Dopo l’emotività, la riflessione. Dopo l’intensità drammatica delle ultime 24 ore, lo spazio per approfondire e capire meglio, anche se poi non necessita molto tempo per rendersi conto che, la cricca del papi, sta soffocando il Paese con un cappio sempre più stringente. “La situazione politica in Italia è grave ma non è seria” verrebbe da esclamare, citando Ennio Flaiano (da “Diario notturno”, 1956), però la capacità di sdrammatizzare è perduta di fronte allo scempio che accade sotto occhi impotenti.
Lo sfogo abbraccia così una folta rassegna stampa. A partire da Michele Serra, autore di un’amaca straordinariamente efficace, su “la Repubblica” di oggi e Robecchi su “il manifesto”, nella consueta rubrica settimanale, corrosiva quanto basta. Poi ci sono gli approfondimenti di grande qualità. Il professor Massimo Villone, su “il manifesto”, sempre di oggi, che spiega con molta chiarezza come il decreto-truffa sia anticostituzionale. Concita De Gregorio che suggerisce l’unico modo che in democrazia è valido (anche per conservarla questa democrazia), cioè il voto del 28 e 29 marzo per spazzarli e spiazzarli. L’editoriale, di ieri, di Ezio Mauro, quello odierno del Fundador Eugenio Scalfari e l’imprescindibile contributo di Barbara Spinelli a completare il tutto.
Qui siamo lontani anni-luce dal tanfo e dalla volgarità che si sprigionano da quella sentina che è il partito della libertà provvisoria. Non per molto spero. Perché verrà un giorno…
Avrei bisogno anche io di un «decreto interpretativo» che mi chiarisse, finalmente, perché ho sempre pagato le tasse. Perché passo con il verde e mi fermo con il rosso. Perché pago di tasca mia viaggi, case, automobili, alberghi. Perché non ho un corista vaticano di fiducia che mi fornisca il listino aggiornato delle mignotte o dei mignotti. Perché se un tribunale mi convoca (ai giornalisti capita) non ho legittimi impedimenti da opporre. Perché pago un garage per metterci la macchina invece di lasciarla sul marciapiede in divieto di sosta come la metà dei miei vicini di casa. Perché considero ovvio rilasciare fattura se nei negozi devo insistere per averela ricevuta fiscale. Perché devo spiegare a chi mi chiede sbalordito «ma le servela ricevuta?» che non è che serva a me, serve alla legge. Perché non ho mai condonare un fico secco. Perché non ho mai avuto capitali all’estero. Perché non ho un sottobanco, non ho sottofondi, non ho sottintesi, e se mi intercettano il peggio che possono dire è che sparo cazzate al telefono.
Io — insieme a qualche altro milione di italiani — sono l’incarnazione di un’anomalia. Rappresento l’inspiegabile. Dunque avrei bisogno di un decreto interpretativo ad personam che chiarisse perché sono così imbecille da credere ancora nelle leggi e nello Stato.
(7 marzo 2010)
Perché è incostituzionale
di Massimo Villone*
Alla fine, il misfatto si compie. Il governo con decreto-legge modifica le regole in corsa, e stravolge la competizione elettorale a vantaggio della propria parte.
Questo infatti è accaduto. È del tutto inconsistente lo schermo di una norma che si autodefinisce interpretativa. Anzitutto, a nulla vale argomentare che la decisione è lasciata ai giudici. Il problema non è chi deciderà applicando la norma, ma quale norma si dovrà applicare. Perché la norma sia davvero interpretativa, bisogna supporre che in una medesima disposizione preesistente in realtà convivano più potenzialità normative, e che il legislatore scelga tra i possibili e molteplici significati uno compiutamente già presente. Non a caso, una norma interpretativa viene a valle di contrasti giurisprudenziali, di dubbi applicativi, di incertezze evidenziate dall’esperienza. Nulla di questo è alla base dei pasticci degli ultimi giorni. Tutti assumono che vi sia stato pressapochismo da parte dei presentatori, o peggio. E allora cosa dobbiamo mai interpretare?
Emerge anche un dubbio sulla sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza ex art. 77 Cost. È in corso il procedimento elettorale. Sono state assunte decisioni, sono in atto impugnative davanti ai giudici competenti. Nessuno può sapere se sarà adottata una interpretazione o un’altra. E allora dov’è la necessità e l’urgenza di definire ex lege l’interpretazione corretta? Non è invece che si anticipa la certezza di una interpretazione sfavorevole? Ma in tal caso abbiamo un indizio evidente che non si tratta di norma interpretativa volta a chiarire, ma di norma nuova e modificativa di quella esistente.
