domenica 21 marzo 2010

Il Paese degli Acchiappacitrulli




A sinistra, piazza San Giovanni l'ultimo Primo Maggio. A destra, ieri alle 17,35 mentre parlava Berlusconi. Dallo stesso balcone di via Emanuele Filiberto



 



Foto bacheca di Alessandro Gilioli
 





C’è davvero poco da aggiungere agli articoli che ho scelto. Perché riescono ad esprimere con disincanto e fermezza (Curzio Maltese) quello che è accaduto ieri a Roma, in una piazza che, lo testimonia eloquentemente la foto postata su Facebook da Alessandro Gilioli, ha fatto registrare un flop clamoroso. Mentre gli altri due pezzi commentano anche quella trasformazione catastrofica che ha subìto l’Italia dalla deleteria “discesa in campo” del papi. Sempre espressi con quel disincanto e fermezza (ancora Curzio Maltese) su “il Venerdì”, assieme ad un rigore analitico che ha pure il pregio della sintesi efficace (Piero Ignazi su “L’espresso” attualmente in edicola).
Personalmente più che da disincanto, fermezza, rigore analitico e sintesi, sono attraversato da incredulità (ha promesso di sconfiggere il cancro: papi-sciamano) e irritazione (eufemismo) di fronte alla dabbenaggine dei miei connazionali che, ancora ,non riescono a focalizzare che il re, l’imperatore, il sultano è nudo e il suo ammannire frottole ormai anacronistico e grottesco.
Emanava anche un fetore razzista da quel palco, una puzza nauseabonda, mentre nell’aretino legaioli xenofobi distribuivano sapone necessario per lavarsi le mani dopo aver toccato un migrante.




21 marzo 2010


 






COME UN SET TELEVISIVO
CURZIO MALTESE
 



Bisognava essere a Piazza San Giovanni per capire quanto Berlusconi sia ancora un mago nel trasformare tutto in televisione. Compreso il luogo più fisico della politica, la piazza. Dal vivo, la manifestazione di ieri è stata un fiasco. Almeno al confronto con quella davvero imponente del 2006, quando «in questa piazza è nato il Pdl». La piazza e il leader sono gli stessi. Ma sono entrambi molto invecchiati.
Qui ci saranno un centinaio di migliaia di persone, quasi tutti anziani, carichi di gadget come un pubblico di figuranti o una gita aziendale, con i cartelli prestampati dall’ufficio marketing, non uno slogan o un coro spontanei. Una folla che fatica a riempire una piazza recintata con astuzia, truccata come un set per tappare i buchi. Ma poi uno torna a casa, accende la scatola magica e tutto è perfetto. I pochi sembrano tanti, la selva di bandiere maschera i vuoti, il Berlusconi affaticato del retropalco pare un sessantenne in forma, come da manifesto annata 1994, gli stanchi «sì» e «no» esalati dalla piazza in risposta alle domande retoriche del leader suonano rombi di tuono. Sullo sfondo sfavilla, con un trucco di ripresa, lo slogan tolto di peso dai dialoghi di una telenovela brasiliana: «L’amore vince sempre sull’invidia e l’odio». Del resto, anche il (più) ricco piange, sul palco. Soltanto Umberto Bossi regala una nota stonata e quindi autentica al copione, inciampando sulla passerella e nelle frasi.
Lo show deve comunque andare avanti e il pomeriggio di piazza San Giovanni diventa una piccola metafora di quanto accade da quindici anni, l’uomo che trasforma tutto in televisione è riuscito a ridurre la politica e le istituzioni a talk show, i vertici internazionali in gare di barzellette, il governo in un festival, i vecchi problemi in un quiz, perfino i terremoti in un set. Oggi progetta di rendere l’elezione del presidente della Repubblica divertente come il Grande Fratello, magari grazie al televoto da casa. Ma intanto bisogna vedere quanto regge il trucco.
Nel retropalco di piazza San Giovanni, non andato in onda, le facce di ministri e candidati governatori erano meno sorridenti di quelle poi indossate davanti alle telecamere, in occasione di una specie di giuramento di valvassori. Si respira la paura dell’astensionismo di destra, di una brutta batosta alle regionali. Il premier cerca di rassicurare, sostiene come i bravi conduttori di show che comunque vada, sarà un successo. «Basterà prendere una regione in più di Lombardia e Veneto». Ma due mesi fa, sondaggi alla mano, il progetto era di ribaltare l’undici a due del 2005. In poche settimane la favola berlusconiana ha smarrito la trama, il super eroe Bertolaso ha perso i suoi super poteri, il «miracolo abruzzese» ha svelato la solita puzza di appalti truffa, gli uomini del fare si sono rivelati incapaci di compilare liste elettorali e per le strade di Napoli sta tornando a crescere la spazzatura. Più di tutto, la crisi economica, già sconfitta dal governo molte puntate fa, continua inspiegabilmente a occupare la scena della vita reale. Meno male che «non esiste», come «non esiste una nuova Tangentopoli». Meno male che «siamo un milione» a cantare «meno male che Silvio c’è» e stavolta i telegiornali non s’affrettano a decimare le cifre.
(21 marzo 2010)
 







