore di lavoro e il lavoratore, che accetta la
liquidazione in denaro.
Il
meccanismo funziona. Il maggior numero di ricorsi al pretore del
lavoro è al Sud. Sempre tra il 1994 e il 1998, a Napoli sono stati
presentati quasi 70 mila ricorsi, a Bari quasi 30 mila, a Bolzano
solo 715. Ma i più coerenti nel cercare la reintegrazione sono stati
proprio i lavoratori di Bolzano: il 12 per cento, contro lo 0,25 per
cento di Taranto, l’1,5 per cento di Bari, il 4,5 per cento di
Napoli.
Ultimo
scatto, oggi. Dense nubi riempiono il cielo, nonostante l’imminente
arrivo della primavera. Un’indennità, non più a discrezione del
lavoratore, potrebbe sostituire il diritto alla reintegrazione in tre
casi: nelle imprese che decidono di lasciare il mercato nero e di
mettersi in regola; in quelle che superano i 15 dipendenti grazie a
nuove assunzioni; infine per i lavoratori assunti al Sud dopo un
contratto a tempo determinato (i giovani). Oltre alle nubi la foto
mostra migliaia di persone che sfilano in strada. Ma ecco tre storie.
Storia
numero uno. Dieci anni dal licenziamento alla reintegrazione, una
strada senza fine. La vicenda di Massimo Eulogi Cristallini corre su
un striscia di asfalto nero. Dipendente della Società Autostrade,
nel 1984 lavorava al casello di Roma Sud. Turni di otto ore al
giorno, migliaia di pedaggi da riscuotere a ogni turno.
Fu
un autista passato per Roma Sud il 22 ottobre, verso le 17.00, a
presentare una denuncia. Il casellante gli avrebbe fatto pagare il
pedaggio esatto: 7 mila lire, poi avrebbe registrato un pagamento di
sole 4.800 lire, intascando la differenza e truffando il proprio
datore di lavoro. L’automobilista, un geometra che all’epoca
collaborava con le Autostrade, aveva agito per zelo. È probabilmente
solo un caso che l’anno seguente sia stato assunto dalla stessa
Società Autostrade.
Per
un punto Martin perse la cappa. Per 2.200 lire (1 euro e 13
centesimi) iniziò la brutta avventura di Massimo Eulogi Cristallini.
Il 24 dicembre dello stesso anno stava per festeggiare il Natale con
la moglie e la figlia di 13 anni quando gli arrivò una lettera di
contestazione dalla sua azienda. Negli ultimi due mesi l’ente aveva
svolto un’indagine sommaria e segreta, arrivando alla convinzione
che fosse lui il casellante reo di aver intascato la piccola somma.
Gli davano cinque giorni per presentare una difesa altrimenti sarebbe
arrivato il licenziamento.
«In
quel periodo», racconta lui, «l’atmosfera sul posto di lavoro era
abbastanza pesante. Noi esattori dei caselli ci sentivamo
perennemente sospettati di rubare dei soldi. Il controllo sul nostro
operato era affidato a una società esterna, la Logservice. Sapevamo
che sulle autostrade viaggiavano macchine civetta con a bordo
pubblici ufficiali per registrare le nostre eventuali scorrettezze.
Pensai di aver fatto un errore e di essere incappato in un controllo.
Già altri colleghi erano stati mandati via nello stesso modo. Del
resto non potevo ricordarmi cosa era successo a una certa ora di un
turno svolto due mesi prima. Non sapevo come difendermi, ero furioso
con l’azienda e deciso a lasciare il posto di lavoro per trovarne
un altro».
A
fargli cambiare idea fu l’ultima visita alla direzione generale
della società, dove doveva riconsegnare le chiavi della postazione e
altro materiale di lavoro. Incontrò un ex collega, da poco promosso
a funzionario, che gli raccontò come stavano le cose davvero: non
era incappato in nessun controllo ufficiale. All’origine del
licenziamento c’era un’accusa vaga. L’automobilista ricordava
di essere passato per uno dei caselli sul lato sinistro della
barriera Roma Sud e di aver notato la scorrettezza, nulla di più.
Erano
i primi giorni del 1985 e Massimo cercava già un buon avvocato.
Grazie ad amici sindacalisti ne trovò uno abile che subito organizzò
il contrattacco. Si doveva passare per i cavilli. La mancata
affissione da parte della Società Autostrade del codice di
comportamento sul posto di lavoro, per esempio, era una mancanza
rilevante. Massimo aveva diritto alla reintegrazione d’urgenza.
Ricominciò a prendere lo stipendio ma non a lavorare. Infatti,
insieme al licenziamento era scattata automaticamente una denuncia
alla magistratura per truffa e in pendenza di un procedimento penale
non è possibile rivestire pubbliche funzioni (come quella
dell’esattore a un casello autostradale) o almeno così andavano le
cose nel lontano 1985. Neanche la causa civile di reintegrazione
poteva procedere prima che quella penale fosse risolta.