Non si fermano qui le forzature e violazioni della Costituzione. Anzitutto, in materia costituzionale ed elettorale il decreto-legge è precluso. Lo stabilisce l’art. 72, comma 4, della Costituzione. È già dubbio che con decreto-legge si possa metter mano a marginali tecnicalità della competizione elettorale. Ma di sicuro non si può ricorrere al decreto per fissare l’interpretazione delle regole sulla presentazione delle liste. In nessun modo questa può considerarsi una marginale tecnicalità. Inevitabilmente, si incide sul voto, e questo senza dubbio preclude il ricorso al decreto. Dunque, la stessa definizione che il governo dà del proprio intervento in chiave di norma interpretativa evidenzia di per sé il contrasto con l’art. 72, quarto comma, della Costituzione.
Decisivo è poi che in materia elettorale la forma è sostanza. Il principio di fondo della competizione elettorale è la par condicio delle forze in campo. E il primo indispensabile presupposto perché tale par condicio vi sia è il rispetto assoluto delle regole. Cambiarle in corsa comporta inevitabilmente un vantaggio indebito per l’uno, un danno ingiusto per l’altro. E di sicuro incide – poco o molto non importa – sull’esito. Questo viola molteplici norme della Costituzione. Non solo, com’è ovvio, gli artt. 2 e 3, ma soprattutto l’art. 48 Cost., perché il voto dell’elettore è davvero eguale solo se l’offerta politica in ordine alla quale il diritto si esercita è stata avanzata nel pieno rispetto della par condicio. Ed anche l’art. 51 Cost., perché viene distorta la condizione di parità nell’accesso alla carica elettiva da parte dei candidati. Ancor più l’art. 49, perché si nega il diritto dei cittadini a partecipare “con metodo democratico” alla politica nazionale. Proprio in quel metodo troviamo un connotato indispensabile della partecipazione. Ed è per realizzare anzitutto il fine ultimo dell’art. 49 Cost. che si presentano liste e si compete per il consenso. Ma dov’è il metodo democratico se si usa la clava del decreto-legge per ribattere la palla nell’altra metà del campo? Cosa c’è di democratico se si ricorre alla forza della legge per cambiare le regole a proprio vantaggio, per cancellare gli effetti negativi dei propri errori politici, della propria incapacità di sedare la rissa di tutti contro tutti e formare per tempo le liste secondo quanto prescritto?
Un segnale drammaticamente negativo. Che intanto getta nella precarietà il risultato elettorale, perché rimarrà probabilmente possibile far valere i vizi davanti alla Corte costituzionale. Ma forse per un costituzionalista conta ancor più la prova – e non è certo la prima - che cede uno dei pilastri della Costituzione come armatura dei diritti e delle libertà. Non a caso nella Parte I della Costituzione è centrale la riserva di legge. Non a caso troviamo diritti e libertà presidiati da quella riserva. La ragione la vediamo nella legge come massima espressione di partecipazione democratica. Ma nella confusione politica e istituzionale del nostro tempo e nel bipolarismo coatto con la gruccia del maggioritario in cui viviamo la legge esprime i numeri, ma non la sostanza di una partecipazione democratica. Nella legge non ci siamo tutti, ma solo quelli che hanno i numeri utili nell’assemblea elettiva, magari per consenso gonfiato da un premio di maggioranza. Ancor più quando si tratta di decreti-legge.
Pensavamo di aver toccato il fondo con escort, cacicchi, amici, mogli o segretari particolari in corsa per un seggio. Non sapevamo ancora degli spuntini. Come anche avevamo già sentito di leggi-truffa in materia elettorale. Da oggi abbiamo anche il decreto-truffa.
Il manifesto
(7 marzo 2010)
*Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II"
VOI SIETE QUI
Questione d’interpretazione
di Alessandro Robecchi
Prima di applicare il settimo comandamento, leggete bene il decreto interpretativo. Serve un decreto interpretativo per gli appalti in Abruzzo, per le belle scopate di palazzo Grazioli, per lo schiavismo a Rosarno, per i senatori del PdL eletti dalla ‘ndrangheta. Per il coro di Ratisbona e per i gay a tassametro del Vaticano. Per Maroni che dice “è stata data un’nterpretazione autentica della legge”, urge un decreto interpretativo che lo faccia sembrare una persona seria. Il decreto interpretativo che rende regolari i fuorigioco del Milan dovrà essere rapidissimo, mica si può restare allo stadio al freddo due giorni ad aspettare il Tar. Con un buon decreto interpretativo la bella Noemi avrebbe avuto 18 anni già a sedici e mezzo. Formalmente ineccepibile il decreto interpretativo con cui Minzolini ha trasformato un colpevole prescritto in un innocente. Un decreto interpretativo potrebbe far sembrare un golpe una specie di trionfo della democrazia, o trasformare la corruzione in soluzione all’emergenza.