 






Milioni di impuniti come l’impunito Milioni
Il fatto è che milioni d’italiani credono di essere Berlusconi, ma sono soltanto Milioni. Intesi anche come Alfredo Milioni, il presidente di circoscrizione romano che non ha presentato le liste del Pdl in tempo perché, dice, s’era fermato a mangiare un panino. Quindi ha presentato ricorso, ma ha sbagliato la data del ricorso. E allora è andato a piangere dai capi, che hanno convinto il governo a emanare un decreto, ma quelli hanno sbagliato pure il decreto. Ma non fa nulla, perché è comunque colpa dei giudici comunisti. Così, invece di cacciarlo a pedate dal partito, Berlusconi ha eletto Milioni a eroe della lotta al comunismo. Chissà, un giorno forse gli faranno anche una statua equestre in centro con lo sguardo verso l’orizzonte, una lista in mano e uno sfilatino sotto il braccio.
Il punto è proprio questo: perché Berlusconi esalta Milioni e non lo caccia? In realtà, aveva provato. Sulle prime, il premier aveva tratto dal pasticcio delle liste la conclusione più logica, la stessa tratta da Bossi e Fini. Ovvero che nel Pdl vi fossero troppi incapaci miracolati, arruffoni e arraffoni. Ma poi è arrivata la ribellione del popolo a questa semplice verità. I sondaggi hanno certificato un crollo dei consensi. Gli elettori di Berlusconi non vogliono spiegazioni sensate, vogliono il sangue, le teorie del complotto. E Berlusconi, che di questa Italia è il burattinaio ma ancor più il burattino, ha fatto una spettacolare giravolta.

La colpa è, come sempre, delle toghe rosse. Milioni di Milioni vogliono così. In concreto essi s’identificano assai più in Alfredo che in Silvio. Al padrone non chiedono autocritiche, argomenti seri, ma una protezione, uno scudo totale per la propria incapacità di essere cittadini, l’ignoranza delle regole, il pressapochismo furbastro, il disprezzo per la legalità, la voglia matta di rimanere impuniti. Impuniti se si presentano in ritardo, se non pagano le tasse, se costruiscono un abuso sull’abuso dell’anno precedente, se passano col rosso.
Milioni d’impuniti, come l’impunito Milioni. Tanto è colpa dei comunisti. E in ogni caso i comunisti ne hanno fatte di molto peggiori. Vuoi mettere i gulag con la sfiga di tirare sotto questo disgraziato mentre attraversava sulle strisce? Vogliamo paragonare le purghe di Stalin con questa mazzetta che mi sono ritrovato in tasca, chissà come, magari è un complotto? I Berlusconi passano. E questo magari passerà in fretta. Ma rimarranno milioni d’italiani incivili, allergici alla verità, arruffoni e arraffoni, eternamente fascisti.
(19 marzo 2010)
 





Il ministero dell'amore
Piero Ignazi

Odio e Amore. Bene e Male. Berlusconi agisce su potenti leve pre-politiche per ottenere consenso
 
