Prima di chiudere per un periodo di ferie, lascio un paio di commenti domenicali scritti con la solita illuminante capacità di analisi e di giudizio che ammiro moltissimo nei due autori.
Temo che di fronte alla crassa ignoranza di papi, servi e legaioli ben altro servirebbe, ma almeno verso costoro (elettori compresi) ribadisco la mia superiorità intellettuale.
Buone vacanze, se possibile.
IL COMMENTO
Perché
di EUGENIO SCALFARI
Insomma isteria. Isteria da insicurezza psicologica, economica, politica.
Osservo tuttavia che il presidente del Consiglio non è il solo a soffrire di questo sintomo e a manifestarlo con i suoi comportamenti. Ne sta infatti visibilmente soffrendo il partito a lui più vicino, quello dalla cui tenuta dipende la permanenza in carica del governo e del premier. Parlo della Lega Nord e del terzetto che la guida: Umberto Bossi e i suoi colonnelli Calderoli e Maroni. I loro più recenti comportamenti non consentono dubbi su questa diagnosi: il terzetto di punta della Lega sembra in preda ad un male oscuro al quale cerca di sottrarsi inseguendo alternative che hanno il solo effetto di peggiorare la situazione e di scaricarne gli effetti negativi non tanto sulla
Lega quanto sull'intera comunità nazionale.
Le due insicurezze e le isterie che ne derivano - quella del premier e quella della Lega - rischiano di raggiungere la loro massima intensità nei prossimi mesi a partire dalla ripresa di settembre, con conseguenze preoccupanti sulla tenuta democratica. Perciò è urgente e necessario approfondire questa diagnosi e ricercarne le cause.
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Sappiamo da sempre quali siano gli obiettivi politici della Lega: staccare le sorti del lombardo-veneto e possibilmente dell'intera Padania dal resto del Paese. Per un lungo periodo vagheggiarono una vera e propria secessione mantenendo semmai un innocuo legame confederativo con le altre zone del paese. Ma visto che
L'obiettivo era ed è quello di trattenere il reddito e la ricchezza nei luoghi dove si forma, concedendo blande forme di perequazione alle zone più deboli. E poiché l'alleanza politica con
Poiché un obiettivo così complesso come quello di trasformare uno Stato unitario e centralizzato in un'unione di regioni federate aveva bisogno di aggregare ampi e solidi consensi in tutto il Paese e poiché il federalismo in quanto tale quei consensi non era in grado di produrli, gli strumenti per ottenerli furono individuati nei due temi, strettamente connessi tra loro, della sicurezza e della lotta contro l'immigrazione.
Fu messa in campo tutta la potenza mediatica della quale Berlusconi dispone per montare al massimo la "paura percepita" dei reati e il loro collegamento con l'immigrazione. In particolare con quella clandestina, ma anche con quella regolarizzata che ammonta ormai a quasi 5 milioni di persone.
Questa strategia, che aveva già dato i primi risultati nella legislatura 2001-2006, fu ampiamente premiata durante la campagna elettorale del 2007 ed ha raggiunto ora il punto culmine di attuazione. La legge-quadro sul federalismo è stata votata (con l'astensione del centrosinistra) nello scorso maggio. Pochi giorni fa è stata approvata la legge sulla sicurezza. Alla ripresa di settembre verranno sul tavolo i problemi della delega e dei decreti delegati per la graduale attuazione del federalismo fiscale, nonché la riforma costituzionale che trasformerà il Senato in Assemblea delle autonomie con tutto il ricasco che una tale trasformazione avrà sull'organizzazione del governo, delle istituzioni di controllo a cominciare dal Parlamento, dalla Corte costituzionale e dall'Ordine giudiziario. Per finire con inevitabili modifiche sul ruolo del presidente della Repubblica.
Insomma, un sommovimento istituzionale di ampie dimensioni che ha come radice il federalismo fiscale e come obiettivo della Lega quello di "isolare" la parte ricca ed efficiente del paese dal contagio con la parte "povera, brutta e cattiva" che vive "oziosa e parassitaria" nel Centro e nel Sud.