Il disprezzo della legge, l’arroganza del più forte, la dittatura soft, la censura e i non allineati ridotti al silenzio, non c’è nulla che non possa risolversi con un decreto interpretativo. Probabile che il ministro della difesa di una democrazia occidentale, che comanda parà e carri armati, che si dice “disposto a tutto” non venga allontanato con vergogna soltanto grazie a un decreto interpretativo. Le nostre speranze, i nostri diritti, la nostra libertà, le nostre regole, le norme, i doveri, sono da oggi variabili, modificabili con decreto interpretativo, le nostre vite stesse sono interpretabili a seconda delle necessità del regime, il nostro futuro e la nostra dignità sono interpretabili a piacere e non servono nemmeno la forestale, i servizi segreti, l’aviazione, le camicie verdi, le ronde, il poliziotti del G8 di Genova. Una grande festa del decreto interpretativo si terrà ogni anno, basta una telefonata di Denis Verdini. Buffet a cura del genero di Gianni Letta. Napolitano firma. Avete mica un passaporto francese da prestarmi?
Il manifesto
(7 marzo 2010)
Umiliati gli onesti
Il partito del fare e del malaffare, del fare un po' come gli pare - dell'abuso e del condono, del sopruso e del perdono, della cricca che sono - ha digrignato i denti e sfoderato braccia tese, ha minacciato mostrando la bava, «non ci fermeremo davanti a niente», poi ha fatto la voce sottile e il pianto da vittima quando del danno era artefice. Ha infine preteso, battendo i pugni, di cambiare le regole in corsa. Prima della Costituzione (articolo 72, nessun decreto in materia elettorale) ha infranto, gettandolo a terra tra risa di disprezzo, quel che resta del senso dello Stato. Ha insultato milioni di persone per bene che vivono ogni giorno nel rispetto delle regole pagandone il prezzo. Li ha - ci ha - resi ridicoli, sudditi a capo chino di un tiranno. Costoro, le persone per bene, sono furibonde ed hanno ragione: chi sta in fila a affoga tra le carte per un permesso di soggiorno, un'iscrizione a scuola, un concorso, un bollo scaduto, il rinnovo di un contratto, una concessione edilizia avrà da oggi la possibilità di sanare per decreto irregolarità burocratiche e ritardi? Certo che no. Eppure ciascuna di queste regole da rispettare corrisponde ad un diritto. Il diritto alla cittadinanza, all'istruzione, al lavoro, alla casa. Si potrà dire, da domani, che dovendo scegliere tra un ritardo nell'iscrizione a scuola e il diritto ad andarci prevale il secondo? No. Chi ritarda di mezz'ora sarà escluso. L'elasticità vale solo per chi può imporla con l'abuso. Dunque gli italiani onesti sono furenti: se fosse accaduto alla sinistra avremmo avuto un decreto del governo? Difficile. Pagheranno una multa i ritardatari come si paga la mora sulle bollette? Non sembra proprio. La regola vale per il deboli, l'arbitrio per i forti. Forse Milioni quello del panino è stato radiato dal Pdl per manifesta incompetenza? No, lo si è visto anzi in queste notti dalle parti di Palazzo Chigi. Dunque era un disegno, l'ennesima furbizia per alzare fumo? Che triste giorno, il 5 marzo. Un nuovo 8 settembre, scriveva ieri Alfredo Reichlin. «Fino a che punto siamo consapevoli che l'Italia è arrivata all'appuntamento con la storia?». Ecco, lo siamo?
Il presidente della Repubblica ha agito, si deduce dalle sue parole, secondo la logica del male minore: tra i due beni - il rispetto delle norme e il diritto dei cittadini a votare - ha scelto il secondo. Una scelta di quelle in cui si perde comunque. L'astuta truffa - il quesito del premier - era questo: o la democrazia o la legge. Ma la democrazia e la legge sono la stessa cosa, solo la banda di governo crede di no. Napolitano ha agito anche per timore delle conseguenze possibili: chiede che «tutti si rendano conto» dell'acuirsi di tensioni «non solo politiche ma istituzionali». Abbiamo titolato, l'altroieri, «Gulp di stato». Oggi possiamo dirlo in chiaro: colpo di stato, è questo il pericolo. Siamo sull'orlo e adesso tocca a noi. Spiazziamoli. Non sbagliamo la mira. Non cadiamo nel tranello, di nuovo, di assegnare ad altri - peggio che mai ad uno solo - compiti, colpe, responsabilità. La storia è nelle nostre mani e si cambia in un solo modo: non coi decreti ma col voto. Spiazziamoli, sì. Scendiamo in piazza e saremo noi a umiliarli: col voto delle persone oneste. Sono o no la maggioranza del Paese, annidate in tutti i partiti? Vediamo. Contiamole.
(7 marzo 2010)
OPINIONI
Il governo, la forma e la sostanza
BARBARA SPINELLI
Fa una certa impressione rileggere gli articoli che Norberto Bobbio scrisse nelle pagine di questo giornale, tra il 1994 e il 1996, sulla forza politica edificata da Berlusconi a seguito di Tangentopoli: sull’inconsistenza dei club e circoli da lui creati, sulla loro vacuità, sullo spregio delle forme, tanto fieramente vantato.