Per
cinque anni e quattro mesi Massimo non poté tornare al suo posto ma
ricevette la busta paga. E tanto tempo passato in casa non passa
senza conseguenze nella vita. Nel 1988 nasce il suo secondo figlio,
Flavio. Il padre può accudirlo, dedicargli molte ore. Oggi sembrano
giorni felici rivisti nei filmini girati allora, eppure incalzava un
giudizio penale.
Nel
1990, in corrispondenza con l’approvazione del nuovo codice di
procedura penale in Italia, le piccole truffe vengono ricomprese in
un’amnistia destinata a sfoltire il carico di lavoro di tribunali e
preture. Massimo si vede dichiarare estinto il reato di cui è
sospettato e nel maggio dello stesso anno viene richiamato al lavoro.
Non contento, ricorre in appello e cassazione ma ottiene ancora la
stessa constatazione di estinzione del reato. Rimane un amnistiato.
È
il 1994 ed è arrivato il momento del giudizio civile sulla sua
reintegrazione. Ormai lavora di nuovo da quattro anni, non più alla
barriera di Roma Sud ma al casello di Roma Torreimpietra. Si sente
sicuro che tutto andrà bene. «Per me fu una doccia fredda»,
ricorda, «persi la causa perché l’amnistia non mi avrebbe
scagionato dal sospetto di aver frodato, di 2.200 lire, la Società
Autostrade. Forse anche perché in tribunale mi trovai contro un
famoso civilista, un professore universitario davanti a cui tutti si
levavano il cappello, quando arrivava. Prima di pronunciare il
giudizio, per giunta, il pretore se la prese con me perché avevo
rifiutato l’indennità di 20 mensilità offertami al posto della
riassunzione».
Per
la seconda volta in dieci anni ripone la divisa, restituisce le
chiavi del casello, deve restare a casa. Adesso ha una figlia adulta,
un figlio di 6 anni, e molte meno possibilità di trovare un nuovo
lavoro. Lo salva il ricorso in appello. Questa volta i tempi sono
brevi. Entro otto mesi un nuovo giudizio fa piazza pulita della
precedente sentenza, stabilendo che le prove raccolte non sono mai
state sufficienti per configurare una giusta causa di licenziamento.
Oggi
Massimo Eulogi Cristallini lavora ancora per la Società Autostrade.
Non più in un casello, non sarebbe possibile dopo le recenti
innovazioni tecnologiche, ma in un ufficio, a Roma Torreimpietra.
Dice che è meglio. Il rapporto con i clienti è più umano e vivo. I
clienti sono sempre gli automobilisti. Per loro è vero il contrario.
Ai caselli non c’è più una persona in divisa, sullo sfondo un
piccolo televisore o una radio accesi nella notte. Li accoglie e li
lascia passare una voce metallica, pulita, gentile, alza la sbarra e
gli augura buon viaggio. Per quel che gliene importa.
Storia
due. La storia di F. la racconta il suo avvocato, Paola Esposito. Lui
vuole rimanere anonimo. Ci sono posti in Italia dove il lavoratore
può sentirsi all’inferno e avere paura. L’avellinese, per certi
aspetti, può essere uno di questi. F. è di Napoli, lavorava come
magazziniere in un’industria alimentare nella zona di Avellino. La
sua vicenda ricorda il titolo di un romanzo: Due di due. Licenziato
due volte, reintegrato d’urgenza due volte, con due cause di
reintegrazione per articolo 18 attualmente in corso. E una sottile
accusa giunta al suo avvocato dalla controparte: si starebbe
macchiando di «accanimento difensivo».
La
prima volta F. è stato licenziato nel 2000. La sua industria vantava
un giustificato motivo, riordino dei cicli produttivi e soppressione
del suo posto di lavoro. In realtà lo avevano distaccato al
magazzino di un’azienda esterna, che è fallita dopo pochi
giorni.
F. è sfiduciato, «tanto chille s’accattano o’ magistrato»
(tanto si comprano il magistrato), dice all’avvocato. Lei,
comunque, ottiene una reintegrazione d’urgenza (l’articolo 700
del codice civile la prevede quando il licenziamento è avvenuto in
maniera palesemente illegittima). Il datore di lavoro non ricomincia
a pagare gli stipendi ed è necessario agire in via esecutiva,
effettuare dei pignoramenti sul suo conto corrente. F. si presenta
ogni giorno al lavoro, e ogni giorno gli viene chiusa la porta in
faccia. Dura così per alcuni mesi finché, a marzo dell’anno
scorso l’azienda non cede e decide di riassumerlo. Per cinque
giorni. Ci mette lo zampino la sfortuna: F. ha una colica renale,
presenta il certificato medico ma viene licenziato in tronco. Per
giusta causa, questa volta, dice l’azienda. L’avvocato deve
intervenire di nuovo e ottiene un’altra reintegrazione d’urgenza.
