22 marzo 2002 |
Nel
nome del padre, del figlio e della Cgil
di
Enrico Deaglio
22
marzo 2002
Articolo
18 da Diario
Un
colloquio con Sergio Cofferati: «Gli italiani hanno la sensazione
che il governo stia togliendo loro qualcosa»
«Si
tende, qualche volta, a dimenticare in fretta. Per esempio, molte
persone credono che nel 1994 il governo Berlusconi sia caduto per
l’opposizione dei sindacati al progetto di riforma delle pensioni.
Ma non andò così: nella notte tra il 30 novembre e il primo
dicembre, sindacati e governo concordarono di stralciare dalla legge
finanziaria la riforma delle pensioni e quindi venne revocato lo
sciopero generale programmato per il giorno dopo, 2 dicembre. Il
governo Berlusconi cadde dieci giorni dopo, perché la Lega di Bossi
gli tolse l’appoggio. Voglio dire, con questo, che il sindacato
firmò un buon accordo, che ha dato i suoi frutti negli anni
successivi e che è ancora valido oggi».
Sergio
Cofferati da Cremona, 54 anni, detto «il cinese», segretario
generale della Cgil (5,5 milioni di iscritti paganti la tessera),
alla vigilia della più grande manifestazione sindacale della storia
italiana, è la persona più è la persona più tranquilla che si
possa immaginare, ma ci tiene a dire che lui, nella sua vita
sindacale, alla fine gli accordi li fa. E poi il sindacato li
rispetta. Seduto al tavolo del suo ufficio comunica con apparente
distacco il bollettino dei trasporti: parlando dei 59 treni speciali
prenotati ricorda che per l’ultima giornata del Giubileo 2000
furono quaranta.«Poi naturalmente ci sono i pullman, che stiamo
cercando in Austria e in Slovenia;
tutti
quelli che verranno in auto o in camper. Poi i pullmini, quelli da
dieci posti. E infine la partecipazione della città di Roma, che
immagino sarà alta. Sarà una bella giornata, una festa dei diritti.
Di quelli conquistati dai nostri padri, di quelli conquistati dalla
nostra generazione, di quelli che vogliamo trasmettere ai figli. Sarà
una manifestazione molto “europea’’. E, se il governo vorrà
calpestare questi diritti, ci sarà uno sciopero generale». Fa una
pausa: «Di otto ore. A me piacerebbe che fosse una giornata del
silenzio. Tutto fermo, tutto silenzioso».
Sergio
Cofferati non è cambiato, le stesse cose le diceva già due mesi fa,
quando veniva dipinto come «il signor no», l’Arthur Scargill
italiano, il «residuato ideologico», il «sindacalista che cerca la
carriera politica», la persona da cui la sinistra moderna farebbe
bene a stare alla larga. Curiosamente, in soli due mesi – e stando
fermo – mezzo mondo gli è venuto incontro e l’agenda politica
del Paese adesso ruota intorno ai temi che la sua iniziativa ha
fissato. Come ha fatto?
«Non
ci siamo lasciati impressionare e abbiamo ragionato. Ancora prima
dell’articolo 18. Io mi ricordo i primi incontri con il governo,
quando noi della Cgil ci permettemmo di far presente che le stime di
crescita economica presentate da Tremonti ci sembravano
inattendibili. Poi venne l’11 settembre e apparve a tutti chiaro
che il futuro non sarebbe stato roseo per nessuno. Persino Bush, il
presidente della patria del liberismo, si rendeva conto che occorreva
attuare misure anticicliche: sostegno alla domanda, interventi
statali, tutele per i più deboli. A noi invece venivano a parlare di
miracoli in arrivo. Una grande sorpresa poi scoprire che il governo,
per la prima volta, non poneva come prioritario il problema del
Mezzogiorno e anzi tagliava i finanziamenti agli interventi destinati
a incentivare sviluppo, formazione, sicurezza, piani territoriali.