Sulla violenza protestante della sua ribellione a liturgie e convenzioni della democrazia rappresentativa, vorremmo aggiungere: una violenza di tipo russo, alla Bakunin, che ricorda la vastità informe (la gestaltlose Weite) criticata nel 1923 dal giurista Carl Schmitt.
Fa impressione rivedere quei testi perché molte storture sono le stesse. Non furono curate allora per il semplice fatto che erano ritenute virtù nuove, e adesso la stortura s’è estesa divenendo non solo questione di codice penale ma di riti elettorali prima trasgrediti, poi mal rappezzati con leggi ad hoc. Quel che Bobbio rimproverava ai club era in sostanza questo: il disdegno delle regole, tanto più indispensabili nel regime democratico, che al popolo affida un’amplissima sovranità.
E l’ideazione di una forza non solo dipendente da un’unica persona («Un partito a disciplina militare, anzi aziendale», così Dell’Utri nel novembre ’94), ma priva di statuti, progetti, chiarezza innanzitutto sui finanziamenti.
Bobbio era pienamente consapevole del discredito che la corruzione rivelata da Mani Pulite aveva inflitto ai partiti, annerendoli tutti mortalmente e rendendo ancor più pertinente il termine partitocrazia.
Tuttavia i partiti restavano essenziali per la democrazia, secondo lui, perché senza partiti il potere si fa opaco, arbitrario, imprevedibile. Il non-partito propagandato da Forza Italia minacciava d’essere un’accozzaglia senza storia, una «rete di gruppi semiclandestini»: incompatibile con la «visibilità del potere» che «distingue la democrazia dalle dittature» (Stampa, 3-7-94). La pura negazione (non-partito) non diceva nulla perché infinite sono le possibilità da essa racchiuse: «Se dico “non bianco” comprendo in queste parole tutti i colori possibili e immaginabili (...). La democrazia rifiuta il potere che si nasconde», dirà il filosofo in un’intervista a Giancarlo Bosetti nel 2001. Il non-bianco equivale all’amorfa vastità descritta da Schmitt.
Agli esordi anche i professionisti della politica erano invisi, e lo sono a tutt’oggi: gli uomini che si dedicano alla causa pubblica e ne vivono. Come nel film di Elia Kazan, meglio era scovare un Volto nella Folla, trasformarlo in talentuoso comunicatore, e la fabbrica del consenso partiva. Già nel 1957, Kazan crea il prototipo del manipolatore nichilista delle folle, eterno homo ridens, dandogli il nome di Lonesome Rhodes, il «Solitario» venuto dal nulla o meglio dalla galera. Di uomini così era fatto il non-partito escogitato da Mediaset, e lo è tuttora. Tuttora si avvale dei consigli di Previti, condannato definitivamente per corruzione in atti giudiziari. O di Verdini, indagato per corruzione.
Il politico di professione è considerato da costoro parassita, incapace di fare. La cerchia attorno a Berlusconi è piena di uomini che agiscono al riparo della politica e della legge: imprenditori o avvocati (soprattutto avvocati del Capo). Lo stesso Stato è sospettato, se non li serve: tanto che la sede del governo non è più Palazzo Chigi ma il domicilio del Capo a Palazzo Grazioli. Bobbio dà a questo fantasmatico potere il nome di partito personale di massa, e nel ’94 chiede al suo leader precisazioni: se il suo non è un partito cos’è, esattamente? Come s’è finanziato? Cosa farà per dare al proprio potere visibilità: dunque forme, regole rispettose del codice penale e di procedure elettorali che non avvantaggino i più forti o ricchi? Si vede in questi giorni come i riti, le sequenze formali, le procedure, siano sviliti e lisi.
Il disastro delle liste presentate tardi o malamente nel Lazio e in Lombardia conferma difetti congeniti, non sanati dal partito creato con Alleanza nazionale. All’origine: una politica al tempo stesso autoritaria e informe al punto di smottare di continuo come la terra semovente di Maierato in Calabria. Diciotto anni sono passati da Mani Pulite e i club di Mediaset hanno per questa via privatizzato la politica, screditandola agli occhi degli italiani e convincendo anch’essi che il privato è tutto, il pubblico niente. Si ascolti Verdini, sull’Espresso del 23 maggio 2008. All’obiezione sul conflitto d’interessi replica, ardimentoso: «Il conflitto d’interessi non interessa più a nessuno. Neanche a chi non ha votato il Cavaliere. Diamo cento euro in più nella busta paga, detassiamo gli straordinari, favoriamo i premi aziendali senza tassazione e poi vediamo. Alla fine, la gente fa i conti con la propria famiglia».