Poiché questa strategia sta andando avanti ed è stata fin qui largamente premiata per l'asse Berlusconi-Bossi, sembrerebbe incongruo parlare di isteria, soprattutto per quanto riguarda
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Voglio dire che, passando da una versione generica e ideologica ad una concreta, sono emerse alcune gravi difficoltà ed alcune profonde reazioni che stanno prendendo corpo e suscitando crescente inquietudine. Non si tratta soltanto della rabbiosa rivendicazione dei siciliani di Lombardo e di Micciché, che il premier è ancora in grado di tacitare con regalie personali e spostamento di risorse.
Si tratta dell'incognita del federalismo fiscale che è arrivata ormai al punto di svolta. Dopo la legge-quadro che è stata un puro elenco di intenzioni e di vaghi principi, si profila ora il passaggio dall'ideologia al merito, emergono le contraddizioni, la diversità degli interessi, la complessità dei parametri e soprattutto l'incognita del costo.
Nessuno è in grado di dire quanto costerà il federalismo fiscale, chi ne sopporterà l'onere maggiore, quali ne saranno i vantaggi per la comunità nazionale, per le zone più ricche come per quelle più povere, tenendo presente che ricchezza e povertà non sono divisibili soltanto tra il Nord e il Sud poiché aree ricche esistono anche nel Mezzogiorno (soprattutto quelle che coincidono con le organizzazioni criminali e con le clientele della zona grigia) così come sacche di povertà frastagliano anche il Nord.
Le cifre del federalismo fiscale non le conosce nessuno, neppure il ministro dell'Economia che pure dovrebbe esserne debitamente informato. Quelle cifre danno (a regime) un saldo attivo o un saldo passivo? Quanto tempo dovrà passare perché il sistema funzioni a pieno ritmo? E che cosa accadrà nel frattempo, quali scosse, quali tensioni si verificheranno e quali ceti sociali e quali territori avvertiranno quelle scosse con maggiore intensità?
Questo nodo di domande ha fatto dire a chi spinge avanti il progetto federalista che la qualità del budino si conoscerà dopo averlo mangiato. Lo stesso Tremonti ha usato l'immagine del budino.
Dal canto mio dico, parafrasando, che il federalismo fiscale è come l'araba fenice: che ci sia ciascuno lo dice, come sia nessuno lo sa. Potrà essere un salto di qualità oppure una trappola di sabbie mobili, una più solida democrazia oppure un brulicare di burocrazie, un diretto controllo dei cittadini o una delega in bianco a gruppi di potere locali. Infine un'accresciuta solidarietà oppure una secessione silenziosa e lo sfasciamento del paese.
Tutto si svolge alla cieca. Ecco perché perfino
Nel frattempo però il consenso popolare rischia di smottare e alcuni segnali già ci sono.
In vista di questo pericolo il terzetto di punta della Lega ha deciso di fare "ammuina": le ronde, le gabbie salariali, il ritiro delle missioni militari all'estero, la guerra delle bandiere regionali contro quella nazionale, sono pura e semplice "ammuina" per nascondere che l'incognita del federalismo fa paura perfino a coloro che lo hanno voluto e portato avanti fino ad un punto di non ritorno.
Domenica scorsa scrissi che questa situazione di disfacimento e di secessione silenziosa richiede il lancio di un allarme rosso che blocchi la deriva e metta in campo tutte le energie positive, latenti ma disperse, e le riporti in campo. Ripeto quel mio invito. E' il momento che queste energie potenziali entrino in scena, si manifestino, usino gli strumenti che ci sono per costruirne altri più appropriati ed efficaci.
Temo che non ci sia tempo da perdere. L'abbiamo detto tante volte in questi quindici anni ed anche prima. Purtroppo era sempre vero ma questa volta è più vero che mai.
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Post Scriptum. Il ministro Brunetta (ma sì, quel simpaticone) ci ha scritto una lettera a proposito dello sfondamento della spesa ordinaria di 35 miliardi tra il 2008 e il 2009. Avevo scritto che uno sfondamento di tali dimensioni in una fase di crisi e dissesto dei nostri conti pubblici (anche se il ministro Tremonti continua pervicacemente a negare quest'evidenza da lui stesso documentata nell'ultimo Dpef) era incomprensibile. Quei miliardi di euro equivalgono ad un aumento del 4,9 per cento della spesa ordinaria. Vogliamo sapere a che cosa sono serviti. E' una curiosità morbosa? Tremonti dovrebbe rispondere ma ecco che in sua vece ha risposto Brunetta nella lettera da noi pubblicata.