Questa volta di tornare al lavoro per F. non se ne parla. «Adesso ci
troviamo in una situazione singolare», spiega Paola Esposito, «il
mio cliente è in causa per due reintegrazioni secondo l’articolo
18. Sto anche valutando l’ipotesi che una possa concludersi con la
liquidazione di un’indennità in denaro, l’altra con la
riassunzione». Accanimento difensivo, lo chiamano gli avvocati
dell’altra parte. Ma forse cominciano a essere preoccupati.
Storia
tre. «Signorina sono già diversi giorni che lei arriva al lavoro e
timbra il cartellino con circa dieci minuti di anticipo. Ci dispiace,
ma se vuole restare da noi, in futuro dovrà fare più attenzione».
Sono bizzarri i direttori di 118 albergo nel milanese e a una
dipendente può capitare anche di sentirsi riprendere in questo modo.
È
successo a Giovanna Vennari, 26 anni, cameriera in un grande hotel,
quattro stelle, a Milano. Giovanna aveva messo piede nell’albergo
per la prima volta otto anni fa. Aveva 18 anni ma già molta vita
alle spalle, un bambino di un anno e un compagno. Non aveva fatto una
scuola alberghiera, solo risposto a un annuncio su un giornale, e si
era trovata catapultata in un mondo che le piaceva. «L’albergo era
un luogo in cui mi trovavo bene», dice, «confortevole, accogliente,
rassicurante e con i colleghi c’era un buon rapporto umano. Certo
si trattava di un lavoro duro, a tempo pieno. Del resto è così
anche oggi. Non ho mai un minuto libero». Lo dice con tono
spensierato, sorridente. È così anche oggi, dopo che con quello
stesso albergo ha dovuto scontrarsi duramente per vedere riconosciuti
i propri diritti. Otto anni fa aveva cominciato come dipendente
«extra». Veniva chiamata solo quando ce n’era bisogno, per brevi
periodi. Ma era brava e ha iniziato a fare carriera, l’unica
consentita a chi non ha neanche un rapporto di lavoro fisso: passare
da contratti brevissimi a contratti meno brevi. Superati i primi
quattro anni da «extra» hanno cominciato a chiamarla come
lavoratrice stagionale, nei periodi di punta, che a Milano coincidono
con l’inverno. Dopo alcuni contratti stagionali a Giovanna è stato
proposto di sostituire una dipendente in maternità. Le hanno anche
promesso che questo sarebbe stato l’ultimo lavoro a tempo
determinato. Alla scadenza sarebbe stata assunta. Del resto il nuovo
contratto iniziava a ridosso della fine dell’ultimo, senza i
rituali 15 giorni di pausa, il che per legge equivale ad assumere un
impegno a tempo indeterminato. Il lavoro procedeva bene e il momento
della fine del precariato sembrava avvicinarsi. Ma a un mese dal
termine del contratto sono arrivate a Giovanna delle lettere di
richiamo da parte della direzione. Oltre ad alcuni errori le
rimproveravano proprio di iniziare il lavoro in anticipo rispetto
all’orario previsto, quindi senza copertura assicurativa,
rischiando di arrecare gravi danni all’azienda. «Qui qualcosa non
torna», si diceva Giovanna, «otto anni senza mai un rimprovero e
all’improvviso, proprio ora, niente di quello che faccio va più
bene». Ma sperava ancora nell’assunzione che le era stata
promessa.
Al
termine della sostituzione il direttore le ha detto che nell’ultimo
periodo non si era comportata bene. Fine di ogni rapporto lavorativo
con l’albergo. In futuro niente più contratti. Era giugno
dell’anno scorso. «E così», commenta Giovanna, «dopo otto anni
in cui ero sempre stata a disposizione, mi volevano lasciare con il
sedere per terra. Con un bambino e a sedere per terra. Allora mi sono
rivolta a un avvocato». L’avvocato ha impostato subito la causa
come reintegrazione di un dipendente ingiustamente licenziato. In
tribunale si è presentato il direttore dell’albergo che ha provato
a sostenere l’ipotesi del licenziamento per giusta causa. Ha
riproposto la storia dei cartellini timbrati con dieci minuti di
anticipo. Non reggeva. La sentenza di reintegrazione è arrivata il
primo settembre scorso e da allora Giovanna ha ripreso a lavorare
regolarmente, assunta a tempo indeterminato. Ha trovato i colleghi
solidali e contenti di rivederla. Così anche il suo caposervizio.
Solo il direttore dell’albergo le riserva ancora una certa
ostilità. Dice che non si sarebbe mai aspettato da lei un
comportamento del genere.
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