La famiglia, l’affare, il favore chiesto per figli, mogli, cognati: son tutte cose che vengono prima, e se farsi strada affatica ci si serve della politica come di una scatola d’utensili cui si attinge per proteggersi dalla legge e aggirarla. Dell’Utri lo ammette: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera» (intervista a Beatrice Borromeo, il Fatto Quotidiano 10 febbraio 2010. La dichiarazione non è stata smentita né ha fatto rumore).
Bobbio disse ancora che il berlusconismo è «una sorta di autobiografia della nazione». Autobiografia non solo collettiva ma di ciascuno di noi: cittadini evasori, onesti, non per ultimo cittadini-giornalisti. Un giorno o l’altro dovremo domandarci ad esempio, nelle redazioni, come mai inondiamo i lettori di pagine di intercettazioni che nulla c’entrano con reati penalmente perseguibili. Come mai riceviamo dai giudici 20.000 pagine di telefonate, solo in parte cruciali. Se davvero si difende il diritto degli inquirenti a tutte le intercettazioni utili, per render visibili crimini e poteri nascosti, vale la meta mettere un muro fra le intercettazioni rilevanti e quelle concernenti il privato come le scelte sessuali, a meno che le prestazioni non avvengano in cambio di favori illeciti. Anche questo innalzare muri era pensiero dominante, in Bobbio. Citando Michael Walzer ripeteva: «Il liberalismo è un universo di “mura”, ciascuna delle quali crea una nuova libertà». Il lettore non capisce più nulla, alle prese con faldoni di intercettazioni, e rischia una nausea senza più indignazione.
Il disprezzo delle forme e delle leggi caratterizza ieri come oggi il berlusconismo (con l’eccezione di Fini, da qualche tempo) e sempre ha generato regimi carismatici autoritari. Fu l’estrema destra francese, negli Anni 30, ad anteporre il «Paese reale» (o sostanziale) al «Paese legale».
Anch’essa formò Leghe, non partiti. Il partito è una parte, non rappresenta un’interezza, per natura si dà un limite. Nella stessa trappola dell’informe cade oggi il governo, e il vecchio istinto del non-partito fa ritorno. Con disinvoltura ineguagliata Schifani, di fronte all’intrico delle liste, si augura «che venga garantito il diritto di voto a tutti e che la sostanza prevalga sulla forma». Augurio comprensibile il primo, pernicioso il secondo.
Il rigetto delle forme va di pari passo con il rifiuto della legalità, con il primato dato ai diritti privati o corporativi sugli obblighi comuni, con la separazione dei poteri. Si combina alla sfrontatezza con cui l’homo ridens di Kazan, sicuro com’è del proprio talento, si sente legibus solutus, sciolto dai vincoli delle leggi. Talmente sciolto che Berlusconi non esita a dichiarare, nel novembre 1994: «Chi è scelto dalla gente è come unto dal Signore». La Chiesa non ebbe mai alcunché da dire. Anche questa domanda, che Bobbio pose al Vaticano, resta senza risposta.
Tanta sicurezza può dare alla testa. Se ce ne fosse un po’ di meno, se non continuasse la pratica dei «gruppi semiclandestini», si potrebbe chiedere semplicemente scusa agli italiani e alle istituzioni, per la cialtrona gestione delle liste. Aiuterebbe. Ma forse, come scrive Gian Enrico Rusconi sulla Stampa, sognare non ci è dato.
(7 marzo 2010)
L'ABUSO DI POTERE
EZIO MAURO
Poiché «la sostanza deve prevalere sulla forma», secondo il nuovo comandamento costituzionale berlusconiano recitato dal presidente del Senato Schifani, il governo della Repubblica ha sanato ieri con una legge di comodo gli errori commessi dal Pdl, che avevano portato all'estromissione di Formigoni dalle elezioni in Lombardia e della lista berlusconiana a Roma.
Questo gesto unilaterale compiuto dalla maggioranza a tutela di se stessa può sembrare una prova di forza. È invece la conferma di un' atrofia politica di base e di vertice, che somma un vizio finale alle colpe iniziali, rivelando il vero volto che nei sistemi democratici assume la forza quando è senza politica, e fuori dalle regole che la disciplinano e la governano: l'abuso di potere.
Non c'è alcun dubbio che una competizione elettorale senza il principale partito è anomala, e il problema riguarda tutti i concorrenti (non solo gli esclusi), perché riguarda il sistema intero e il diritto dei cittadini di poter esercitare compiutamente la loro scelta, con tutte le parti in campo. Ma se il problema interpella tutti, le responsabilità di questa anomalia - che in forme diverse si è verificata a Roma e a Milano, con firme false e termini per la presentazione delle liste non rispettati - sono di qualcuno che ha un nome preciso: il Pdl. Non c'entra nulla il "comunismo", questa volta,e nemmeno c' entrano le "toghe rosse". È lo sfascio della destra che produce il suo disastro, perché quando la locomotiva della leadership non funziona più, e non produce politica, tutti i vagoni si arrestano, o deragliano senza guida.