Che sulla scuola si voleva regredire, mortificando e immiserendo la
scuola pubblica nei confronti di quella privata. Che sul fisco la
proposta di due sole aliquote non ha precedenti in nessuna parte del
mondo e favorisce soltanto chi ha redditi che superano gli ottanta
milioni l’anno; i redditi inferiori ci perdono. Che sulle pensioni,
l’idea di sgravare le imprese dalla contribuzione sarà anche
bella, ma svuota le casse dell’Inps, con il risultato che poi le
prestazioni ai pensionati saranno ridotte».
Poi
è arrivato l’articolo 18. Sergio Cofferati spiega: «Io ho una
certa esperienza in questo campo, perché ho fatto per molti anni il
sindacalista: francamente non ho mai visto un virtuoso processo che
arrivi a un aumento dell’occupazione passando dai licenziamenti.
Piuttosto ho sempre visto che chi vuole dare mano libera ai
licenziamenti, vuole semplicemente licenziare. Già ora ci sono,
scritti nei contratti, molte occasioni per gli imprenditori per
procedere ai licenziamenti, individuali e collettivi. In questo caso
il governo vuole aggiungere un’altra possibilità e dire che per
legge si può licenziare chiunque senza dare spiegazioni. Io ti
licenzio e non sono tenuto a dirti il perché. Certo, si dice che i
ricorsi alla magistratura per il reintegro sono pochi, ma questo è
un bene. Significa che l’articolo 18 è un deterrente».
«Io
giro molto e incontro molte persone. Quando spiego di che cosa si sta
parlando quando si parla di articolo 18, le persone capiscono. Ora
leggo che il governo dice che noi della Cgil diciamo solo bugie e che
loro faranno un’offensiva mediatica per spiegare che noi difendiamo
i padri contro i figli. Non so come potranno essere convincenti,
perché quando io spiego che la Cgil difende i diritti che i figli
hanno avuto per le conquiste dei loro padri, mi capiscono. Mi auguro
per loro che siano convincenti. Finora, pur avendo sei televisioni e
un sacco di altri mezzi, non lo sono stati».
Dieci
mesi fa l’Italia votava Berlusconi che non aveva fatto mistero di
voler dare una bella botta al «sindacato dei comunisti», il cui
mondo sembrava ridotto a una platea di pensionati, sommersi da una
marea montante di individui legati allo Stato dalla sola partita Iva,
pronti a scatenare la passione imprenditoriale per cui Dio
onnipotente li aveva creati. Berlusconi aveva offerto molto: un po’
al popolo, con l’aumento delle pensioni minime a un milione, ma
soprattutto alla Confindustria alla quale aveva garantito, per farla
breve, che avrebbe pagato meno i salari, meno i contributi
previdenziali, e meno tasse. Ho chiesto a Cofferati dove è andata a
finire quella spinta, quella voglia di cambiamento, di libertà?
«È
andata a finire che erano, per molta parte, delle promesse elettorali
e basta. E poi è andata a finire che sempre più persone si
accorgono che un mondo senza regole non è un mondo più libero: può
diventare un mondo di persone più deboli e più sole. Quello che mi
sembra di capire, parlando con molta gente in questi mesi, è che una
sensazione diffusa sia diventata quella di un governo che non ti sta
dando qualcosa, ma ti sta togliendo qualcosa. Che sta aggredendo i
tuoi diritti. Ti dicono che vogliono andare verso una maggiore
occupazione e intanto permettono di licenziarti più facilmente. Poi
ti dicono che sarà più facile licenziare al sud che al nord. Poi ti
dicono che vorrebbero di nuovo delle gabbie salariali, dopo aver
messo delle gabbie di diritti. Io mi chiedo: come è possibile, che
in un’Europa dei diritti, già sancita a Nizza, sia possibile in
Italia avere due diversi regimi di licenziamento? E quando vado nel
Mezzogiorno, trovo che mi fanno la stessa domanda». (Domanda: come
trova il Mezzogiorno riguardo all’articolo 18? Risposta: Abbastanza
furibondo).
Riflessione
di un sindacalista che per anni ha firmato accordi con la
Confindustria: «Io penso che l’attuale dirigenza di Confindustria
sia la plastica dimostrazione delle difficoltà di molti industriali,
con cui il governo ha scelto di legarsi, di affrontare l’Europa.