So bene che con questo "post scriptum" espongo i lettori di "Repubblica" al rischio di un'altra lettera del Brunetta medesimo, ma le cifre da lui fornite chiedono risposta.
Dunque. Scrive il ministro della Funzione pubblica che tra il 2008 e il 2009 le spese della Pubblica amministrazione destinate al personale sono aumentate di circa quattro miliardi. Il ministro ne spiega la ragione e noi non vogliamo entrare nel merito. Spiega anche che la spesa per "Consumi intermedi" è a sua volta aumentata da un anno all'altro di 3850 milioni. Non dice il perché, debbo dedurne che si tratta di sprechi.
Altro Brunetta non dice. Il totale delle risorse da lui giustificate nel modo suddetto ammonta dunque a poco meno di otto miliardi. Lo sfondamento della spesa ordinaria è stato di 35 miliardi. La differenza per la quale attendiamo ancora notizie dal ministro dell'Economia o dal suo vice alla Funzione pubblica è quindi di 27 miliardi di euro. Volete per favore dire alla pubblica opinione come diavolo li avete spesi?
La storia. Passato e presente
Quando ci chiamavano clandestini o «musi neri»
Negli Usa eravamo «Wop»: without passport, senza documenti
di Gian Antonio Stella
Chi rende onore ai ventisette milioni di emigrati italiani: chi ricorda la storia tutta intera, coi suoi dolori, le sue disperazioni, i suoi lutti, o chi ne ricorda solo un pezzo, «addomesticandola» per ragioni di bottega? Il tema è tornato a dividere la politica anche ieri, nell’anniversario di una delle grandi tragedie della nostra storia, quella di Marcinelle. Di qua Giorgio Napolitano e Gianfranco Fini, a chiedere per gli immigrati un po’ di rispetto. Di là i leghisti. Spintisi con Umberto Bossi a liquidare il tema facendo di ogni erba un fascio: «Noi andavamo a lavorare, non ad ammazzare la gente».
«Il ricordo delle generazioni che hanno vissuto l’angoscioso periodo delle migrazioni dalle regioni più povere dell’Italia », ha scritto il capo dello Stato nel suo messaggio, «deve costituire ulteriore motivo di riflessione sui temi della piena integrazione degli immigrati». «Il lavoratore merita rispetto anche se non ha il ' papier ', il documento», ha spiegato il presidente della Camera in visita in Belgio, «Poi ci si può dividere sulle politiche dell’immigrazione ma è inammissibile che si possa considerare il lavoratore non come un uomo o una donna che meritano rispetto, ma come momentaneo supporto di cui si ha necessità». Di più: «All’epoca gli italiani che lavoravano qui non erano extracomunitari perché la parola non era ancora stata inventata, ma qualche volta erano considerati diversi, 'musi neri'». Di più ancora: «Quegli italiani non venivano solo dal Sud ma anche dal Nord Italia, come dimostra 'l’anagrafe' della tragedia di Marcinelle» e sarebbe bene che questa «verità storica» fosse ricordata dagli «esponenti politici che rappresentano il Nord nel nostro Paese». Non l’avessero mai detto! Certo, «il lavoratore in quanto uomo o in quanto donna merita sempre rispetto», ha risposto Roberto Calderoli, «ma col dovuto rispetto va anche processato ed espulso, quando non sia in possesso dei requisiti necessari». E mentre il senatore leghista Gianvittore Vaccari rispondeva piccato che «noi eravamo andati a dare un contributo alle singole nazioni, quindi non solo per la mancanza di lavoro in Italia», Roberto Cota si è spinto più in là, dicendo che «l’introduzione del reato di clandestinità è la prima forma di rispetto e di chiarezza nei confronti di tutti» e che i nostri emigrati vanno ricordati «come esempio di chi rispettava le regole del Paese ospitante». Prova provata che, prima di sottoporre i professori alla prova di dialetto, è indispensabile introdurre nei programmi di scuola la storia della nostra emigrazione.