Ora chi chiede a tutti i concorrenti di farsi carico del problema nato in Lombardia e nel Lazio, con un gesto di responsabilità politica condivisa nei confronti dell' avversario e del sistema, non ha mai nemmeno pensato di assumersi preliminarmente le sue responsabilità, ammettendo gli errori commessi, chiamandoli per nome, prendendosi la colpa. Non è venuto in mente al leader di dichiarare che si attendono le pronunce delle Corti d' Appello e dei Tar chiamati a dirimere con urgenza i due casi, e deputati a farlo, nella normalità democratica e istituzionale, e nella separazione dei poteri.
Nulla di tutto questo. Soltanto lo scarico delle responsabilità sugli altri, la tentazione della piazza, la forzatura al Quirinale, l' altra notte, con il Presidente Napolitano, nel tentativo di varare un decreto che intervenisse direttamente sulla normativa elettorale, riaprendo i termini ad uso e consumo esclusivo del partito berlusconiano. Quando il Capo dello Stato si è reso indisponibile a questa ipotesi, la minaccia immediata di due Consigli dei ministri, convocati e sconvocati tra la notte di giovedì e la mattinata di ieri. Una giornata in affanno, per il Premier, anche per il fermo "no" che ogni sua ipotesi di forzatura trovava da parte dell' opposizione, da Bersani a Di Pietro a Casini. Infine, l' abuso notturno del decreto, mascherato dalla forma "interpretativa", che va a leggere a posteriori nella mente del ministro le intenzioni di quando dettò le norme elettorali di procedura, ritagliando a piacere una soluzione su misura per gli errori commessi dalla destra a Roma e a Milano.
Le norme elettorali sono materia condivisa e indisponibile per una sola parte in causa, soprattutto quando opera a palese vantaggio di se stessa, sotto gli occhi di tutti, e per rimediare a quegli stessi suoi errori che violando le regole l' hanno penalizzata nella corsa al voto. Intervenire da soli, ex post, con norme retroattive, a meno di un mese dalla scadenza elettorale, scrivendo decreti che ricalcano clamorosamente gli sbagli commessi per cancellarli, è un precedente senza precedenti, che peserà nel futuro della Repubblica, così come pesa oggi nel logoramento delle normative, nella relativizzazione delle procedure, nella discrezionalità degli abusi, sanati a vantaggio del più forte. In una parola, questo abuso pesa sulla democrazia quotidiana che fissa la misura di se stessa - a tutela di ognuno - in passaggi procedurali che valgono per tutti.
Al Presidente del Consiglio non è nemmeno venuto in mente di consultare direttamente le opposizioni. Di chiedere un incontro congiunto con i suoi capi, di presentarsi dicendo semplicemente la verità, e cioè denunciando gli errori compiuti dal suo schieramento, assumendosene interamente la responsabilità come dovrebbe fare un vero leader, chiedendo se esiste la possibilità di un percorso condiviso di comune responsabilità per rendere la competizione completa e reale dovunque, nell' interesse primario dei cittadini elettori. Tutto questo, che dovrebbe essere un elementare dovere istituzionale e politico, è tuttavia inconcepibile per una leadership eroica e monumentale, che non ammette errori propri ma solo soprusi altrui, mentre prepara abusi quotidiani.
Quest'ultimo, con la falsa furbizia del decreto "interpretativo" (la legge da oggi si applica solo per gli avversari, mentre per noi stessi la si può "interpretare", accomodandola), completa culturalmente la lunga collana di leggi ad personam, che tutelano la sacralità intoccabile del leader, sottraendolo non solo alla giustizia ma all' uguaglianza con suoi concittadini. Anzi, è l' anello mancante, che collega la lunga serie di normative ad personam al sistema stesso, rendendolo in solido oggetto dell' arbitrio del potere: persino nelle regole più neutre, come quelle elettorali, scritte a garanzia soltanto e soprattutto della regolarità del momento supremo in cui si vota.
Nella concezione psicofisica del potere berlusconiano, la prova di forza rassicura il Premier, dandogli l' illusione di crearsi con le sue mani la sovranità stessa, fuori da ogni concerto con l' opposizione, da ogni limite di legge, da ogni controllo del Quirinale. Un' autorassicurazione che nasce dal prevalere della cosiddetta "democrazia sostanziale" rispetto a quella forma stessa della democrazia che sono le regole, la trasparenza e le procedure, vilipese a cavilli e burocrazia. Emerge dallo scontro, secondo il Premier, l' irriducibilità del potere supremo, che rompe ogni barriera di consuetudine e di norma se soltanto lo ostacolano, e non importa se la colpa è sua: anzi, da tutto ciò trae l' occasione di fondare un nuovo ordine di fatto, che basa sullo stato d' eccezione, fondamento vero della sovranità di destra.