Non la volevano, preferivano la svalutazione. Non la voleva, e non la
vuole nemmeno ora, il governatore della Banca centrale. Non vogliono
confrontarsi con la qualità, con la ricerca, preferiscono un costo
del lavoro basso, la diminuzione delle tutele. Non vogliono
l’allargamento dell’Europa ad est, perchè preferiscono un Est
privo di diritti come destinazione delle loro merci. Posso dire? Non
è una gran bella Confindustria, quella attuale».
Quando
questo numero di Diario sarà in edicola, verso Roma, per la
manifestazione indetta dalla Cgil saranno già in viaggio moltissime
persone. Una piccola migrazione interna in tempi di pace, mentre
grandi migrazioni di popoli si affacciano ai nostri confini.
«Un’altra cosa che non capisco», dice Cofferati. «Ogni
industriale sa che se vogliamo crescere economicamente, abbiamo
bisogno di manodopera immigrata, perché con le nostre forze locali
non ce la facciamo. Io trovo strano che ci siano industriali, nel
Nordest ma non solo, che la mattina vanno all’ufficio di
collocamento per cercare senegalesi o ghanesi e la sera manifestano
contro l’immigrazione. Troverei molto più sensato mettersi intorno
a un tavolo e tracciare progetti per un’immigrazione controllata,
con diritti, con il diritto alla casa, alla formazione, al voto, per
andare nel miglior modo possibile verso quella Italia multietnica
alla quale necessariamente arriveremo».
Alla
fine di questo colloquio, ho chiesto a Sergio Cofferati quale sarà
il suo futuro. La domanda è naturalmente quella che gli pongono
tutti, la risposta, studiata, è ironica: «Io sono un vasetto di
yogurt, su cui è scritta la data di scadenza. La mia dice 29 giugno
2002, giorno in cui scade il mio mandato alla segreteria della Cgil».
Ho
osservato che i temi della manifestazione del 23 marzo – non solo
articolo 18, ma scuola pubblica, pensioni, fisco, mercato del lavoro,
Europa – formano una specie di piattaforma politica per
l’opposizione al governo Berlusconi e ha concordato.
«Effettivamente è vero. La Cgil si muove da un punto di vista
strettamente sindacale e il suo mestiere è quello di firmare accordi
che tutelino e facciano avanzare i suoi iscritti, ma è vero che
tutti questi temi sono politici. In tutto quello che osservo in
questi mesi – i nuovi movimenti di cittadini, per esempio – vedo
la richiesta di una rappresentanza politica, vedo e sento domande: mi
auguro naturalmente che si trovino orecchie disposte ad ascoltarle.
La mia impressione è che tutto questo livello di discussione, di
dibattito, dimostri quanto l’Italia sia un paese molto vivo, molto
reattivo, molto curioso. Noi italiani siamo abituati a chiedere molto
e a me sembra che il clima di queste ultime settimane sia molto
buono: in pratica tutti gli italiani stanno discutendo, stanno
facendo i conti, parlano di pensioni e di salari. A me sembra molto
importante che moltissime persone pensino ai loro diritti, a quelli
che hanno conquistato e che non vogliano assolutamente perdere.
Questo riguarda il posto di lavoro, la previdenza, l’assistenza
sanitaria, ma si spinge oltre: a che cosa sarà l’Europa».
Ho
chiesto: ha una intima soddisfazione per essere l’artefice della
più grande manifestazione popolare che si sta preparando in Italia?
Sergio Cofferati non ha risposto direttamente, ma ha ricordato che
l’inizio di questa storia – il famoso articolo 18 – veniva
definito «una questione marginale». Accusato di essere
«ideologico», Cofferati pensa che «molto ideologici» siano i suoi
interlocutori governativi. «Si definiscono molto moderni, ma non lo
sono. Il loro è un programma antico, che non ha mai funzionato».
Alla
fine Cofferati si distende sulla sedia: «In realtà, io penso che un
grande sindacato confederale, solido, responsabile, faccia del bene a
tutti. Dividere è una sciocchezza. Pensare di avere vita più facile
con interlocutori divisi è un’altra sciocchezza. Porta alla
solitudine, alla pena».
Dove
vanno gli yogurt quando scadono?
Nessun commento:
Posta un commento