Che i nostri nonni e i nostri padri non siano «mai stati clandestini» come si avventurò a sostenere anche Carlo Sgorlon, è una sciocchezza smentita non solo dalla memoria di quanti hanno vissuto l’emigrazione, dal nostro soprannome in America («Wop»: without passport , senza documenti) o dalle copertine della Domenica del Corriere che raccontavano di mamme travolte sulle Alpi da tempeste di neve come Angela Vitale che «si era messa in viaggio dalla lontana Sicilia con i suoi sei bambini», ma da decine di studi italiani e stranieri. Certo, in alcune fasi storiche e in alcuni paesi la nostra emigrazione è stata «anche » regolare e concordata con accordi bilaterali, ad esempio, quello con Bruxelles del 1946: «Per ogni scaglione di 1.000 operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà in Italia: tonn. 2500 mensili di carbone...». Tuttavia anche in quegli anni c’erano due correnti parallele. Una di emigranti regolari, l’altra di clandestini. Che attraversavano le Alpi lungo i sentieri battuti nel 1947 dall’inviato del Corriere Egisto Corradi («passavano centinaia e centinaia di emigranti per notte: una volta ne passarono mille in poco più di ventiquattr’ore, con nidiate intere di bambini») in condizioni spesso così disperate che a un certo punto il sindaco di Giaglione, in alta Val di Susa, fu costretto a invocare un finanziamento supplementare alla prefettura di Torino «non avendo più risorse per dare sepoltura ai clandestini che morivano nell’impresa disperata di valicare le Alpi».
Gli italiani, oltre ad avere conquistato la stima, la riconoscenza, l’affetto dei Paesi che hanno pacificamente «invaso», hanno «detenuto a lungo il primato dell’esodo clandestino», ha scritto Sandro Rinauro, docente alla Statale di Milano, nel libro Il cammino della speranza con il quale ha seppellito sotto tonnellate di documenti inequivocabili (258 note per il solo capitolo terzo, 262 per il quarto) tutti i luoghi comuni costruiti intorno alla tesi che «i nostri avevano sempre le carte in regola». E senza ricordare le esperienze estreme, come i 1.300 italiani morti nella guerra d’Indocina dopo essere stati in buona parte costretti ad arruolarsi nella Legione Straniera perché sorpresi dalla gendarmerie all’ingresso clandestino in Francia (come Rosario Caruso detto «Sarino », che passò il Piccolo San Bernardo con Egisto Corradi tirandosi dietro nella neve una valigia con 35 chili di fichi secchi) basti rifarsi ai dati ufficiali francesi del ’57: «Degli 80.385 lavoratori permanenti giunti dalla penisola in quell’anno, 44.852 erano entrati regolarmente e 35 533 furono regolarizzati dopo che erano riusciti a penetrare impunemente». Vogliamo rileggere il rapporto del direttore della Manodopera straniera del ministero del Lavoro parigino, Alfred Rosier, alla fine del 1948? Dei 15.000 italiani presenti nel dipartimento agricolo del Gers, «il 95%» era «irregolare o clandestino».
Quanto ai familiari, erano entrati illegalmente in Francia addirittura «il 90%». Come all’ 80% erano entrati irregolarmente gli italiani censiti nell’area di Parigi dall’Institut national d’études démographiques. Di dov’erano? Anche qui ha ragione Fini. Ce lo ricorda, tra mille altri documenti, una relazione del Comitato di Italia Libera di Nancy consegnata alla Croce Rossa italiana di Parigi su 47 clandestini rifiutati e non regolarizzati (anche allora a molti imprenditori facevano comodo i clandestini da sottopagare...) perché deboli di salute. Venivano in ordine decrescente dalle province di Bergamo, Padova, Udine, Vicenza, Belluno, Verona, Treviso... Era il 1946. Ecco, nel giorno in cui entra in vigore una legge che solo pochi anni fa avrebbe colpito centinaia di migliaia di nostri nonni, padri, fratelli, val la pena di ricordarlo. O come minimo di riflettere su un punto: un conto è la durezza (sacrosanta) contro i delinquenti e la gestione, anche severa, dei flussi immigratori e un altro è sparare nel mucchio come ha fatto ieri il segretario della Lega fingendo di ignorare quanti extracomunitari perbene (che regalano all’Italia, tra parentesi, oltre il 9,2% del Pil) hanno fatto la fortuna di tanti imprenditori anche leghisti che mai si sognerebbero, come fece tempo fa lo stesso Bossi, di chiamare i neri «bingo bongo».
Corriere della Sera (9 agosto 2009)
Buone vacanze anche a te, Frank. Staccare per un po' e rilassarsi fa bene. Dammi retta.
RispondiEliminaArtemisia
Artemisia, grazie, ho gradito: gli auspici e la vacanza. Eccomi tornato.
RispondiEliminaCari saluti