Ma c'è, invece, qualcosa di crepuscolare e di notturno in questa leadership affannosa e affannata che usa la politica solo per derogare da norme che non sa interpretare nella regolarità istituzionale, mentre è costretta a piegarle su misura della sua necessità cogente e contingente, a misura di una miseria politica e istituzionale che forse non ha precedenti: e non può trovare complici. Le opposizioni, tutte, lo hanno capito. Molto semplicemente, un leader e uno schieramento che hanno bisogno di un abuso di potere in forma di decreto anche per poter continuare a fare politica, non possono avere un futuro.
(6 marzo 2010)
IL COMMENTO
Quel pasticciaccio di Palazzo Chigi un precedente contro le regole
di EUGENIO SCALFARI
Ci sono, nel decreto legge varato ieri notte dal governo, un pregio e una quantità di difetti. Ezio Mauro, nel suo editoriale di ieri ne ha già dato conto. Proseguirò sulla stessa strada da lui aperta e nelle considerazioni svolte dall'ex presidente della Corte Costituzionale, Valerio Onida. Ma c'è anche e soprattutto un indirizzo politico che emerge da quel decreto, che suscita grandissima preoccupazione.
Il pregio è d'aver dato al maggior partito di maggioranza e ai suoi candidati la possibilità di partecipare al voto regionale in Lombardia e nel Lazio, così da esercitare il diritto elettorale attivo e passivo. Quest'esigenza era stata sottolineata non solo dagli interessati ma anche dai partiti dell'opposizione. Bersani, Di Pietro, Casini, avevano dichiarato nei giorni scorsi di voler vincere disputando la loro eventuale vittoria "sul campo e non a tavolino". Il decreto consente che questo avvenga ed infatti avverrà se i tribunali amministrativi della Lombardia e del Lazio ne ravviseranno le condizioni sulla base del decreto già operativo nel momento in cui quei due tribunali si pronunceranno. Spetta infatti a loro - e non al decreto - stabilire se le prescrizioni previste saranno state correttamente adempiute.
I difetti - che meglio possono essere definiti vere e proprie prevaricazioni - sono molteplici. Alcuni di natura politica, altri di natura costituzionale. Cominciamo da questi ultimi. Esiste una legge del 1988 che vieta ogni decretazione in materia elettorale.
Ora è chiaro che un decreto interpretativo (come è stato definito quello di ieri) non può contravvenire ad una legge vigente e sostanzialmente abrogarla senza con ciò produrre un'innovazione. Cessa pertanto la natura interpretativa che risulta essere soltanto un'appiccicatura mistificante, e riappare invece un intervento che modifica anzi contraddice norme vigenti sulla stessa materia.
C'è un'altra questione assai delicata: l'intera materia elettorale riguardante le Regioni è di spettanza delle Regioni stesse. Le stesse leggi elettorali in materia di procedura differiscono in parecchi punti l'una d'altra. È quindi molto dubbio che il governo nazionale possa entrare con una sua interpretazione su leggi che non sono interamente di sua diretta spettanza. Interpretazioni di tal genere spetterebbero ai consigli regionali i quali tuttavia sono scaduti in attesa del rinnovo elettorale.
Su tutte queste questioni saranno certamente proposti ricorsi e quesiti alla Corte. Ove questa li accogliesse mi domando quale sarebbe la validità e gli esiti degli scrutini del 29 marzo. Il Presidente della Repubblica aveva giustamente definito "un pasticcio" la situazione venutasi a creare. Purtroppo il decreto di ieri non risolve affatto il pasticcio anzi per molti aspetti lo aggrava.
Quanto alla scorrettezza politica, la più grave riguarda la mancata condivisione della sanatoria decretata dal governo con le forze d'opposizione. Il Presidente della Repubblica ne aveva ripetutamente sottolineato l'opportunità ed anzi aveva condizionato ad esso ogni statuizione. Il suo rifiuto dell'altro ieri ad autorizzare un decreto che modificasse le procedure elettorali ad elezioni in corso era motivato anche da questo.
Non solo la condivisione è mancata ma il premier ed i suoi collaboratori senza eccezione alcuna hanno incolpato l'opposizione d'aver reso impossibile l'esercizio del diritto elettorale. In particolare questa responsabilità dell'opposizione si sarebbe verificata a Roma, dove militanti radicali e di altri partiti avrebbero fisicamente bloccato i rappresentanti della lista Pdl impedendo loro di varcare la soglia dell'ufficio elettorale del tribunale.
Questa circostanza, sulla quale i radicali hanno già sollevato denuncia di calunnia, dovrà comunque esser provata dinanzi al Tar del Lazio nell'udienza di domani. È comunque grave un'inversione così macroscopica delle responsabilità, sulla base della quale i colpevoli vengono condonati e gli innocenti puniti.