Nell'universo concentrazionario immaginato da George Orwell in “1984”, vi era un’istituzione che più di ogni altra “incuteva un autentico terrore”: il ministero dell'Amore. Era l'unico privo di finestre perché nulla doveva trapelare all'esterno. Ai contatti con il mondo provvedeva il ministero della Verità, dove si cancellava la memoria delle notizie sgradite e se ne confezionavano di verosimilmente false. Solo il partito poteva decretare quando il vero era falso, e il falso vero.
Tutto questo suona familiare nel paese di Berluscandia. Non è vero il ritardo degli apparatniki pidiellini nel presentare le liste, non è vera la mancanza di timbri e bolli, non è vera la nonviolenza dei radicali (anzi, ecco un 'vero' scoop: sono i radicali i violenti, non i nostalgici del manganello). La realtà non esiste in sé: si materializza solo quando filtra dagli alambicchi comunicativi di Palazzo Chigi.
Così nasce e si impone il “ben pensare”: eliminando i fatti sgradevoli e diffondendo urbi et orbi la loro “giusta” versione. L'allucinante conferenza stampa del presidente del Consiglio che ribaltava su giudici e avversari politici la responsabilità dei pasticci commessi dai dirigenti del suo partito si attaglia perfettamente allo schema orwelliano. D'un colpo, appena annunciato, il benpensare berlusconiano diventa norma e i più diligenti dei suoi fidi si precipitano in tv a propagarlo, esaltando nordcoreanamente la nuova verità offerta dal capo ai poveri di spirito. E chi aveva dubitato, raddoppia l'impeto e l'entusiasmo. Per riconfermare la propria fedeltà. Perché il capo non sbaglia mai.
Ma il Grande Fratello non solo è l'unica fonte di verità: è anche e soprattutto fonte inesauribile d'amore, anzi è l'amore in sé e per sé. Infatti, come grondano d'amore le parole sue - e dei suoi seguaci - quando si rivolge agli avversari! Con quanta soavità e gentilezza li tratta! Questa continua inversione della realtà, questa continua manomissione dei fatti, costruisce uno scenario tanto fittizio quanto plausibile agli occhi di molti.
Perché? Perché agisce su potenti leve pre-politiche. Affinché lo scenario imposto dal Grande Fratello diventi credibile, va scatenata una gigantesca energia emotiva che diriga affettivamente l'attenzione, e poi l'adesione, alle parole del capo. Ogni richiamo a dati di fatto empiricamente verificabili, ogni ragionamento logico-razionale, ogni analisi critica, vengono travolti dalla potenza evocativa dei riferimenti mitico-simbolici al bene e al male. Tutto viene ridotto alla divisione del mondo tra chi ama e chi odia. Cioè alla massima semplificazione possibile delle categorie interpretative del reale, quelle che ogni persona, anche la meno articolata, utilizza per orientarsi nel mondo.
Adottando categorie dotate di valenze affettive così forti, che trascendono quelle cognitive-razionali, nel momento in cui vengono traslate in politica creano identificazioni e fedeltà solidissime. Staccarsene produce un trauma affettivo oltre ad uno spaesamento: se non sono più nel bene, vuol dire che sprofondo nel male?
La degradazione della politica italiana passa anche da questo riduzionismo etico-politico. La incanala lungo una strada di odio ideologico che pensavamo di aver lasciato alle spalle alla fine degli anni Settanta, quando esistevano i nemici del popolo o i nemici della nazione a seconda degli orientamenti politici.
Ci sono voluti i lunghi anni di piombo per riconoscere che il Sistema imperialistico delle multinazionali dei brigatisti era una ridicola stupidaggine, e che le cospirazioni comuniste contro la parte sana della nazione erano deliri di fanatici nostalgici. C'è voluto quel buissimo periodo per ritornare ad una politica magari noiosa e piatta, ma decentemente rispettosa delle posizioni degli altri, una politica dove nessuno si impossessava più del bene contro il male, dove nessuno brandiva più la spada dell'arcangelo Gabriele per schiacciare il drago impuro e maligno.
Ora, il ministero dell'Amore torna ad imporsi sulla scena. Come il Winston Smith di “1984”, anche noi che resistiamo al ”buon volere” del Grande Fratello, alla fine, dopo innumerevoli lavaggi del cervello minzoliniani, saremo costretti ad arrenderci?
(25 marzo 2010)













 


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