* * *
Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha definito il decreto del governo come "il male minore", distinguendosi ancora una volta con queste parole dalla linea di Berlusconi. Ma nel caso in questione Fini ha sbagliato per difetto. Il decreto interpretativo non è un male minore. È un male identico se non addirittura peggiore d'un decreto innovativo.
Anzitutto non si può dare un'interpretazione diversa e così estensiva ad una procedura elettorale con effetto retroattivo. L'interpretazione, se retroattiva, diventa infatti un vero e proprio condono ed un condono è quanto di più innovativo vi sia dal punto di vista legislativo.
Ma c'è di peggio. Poiché nel diritto pubblico un precedente produce una variante valida anche per il futuro, questo precedente potrà essere invocato d'ora in poi per condonare qualunque irregolarità procedurale a discrezione del governo. Non bastava il sistema delle ordinanze, immediatamente esecutive e sottratte ad ogni vaglio preventivo di costituzionalità; ad esso si aggiungerà d'ora in poi il decreto interpretativo facendo diventare norma l'aberrante principio che la sostanza prevale sempre sulla forma, come dichiarò pochi giorni fa il presidente del Senato, Schifani, dando espressione impudentemente esplicita ad un principio eversivo della legalità. Esiste nella nostra lingua la parola "sprocedato" per definire una persona scorretta che si comporta in modo contrario ai suoi doveri. La esse è privativa, sprocedato significa appunto "senza procedura".
E bene, stabilire la prevalenza della sostanza sulla forma in materia di procedura non ha altra conseguenza che legittimare l'illegalità permanente nella vita pubblica, o meglio: far coincidere la legalità con il volere del capo dell'esecutivo, cioè stabilire la legittimità dell'assolutismo.
Un decreto interpretativo con potere retroattivo realizza questo gravissimo precedente. Non a caso Berlusconi lo ha preteso facendo balenare ripetutamente la minaccia di sollevare dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzioni tra il governo e il Capo dello Stato. Gianni Letta è stato il "missus dominicus" di questo vero e proprio ultimatum e - a quanto si sa - l'ha fatto valere con inusitata decisione. Questi gentiluomini del Papa ci stanno dando molte sorprese da qualche giorno in qua sui più vari terreni. Un Letta in armatura e lanciato a passo di carica non l'avevamo ancora visto anche se da tempo sotto il suo guanto appariva sempre più spesso l'artiglio di ferro.
Male minore, presidente Fini? Purtroppo non sembra.
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Che fare? Chi ne ha titolo rappresenti al Tar i problemi che sono di sua competenza per quanto riguarda il giudizio di applicazione del decreto. (Il Tar lombardo ha già concesso a Formigoni la sospensiva dell'ordinanza dell'Ufficio elettorale e deciderà definitivamente nei prossimi giorni). E chi ha titolo sollevi i problemi di costituzionalità dinanzi alla Corte.
Le sortite "sprocedate" di Di Pietro nei confronti del presidente della Repubblica sono da respingere senza se e senza ma. Nella situazione data il Capo dello Stato è stato messo in condizioni di necessità e ha dovuto dare la precedenza all'esercizio del diritto elettorale, riuscendo anche a far togliere alcune disposizioni transitorie che riservavano l'applicazione del decreto alle sole Regioni di Lombardia e Lazio. Si sarebbe in quel caso creata una diseguaglianza tra gli elettori di fronte alla legge recando così un vulnus costituzionale di palese evidenza. Resta il pasticcio ed un precedente che accelera la trasformazione dello Stato dalle regole all'arbitrio del Sovrano. Gli elettori giudicheranno anzitutto i candidati e i programmi da essi sostenuti. Ma sarà bene che riflettano anche su questi aspetti politici di involuzione democratica. Non sarà un referendum pro o contro Berlusconi, ma certamente l'occasione per scegliere in favore di leggi valide per tutti o in favore delle "cricche" che hanno occupato le istituzioni usandole a favore dei loro privatissimi interessi. L'occasione per cambiare questo andazzo arriverà tra venti giorni. Errare è umano, ma perseverare nell'errore non lo sarebbe.
(7 marzo 2010)
RispondiEliminaGrazie Frank. Mi conforta sapere che esistano i Michele Serra, gli Alessandro Robecchi, le Concita De Gregorio. E mi conforta sapere che Frank c'e'.
Artemisia
Artemisia, l'accostamento a simili firme mi lusinga. :-) Troppo buona :-)
RispondiEliminaE allora se il conforto c'è non demordere, perchè non potremo mai essere come il papi e la sua cricca, elettori compresi.
Un caro abbraccio.
Venderemo cara la pelle, Frank!
RispondiEliminaArtemisia